I palestinesi come gli indiani d’America

di Barbara Spinelli
(Il Fatto Quotidiano, 31 gennaio 2020)

Prima o poi il principio di realtà doveva prevalere: proclamata solennemente dall’Onu 46 anni fa, la formula che avrebbe pacificato il Medio Oriente – “Due Stati-Due popoli” – si sarebbe rivelata caduca e improponibile, sommersa dalla forza delle armi e dai fatti creati sul terreno. Chiunque abbia visitato i territori occupati, o abbia solo adocchiato una mappa, poteva rendersene conto da anni: è inverosimile un funzionante Stato palestinese su una terra disseminata di colonie israeliane a macchia di leopardo. Fra il 1967 e il 2017, gli insediamenti in Cisgiordania e Gerusalemme Est sono saliti a circa 200, abitati da circa 620.000 israeliani, protetti dai soldati della madre patria e cittadini israeliani a tutti gli effetti. I palestinesi sono circa 3 milioni. I due popoli sono in conflitto costante. L’accesso alle singole colonie avviene attraverso posti di blocco simili ai checkpoint lungo i confini di Israele.

Eludendo le risoluzioni Onu, il Piano Trump – congegnato da Jared Kushner, genero e consigliere presidenziale – fotografa l’esistente e costruisce su di esso una “visione” che più ingannevole non potrebbe essere: ai palestinesi sarà concesso di chiamarsi Stato – si assicura nelle 181 pagine del Piano – ma a condizione che mai diventi uno Stato autentico. Non saranno edificate altre colonie, ma nessuna delle esistenti sarà smantellata o assoggettata al nuovo Stato: resteranno parte di Israele e connesse a esso tramite esclusive vie di trasporto controllate dalla potenza occupante (anche oggi è così: comode autostrade per israeliani; strade più lunghe e impervie per i nativi). Israele avrà la sovranità militare sull’intera area palestinese, controllerà lo spazio aereo a ovest del Giordano e a quello aereo-marittimo di Gaza, nonché i confini dal nuovo Stato. Le risorse naturali saranno cogestite.
Tale sarà dunque la futura Palestina: una riserva per pellerossa, un Bantustan. Non uno Stato con qualche enclave israeliana chiamata a rispondere almeno amministrativamente alla Palestina, ma una serie di enclave palestinesi incuneate nella Grande Israele. Non si sa con quali mezzi bellici Gaza sarà disarmata e le sue ribellioni sedate. A ciò si aggiunga che la valle del Giordano sarà comunque annessa da Israele “per motivi di sicurezza”, come annunciato recentemente da Netanyahu nonché dal suo “grande avversario” Benny Gantz, suo sosia almeno per il momento.
Quando parla di Stato palestinese, Trump mente sapendo di mentire, e con un proposito preciso. Una volta appurato che i due Stati in senso classico non sono più realisticamente praticabili, la formula da aggirare a ogni costo è quella che sta mettendo radici nel popolo palestinese e in un certo numero di israeliani (a cominciare dagli arabi israeliani): il possibile Stato bi-nazionale, dove i due popoli convivano in pace e i suoi cittadini alla fine si contino democraticamente. Se dovesse nascere uno Stato unitario israelo-palestinese (federale o confederale), due sono infatti le vie: o uno Stato ebraico stile bianca Sudafrica, non democratico visto che una parte della popolazione vivrebbe senza diritti in apartheid, oppure Israele resterà democratica ma in tal caso verrà prima o poi e legalmente reclamata la regola aurea della democrazia, consistente nel voto eguale per ciascun cittadino: un uomo, un voto.
Israele sarebbe costretta a modificare la propria natura etnico-religiosa (suggellata nel maggio ’17 con una legge che degrada la lingua araba a lingua non ufficiale con statuto speciale). Sarebbe uno Stato ebraico e anche palestinese, non più scheggia americana come temeva Hannah Arendt. Un crescente numero di palestinesi, un certo numero di israeliani e parte della diaspora ebraica considera che “Due Stati-Due popoli” sia un treno ormai passato, e che l’unica prospettiva realistica – anche per superare l’ostilità iraniana – sia lo Stato bi-nazionale. Una soluzione certo delicatissima: non solo perché muterebbe demograficamente lo Stato ebraico, ma perché la trasformazione presuppone una pace duratura fra le due parti. L’Unione europea fu pensata durante l’ultima guerra mondiale ma vide la luce dopo la riconciliazione Germania- Francia. Non siamo a questo punto in Medio Oriente.
