Il comandante bosniaco che preferì restare umano

Venerdì di Repubblica, 10.1.2017

“Non chiamatemi eroe, sono soltanto un uomo”: Amir Reko continua a ripeterlo tutte le volte che viene chiamato a raccontare la sua storia, tragica ed esemplare, accaduta esattamente venticinque anni fa, agli albori della guerra di Bosnia. Eppure questo ex militare dallo sguardo triste, oggi poco più che cinquantenne, è riuscito con un solo gesto a contraddire tutti i luoghi comuni sul rancore cieco e vendicativo del conflitto nei Balcani. Era diventato da poco comandante della 43esima Brigata di difesa territoriale bosniaca, in quella maledetta estate del 1992, quando venne informato che le milizie serbe avevano attaccato il villaggio di Gudelj, a poco più di cento chilometri da Sarajevo, massacrando la popolazione. Nella lista dei civili bruciati vivi nelle loro case c’erano sua madre, suo nonno e altri cinque componenti della sua famiglia. Un paio di giorni dopo il Comando bosniaco ordinò alla sua divisione di attaccare il vicino villaggio di Bucje, a maggioranza serba, perché rappresentava una possibile minaccia. Il destino gli stava offrendo la possibilità immediata di vendicarsi, di sfogare la sua rabbia e la sua disperazione su altri civili innocenti e inermi come i suoi familiari. Ma la sua coscienza si ribellò di fronte all’orrore e gli impedì di diventare a sua volta un carnefice. “Non condividevo il modo in cui ci ordinavano di attaccare il villaggio, sapevo che avrebbe avuto conseguenze fatali per donne, vecchi e bambini – spiega oggi – così rassicurai gli abitanti dicendo che non avremmo torto loro un capello, e feci in modo che si mettessero al sicuro”. Alcuni dei suoi uomini avevano perso i propri cari per mano dei serbi e non condivisero la sua decisione. Qualcuno lo accusò di essere un debole, un codardo, e gli disse che il suo gesto non avrebbe evitato l’ennesima pulizia etnica nell’area. Invece i quarantacinque abitanti di Bucje si salvarono tutti e oggi riconoscono di essere vivi soltanto grazie a lui. La sua vicenda è rimasta a lungo nell’oblio anche perché in Bosnia c’è ancora una certa reticenza a raccontare storie simili, per timore di essere accusati di tradimento dalla propria comunità. A renderla pubblica è stata un documentario prodotto dall’Institute for War and Peace Reporting di Londra, nel quale Reko pronuncia parole che suonano come un inno alla convivenza e alla tolleranza. “Mia nonna fu salvata da un serbo durante la Seconda guerra mondiale, io stesso nel 1992 sono stato salvato da un commilitone serbo che mi aiutò a oltrepassare le linee nemiche per raggiungere la città Gorazde, mia madre ha sempre convissuto con i serbi, prima di essere uccisa, e quindi non posso condannare l’intero popolo serbo per quello che è successo alla mia famiglia”. Dopo la guerra Reko ha lasciato il suo paese per trasferirsi in Danimarca, dove si è costruito una nuova vita diventando un uomo d’affari. La sua azienda produce piatti da cucina in legno che vengono venduti nei supermercati dei paesi scandinavi e da poco ha aperto anche una filiale in Bosnia. Nel frattempo sono state lanciate iniziative per proporre la sua candidatura al Nobel per la pace e per raccontare la sua storia in un film. Di fronte a quel che resta della sua casa bruciata, l’ex comandante Reko ha fatto costruire un monumento alla memoria di sua madre e della sua famiglia. “È difficile restare umani durante una guerra come quella, ma niente può giustificare certi crimini – spiega -. Non credo di essere un eroe, ho fatto solo quello che chiunque avrebbe dovuto fare in una situazione simile”.
RM