Il Piano Trump non aspira a tale riconciliazione. Promette nuove intifade e guerre. Destabilizza la Giordania, chiamata ad assorbire buona parte dei profughi palestinesi di stanza in Israele, e getta nell’imbarazzo Egitto e forse Arabia Saudita.
Il piano inoltre contiene vere provocazioni, negando perfino il diritto del futuro Stato a fare appello alle istituzioni internazionali tra cui la Corte penale internazionale. Viene vietato ai suoi cittadini di rivolgersi a qualsiasi organizzazione internazionale senza il consenso dello Stato di Israele, ed è bandito qualsiasi provvedimento, futuro o pendente, che metta in causa “Israele o gli Usa di fronte alla Corte penale internazionale, la Corte internazionale di giustizia o qualsiasi altro tribunale”.
In tutti i modi, infine, si evita di accrescere il peso numerico-elettorale degli arabi israeliani (in crescita, nelle ultime elezioni). Il piano prevede che gran parte delle comunità palestinesi abitanti in Israele – il cosiddetto “triangolo” – sia assegnata al semi-Stato palestinese o altri Stati arabi. Gli arabi israeliani diminuirebbero. Avigdor Lieberman, leader dei nazionalisti di Beiteinu, propose tale trasferimento già nel 2004, avversato dalle sinistre israeliane e dagli arabi israeliani.
Il giornalista Gideon Levy sostiene che Trump ha in mente una nuova Nakba (la “catastrofe” di 700.000 Palestinesi sfollati nel 1948). Mai consultati né convocati, i palestinesi sono stati messi davanti al fatto compiuto alla pari di reietti. In cambio riceveranno croste di pane allettanti (miliardi di dollari, versati da non si sa quali Stati arabi).
Questa pace dei vincitori dovrebbe essere respinta dagli Stati europei, non solo a parole. Non limitandosi a ripetere “Due Stati-Due popoli”, mantra svigorito e ora accaparrato/pervertito da Trump. Bensì difendendo le leggi internazionali e rifiutando di considerare come antisemitismo ogni critica dell’occupazione israeliana (la definizione IHRA dell’antisemitismo, approvata dal Parlamento europeo oltre che dal governo Conte il 17 gennaio scorso). Facendo proprie le parole del nipote di Mandela, Zwelivelile, durante una recente visita a Gerusalemme: “Le enclave Bantustan non funzionarono in Sud Africa e non funzioneranno mai nell’Israele dell’apartheid”.
RM

La forza di un uomo chiamato Mandela

Avvenire, 20 febbraio 2019

“Mandela ripeteva sempre che era stata la speranza a dargli la forza di continuare a lottare. Se lui non l’ha persa in ventisette anni di carcere come possiamo pensare di perderla noi?” Sello Hatang è stato chiamato a dirigere la Fondazione Nelson Mandela durante gli ultimi mesi di vita del grande leader sudafricano, spentosi nella sua casa di Johannesburg il 5 dicembre 2013. Ha dovuto gestire la fase cruciale della sua scomparsa e poi si è dedicato anima e corpo al futuro dell’organizzazione che ha il compito di preservare e diffondere la sua gigantesca eredità politica, intellettuale e umana. Nei giorni scorsi Hatang è stato a Firenze, dove ha ricevuto le chiavi della città a conclusione delle iniziative organizzate in tutto il mondo per il centenario della nascita dello statista sudafricano. L’abbiamo incontrato al Mandela Forum, la struttura fiorentina che anni fa è stata intitolata al Premio Nobel per la pace, e al cui ingresso è stata riprodotta in vetro la cella del carcere di Robben Island dove l’ex presidente trascorse gran parte dei suoi anni di prigionia.

Sello Hatang a Firenze

Poco più che quarantenne, Sello Hatang è oggi uno dei simboli del riscatto del Sudafrica: originario di una famiglia poverissima, ha da sempre un rapporto molto stretto con la chiesa cattolica del suo paese. “In gioventù ho studiato in seminario e stavo per prendere i voti”, ci racconta”. “Ma dopo la morte dei miei fratelli ho cambiato idea anche per aiutare mia madre a tirare avanti. Devo comunque la mia carriera alla Chiesa cattolica sudafricana, che ha finanziato i miei studi universitari”. Prima di arrivare alla Fondazione Hatang ha lavorato alla Commissione per la verità e riconciliazione, l’organismo presieduto dall’arcivescovo Desmond Tutu che fece luce sulle violazioni dei diritti umani commesse durante l’apartheid con un modello di giustizia inedito, fondato sull’ascolto delle vittime e la concessione dell’amnistia ai carnefici.
Com’è cambiata la vita della Fondazione dopo la morte di Mandela?
Nelson Mandela è stato un sognatore, la cui visione lungimirante ha cambiato il mondo. Ci diceva sempre che per preservare la sua eredità morale avremmo dovuto legare le lotte del Sudafrica a tutte le altre battaglie per la giustizia sparse per il mondo. A lungo la fondazione si è impegnata nella realizzazione di progetti educativi e sanitari ma poi ci siamo resi conto che era giunto il momento di concentrarsi sui temi della memoria e del dialogo. Gran parte della nostra attività è oggi dedicata calla conservazione e alla diffusione del suo gigantesco archivio di scritti. Mandela non ha mai usato un computer in vita sua, ha sempre scritto tutto a mano. Continua a leggere “La forza di un uomo chiamato Mandela”