Srebrenica, il parco della memoria

Da “Avvenire” di oggi

Oltre 8mila alberi e piante per tenere viva la memoria del peggior crimine compiuto in Europa dopo la Seconda guerra mondiale, per simboleggiare la risurrezione di altrettante vittime innocenti. Mentre si avvicina il ventesimo anniversario del genocidio di Srebrenica, sono stati piantati i primi alberi del “Bosco della memoria 8372”, un progetto ideato dall’associazione bosniaca Muftijstvo Gorazde con il sostegno del governo, del cantone e del comune. srebrenica1Per dar vita al primo complesso memoriale del genere in Bosnia è stata scelta una collina che domina la cittadina di Gorazde, un’area di oltre quattro ettari di terreno al centro della quale sarà issato un grande fiore, simbolo di Srebrenica, verde al centro e circondato da undici petali bianchi. Ricorderà per sempre quello che accadde poco lontano da qui l’11 luglio del 1995, quando le truppe serbo-bosniache del generale Ratko Mladic trucidarono almeno 8372 persone, in gran parte vecchi, bambini e ragazzi, macchiandosi del più grave atto di pulizia etnica delle guerre balcaniche degli anni ’90. Il parco ospiterà alberi di castagno, frassino e abete rosso – uno per ciascuna delle vittime del genocidio – oltre a diverse specie di piante, che si alterneranno a sentieri, terrazze con viste panoramiche e panchine per i visitatori. 
Sette arbusti saranno invece piantati per ricordare il mese del genocidio. Pochi giorni fa, nel corso della piantumazione delle prime piante, è stato spiegato che il progetto non è dedicato soltanto a Srebrenica, ma a tutte le vittime delle guerre, presenti e passate. “Dopo la Seconda guerra mondiale – ha detto il muftì di Gorazde, Remzija Pitic – abbiamo detto ‘mai più’, ma purtroppo il mondo non ha imparato alcuna lezione da quello che è accaduto a Srebrenica, come possiamo vedere oggi in Siria, in Iraq, in Ucraina e in molti altre parti del mondo. Vogliamo che questo parco della memoria ricordi per sempre i drammi del passato e contribuisca a evitare che drammi simili si ripetano in futuro”.
Il lancio del progetto “8372 Srebrenica Memorial Forest” inaugura di fatto le commemorazioni che si terranno come sempre l’11 luglio ma che quest’anno assumono un carattere particolare per via di un ventennale che purtroppo non si annuncia privo di polemiche, sia per l’annunciata defezione del presidente serbo Tomislav Nikolic, che ha già declinato l’invito all’annuale cerimonia che si tiene nella piana di Potocari, il luogo dove si consumò il dramma, sia per la sentenza d’appello che qualche settimana fa ha confermato l’assoluzione di Thomas Karremans, il comandante olandese delle truppe Onu accusato di non aver protetto le migliaia di sfollati che finirono nelle mani degli uomini di Mladic.
Non è un caso che un’iniziativa come quella del “Bosco della memoria 8372” nasca proprio a Gorazde, piccola cittadina bosniaca di poco più di 22mila abitanti a meno di cento chilometri da Sarajevo, sulla riva sinistra della Drina. Nella primavera del 1994 si consumò qua un tragico assedio da parte delle truppe serbo-bosniache, che si fecero beffe delle risoluzioni Onu uccidendo centinaia di persone in poco più di un mese. Le postazioni di artiglieria dell’esercito serbo-bosniaco guidate dal generale Mladic, appostate sulle colline circostanti, bombardarono la città a un ritmo di tre granate al minuto, mentre i carri armati colpivano dalla riva destra della Drina. La presunta “zona di sicurezza” di Gorazde che le Nazioni Unite avrebbero dovuto proteggere era in realtà destinata a rivelarsi un fallimento: l’enclave musulmana fu facilmente attaccata dai serbi, proprio come sarebbe accaduto l’anno dopo a Srebrenica, seppur con esiti assai più drammatici. Oggi, con un effimero senno di poi, si può affermare che la diplomazia internazionale avrebbe potuto – e dovuto – far tesoro di quanto accaduto a Gorazde per evitare il genocidio di Srebrenica.
RM