Tunisia, la riconciliazione ispirata al Sudafrica

Avvenire, 5 febbraio 2019

Sihem Bensedrine

A otto anni di distanza dalla Rivoluzione dei Gelsomini che inaugurò con tante speranze la stagione delle Primavere arabe, per la Tunisia è arrivato il momento della catarsi. Per la prima volta un paese del Medioriente è riuscito a far funzionare un organismo incaricato di indagare sui crimini compiuti dal vecchio regime. Merito anche della caparbia determinazione di Sihem Bensedrine, giornalista e storica militante per i diritti umani già vincitrice del Pen Award per la libertà di espressione, il premio assegnato ogni anno agli scrittori perseguitati a causa del loro lavoro. È stata questa carismatica signora 68enne dal sorriso gentile a presiedere i lavori dell’Instance Verité et Dignité (IVD), la Commissione tunisina per la verità e la dignità ispirata all’analogo organismo che operò con successo nel Sudafrica post-apartheid. In quattro anni di intenso lavoro la Commissione ha ascoltato le testimonianze di decine di migliaia di vittime cercando di dar voce alle loro sofferenze, e ha messo finalmente in luce i crimini compiuti dagli apparati repressivi dei regimi di Habib Bourguiba (1957-1987) e del suo successore Ben Ali (1987-2011). Vicende terribili tenute nascoste per decenni a causa dell’omertà, della vergogna e della paura. Il rapporto conclusivo della Commissione – presentato a Tunisi nel dicembre scorso – ha documentato oltre 60mila casi di violazioni dei diritti umani. Un interminabile elenco di omicidi, sparizioni, torture e violenze compiute dalle forze dell’ordine ma anche innumerevoli casi di corruzione di giudici e poliziotti. I numeri della repressione appaiono particolarmente spaventosi per quanto riguarda le donne (circa un quarto dei dossier documentano casi di violenze sessuali) e dei minori, che venivano spesso presi di mira senza alcuna pietà al fine di ricattare i loro genitori. Secondo la Commissione il sistema dispotico si basava proprio su un legame diretto tra le violazioni dei diritti umani e la corruzione finanziaria. Tuttavia è ancora presto per poter affermare che la Tunisia sia riuscita a fare i conti con il suo passato. “Abbiamo lavorato in un clima di forte ostilità”, accusa Bensedrine, “e con tutti gli ostacoli che ci siamo trovati di fronte è un miracolo che siamo riusciti a portare a termine il nostro lavoro”. Non è un caso che nessun esponente dell’attuale governo, né della presidenza della Repubblica sia intervenuto alla presentazione del rapporto finale dell’IVD.
Quali conseguenze potrà avere adesso il lavoro svolto dalla Commissione da lei presieduta?
In primo luogo speriamo che contribuisca a trasformare finalmente la Tunisia in uno stato di diritto. Per farlo è indispensabile conservare la memoria dei crimini del passato e proporre riforme per impedire che fatti simili si ripetano. Molto importante è anche il fondo pubblico creato per risarcire le vittime. Al momento sono stati già trasferiti alla giustizia ordinaria 170 casi di crimini contro l’umanità e di grave corruzione. Il meccanismo di arbitrato ha fatto sì che molti colpevoli accettassero di restituire il denaro sottratto illegalmente allo Stato e in questo modo sono stati recuperati circa 635 milioni di dinari (circa 200 milioni di euro).
Per la prima volta in un paese arabo funziona un organismo di giustizia transizionale. Avete preso esempio in particolare dall’esperienza sudafricana?
Non solo. Nel periodo preparatorio del nostro lavoro, durato circa sei mesi, ci siamo ispirati a tutti gli esperimenti simili che avevano avuto successo in passato. Quindi l’esperienza del Sudafrica ma anche quella della Polonia, dell’Argentina, del Perù e altre ancora. Da ciascuna di esse abbiamo cercato di trarre esempio e forza. Ci è servito soprattutto fare tesoro dei loro sbagli, cercando di imparare qualcosa per non ripeterli. Sapevamo ad esempio dall’esperienza sudafricana che nelle audizioni pubbliche le vittime potevano rimanere fortemente traumatizzate e allora abbiamo previsto un percorso con gli psicologi per stabilire se le vittime potevano o meno essere ammesse a una testimonianza pubblica, senza rischiare nuovi traumi.
Perché fin dal suo insediamento l’IVD ha subito gravi attacchi da parte del mondo politico tunisino?
Purtroppo le ultime elezioni nazionali del 2014 hanno riportato al potere molti elementi legati al vecchio sistema di potere. Alcuni ministri sono gli stessi dei tempi di Ben Ali e fin dall’inizio hanno cercato di ostacolarci sul piano mediatico, per esempio accusandoci di essere un carrozzone corrotto che spreca soldi pubblici. Ci hanno negato l’accesso agli archivi del ministero dell’Interno e dei tribunali militari e ci ha costretto sempre a lavorare in condizioni estremamente difficili.
È lo stesso motivo per cui avete avuto relazioni molto conflittuali anche con l’attuale presidente della Repubblica, Caid Essebsi?
Sì, anche Essebsi appartiene al vecchio sistema, è stato ministro dell’Interno ai tempi di Bourghuiba e poi varie volte ministro con Ben Ali, dunque è normale che ostacoli il nuovo corso. Già in campagna elettorale promise che ci avrebbe messo in bastoni tra le ruote e in nome di una presunta riconciliazione nazionale ha cercato di promuovere un’amnistia a beneficio di chi si è macchiato di gravi crimini e violazioni dei diritti umani.
Tra le migliaia di testimonianze che avete raccolto c’è una storia particolarmente simbolica che può raccontarci?
Sotto il regime di Ben Ali le violazioni dei diritti umani sono state sistematiche anche nei confronti delle donne e dei bambini. Mi è capitato di ascoltare la deposizione particolarmente toccante dei superstiti di una famiglia che è stata letteralmente distrutta. Il padre e la madre erano oppositori del regime e furono arrestati. In seguito i poliziotti sono tornati nell’abitazione della coppia e hanno abusato dei loro tre figli di nove, dieci e dodici anni. Li hanno portati in caserma e li hanno violentati ripetutamente. In seguito la bambina è finita sulla strada, a prostituirsi, mentre uno dei due fratellini si è suicidato. La polizia si è vendicata su quei bambini in modo atroce per punire i loro genitori. Purtroppo non è l’unico caso simile.
La Commissione ha concluso i suoi lavori alla fine del 2018. Cosa potrà accadere nel suo paese adesso?
Il percorso della giustizia transizionale proseguirà con i procedimenti giudiziari, attraverso i quali la Tunisia potrà compiere una sorta di catarsi e diventare finalmente uno stato di diritto con solidi anticorpi che la difendano da possibili future derive autoritarie. Spero che il nuovo parlamento e il nuovo governo che nasceranno dalle elezioni di quest’anno adottino il nostro rapporto e lo rendano pubblico perché dovrà essere la società civile, in ultima istanza, a raccogliere il testimone del lavoro dell’IVD. È importante che si riescano a mettere in pratica le raccomandazioni sulla memoria contenute nel rapporto. Per evitare che un piccolo gruppo di persone possa di nuovo prendere in ostaggio lo stato e trasformarlo nella sua proprietà privata, per impedire che crimini simili si ripetano è indispensabile non dimenticare il passato. E la memoria è il miglior antidoto alla dittatura.
RM

Mandela, autobiografia della riconciliazione

Avvenire, 3.2.2018

“Con la libertà vengono le responsabilità, e io non oso indugiare: il mio lungo cammino non è ancora finito”. La monumentale autobiografia di Nelson Mandela Lungo cammino verso la libertà, uscita per la prima volta in Italia nel 1995, si concludeva con questa frase evocativa, dalla quale prende avvio l’attesissimo seguito di quel libro che ha venduto milioni di copie in tutto il mondo, ispirando anche una recente riduzione cinematografica. Uscito in inglese nell’autunno scorso, Dare Not Linger, il nuovo capitolo sulla vita di uno dei più grandi statisti del XX secolo sta per uscire anche in traduzione italiana col titolo La sfida della libertà. Come nasce una democrazia (Feltrinelli). Racconta gli anni che seguirono la caduta del brutale regime dell’apartheid, dal 1994 al 1999, nei quali Mandela divenne il primo presidente nero del nuovo Sudafrica democratico. Una fase storica cruciale di transizione dopo decenni di dittatura che non era stata finora approfondita, e la cui rilettura appare particolarmente utile anche alla luce degli ultimi sviluppi della politica sudafricana. Mandela cominciò a lavorare al manoscritto di questa seconda autobiografia alla fine del mandato presidenziale ma alla sua morte, nel 2013, la prima bozza del testo non risultava ancora conclusa. Aveva scritto di suo pugno circa settantamila parole, prima che il venir meno delle forze non gli impedisse di continuare. L’arduo compito di portare a termine il lavoro è stato affidato, d’intesa con la Fondazione Nelson Mandela, a una delle voci letterarie più autorevoli del moderno Sudafrica, il poeta e romanziere Mandla Langa, che fu a sua volta incarcerato e poi esiliato dal regime di Pretoria negli anni ‘70. Usando i manoscritti originali, gli appunti e le interviste alle figure politiche di spicco di quegli anni, oltre a materiale d’archivio ancora inedito, Langa è riuscito a ultimare il progetto incompiuto di Mandela anche in vista del centenario della sua nascita, che sarà celebrato il 18 luglio prossimo.
Dal libro non emerge soltanto la sua evoluzione da rivoluzionario a statista, da simbolo della resistenza a politico impegnato nella gestione del potere dopo un’estenuante lotta per la libertà. Suddiviso in capitoli tematici, ciascuno dei quali analizza la trasformazione dello stato, dell’economia e della società sudafricana, il volume racconta anche come Mandela interpretò il suo ruolo di primo presidente del Sudafrica post-apartheid, la sua strategia politica solcata da proverbiali gesti di riconciliazione, l’incessante impegno a difesa di quella rivoluzione democratica di cui era stato protagonista, lo stretto controllo dell’economia e dell’apparato di sicurezza dello stato. “Mi ritengo fortunato”, scrive Mandela, “perché la Storia mi ha permesso di prendere parte alla transizione del Sudafrica verso una nuova era per la quale abbiamo gettato le fondamenta insieme”.
Dalle pagine affiora l’immagine di un leader politico d’altri tempi, abituato a rompere le regole e le convenzioni, a non seguire quasi mai i discorsi scritti, un presidente che poteva insistere per rifarsi il letto in un albergo o pulirsi le scarpe da solo, come ci mostra un’eloquente foto che lo ritrae durante uno spostamento in aereo. C’è poi il gigantesco profilo politico, con risvolti ed episodi inediti che evidenziano i rapporti non sempre idilliaci con il suo predecessore alla presidenza, il bianco Frederik de Klerk, l’uomo che ordinò la sua scarcerazione e nel 1993 fu poi insignito del Nobel insieme a lui. Quando de Klerk gli scrive, chiedendogli di impegnarsi per porre fine alle violenze nella provincia sudorientale del Kwazulu-Natal, Mandela gli risponde a muso duro: “piuttosto che suggerire incontri privi di utilità, preferirei avere un tuo contributo su come affrontare il retaggio del disumano sistema di apartheid del quale sei stato uno degli ideatori”.
Ma la battaglia più grande che Mandela si trova a dover affrontare nel Sudafrica post-apartheid è quella contro la diffusione della piaga dell’Aids, una sfida che lo vedrà infine soccombere e che in anni recenti, come in un fatale contrappasso, gli porterà via anche l’unico figlio maschio. Nei suoi anni da presidente iniziano a scoppiare anche i cosiddetti “Aids scandals” legati ad altrettanti casi di corruzione: nel 1996 la campagna Serafina II per diffondere l’educazione all’Hiv tra le masse travolse l’allora ministro della salute Nkosazana Dlamini-Zuma. Quando la donna gli presentò le dimissioni, Mandela le respinse attirandosi non poche critiche. Sarebbe stato il preludio di un futuro sempre più a tinte fosche, destinato a deflagrare già all’epoca di Thabo Mbeki, il successore che lui stesso aveva designato. Ancora oggi molti suoi detrattori ritengono che Mandela sia almeno in parte responsabile del disastro dell’Aids in Sudafrica – la cui diffusione è cresciuta in modo esponenziale proprio tra gli anni ’90 e Duemila – e degli altri mali di un paese che da tempo versa in una grave crisi, sempre più falcidiato dagli scandali e dalla corruzione. Nella prefazione a questo La sfida della libertà, Langa rievoca i canti della folla riunita alla conferenza del 1997, quella che vide Mandela lasciare per sempre la presidenza dell’African National Congress. “Qualunque cosa fosse accaduta da quel momento in poi, il Sudafrica non sarebbe stato mai più lo stesso, perché non esisteva nessun altro come lui”. E forse proprio il suo idealismo e la sua statura morale gli impedirono di rendersi conto della modestia e della meschinità dei suoi successori. Leggendo questo libro si comprende quanto il Sudafrica odierno abbia tradito molti degli ideali propugnati da Mandela, e quanto la sua gigantesca eredità politica, intellettuale e umana rappresenti un monito per le generazioni future.
RM

Tra ville e favori, Zuma è al capolinea

Venerdì di Repubblica, 23.6.2017

Finora né gli scandali finanziari, né le gigantesche manifestazioni di piazza, né le mozioni di sfiducia del suo stesso partito erano riuscite a scalfire il suo potere: il presidente sudafricano Jacob Zuma era sempre riuscito a salvarsi, dimostrando di essere un politico dalle sette vite. Ma adesso il 74enne ex veterano della lotta anti-apartheid rischia di finire travolto da una valanga di documenti che confermerebbero gravissime accuse contro di lui, il cui contenuto è già in parte trapelato sulla stampa sudafricana. A scoperchiare il vaso di Pandora è stato AmaBhungane, un rispettata Ong locale nota per aver rivelato gravi casi di corruzione governativa. Il suo gruppo di giornalisti investigativi è entrato in possesso di decine di migliaia di email e altri documenti riservati che farebbero definitivamente chiarezza sul cosiddetto “Guptagate”, ovvero i legami tra il leader dell’ANC e i Gupta, una ricca e potente famiglia di origine indiana giunta in Sudafrica dopo la fine dell’apartheid per gestire importanti affari nel campo dell’estrazione di risorse, dell’ingegneria e dell’informatica. La polizia di Johannesburg ha aperto un’inchiesta sulle compromettenti email che dimostrerebbero il ruolo centrale svolto dalle società controllate dai Gupta nel manipolare l’assegnazione di contratti pubblici per centinaia di milioni di dollari. Da parte sua, Zuma avrebbe permesso ad alcuni membri della famiglia di influenzare le nomine decise dalla sua amministrazione, cacciando le figure sgradite e ottenendo in cambio favori. Sia lui che i portavoce dei Gupta hanno respinto tutte le accuse mentre Mmusi Maimane, leader del partito d’opposizione Democratic Alliance, attacca: “i documenti confermano che Zuma è alla guida di uno stato criminale e usa le istituzioni per arricchire sé stesso e i suoi amici”.
Il presidente sudafricano è nell’occhio del ciclone da tempo, e non solo perché una delle sue moglie e due dei suoi figli hanno avuto ruoli dirigenziali o hanno seduto nei consigli di amministrazione di alcune società del gruppo. Nei mesi scorsi un tribunale ha stabilito che aveva utilizzato circa 20 milioni di euro di fondi pubblici per ristrutturare la sua casa, poi l’authority nazionale anti-corruzione ha diffuso un rapporto che chiedeva di istituire una commissione d’inchiesta proprio sui suoi rapporti con i Gupta. Nel frattempo le piazze di Pretoria e di altre città del paese si sono riempite di manifestanti che invocavano a gran voce le sue dimissioni, anche perché il Sudafrica sta attraversando da tempo una grave crisi economica a causa della spesa pubblica fuori controllo e della cattiva gestione delle imprese statali. Le proteste sono divampate di nuovo nell’aprile scorso, quando Zuma ha deciso di cacciare il ministro delle finanze Pravin Gordhan, un politico molto rispettato proprio perché stava cercando di contrastare la corruzione e limitare gli sprechi di denaro pubblico. Infine il Sunday Times sudafricano ha riportato anche la notizia di una villa da 25 milioni di dollari acquistata dai Gupta a Dubai per garantire un buen retiro a Zuma quando andrà in pensione. Forse prevedendo che il suo mandato presidenziale non arriverà alla naturale scadenza, prevista nel 2019.
RM

Il futuro del Sudafrica si decide ai funerali

Venerdì di Repubblica, 26.5.2017

I leader politici di successo, in Sudafrica, devono saper parlare anche ai morti. Nel dicembre prossimo l’African National Congress, il partito che governa il paese dalla fine dell’apartheid, terrà il suo congresso per eleggere il successore di Jacob Zuma, presidente dal 2007, ma se le regole interne non saranno cambiate in corsa, i candidati non potranno svolgere campagna elettorale usando i metodi tradizionali. Nello statuto del partito che fu di Nelson Mandela vige infatti ancora una regola risalente ai tempi lontani in cui l’Anc era un movimento di resistenza clandestino, e che vieta ai suoi leader la partecipazione a comizi e manifestazioni politiche. Per aggirare una norma del tutto anacronistica, che fu varata per motivi di sicurezza e dovrebbe essere presto abolita, i candidati hanno però studiato un metodo ingegnoso. Partecipano con assiduità alle funzioni religiose, alle cerimonie funebri e alle tumulazioni, trasformandole in opportunità per fare proseliti, con il ricordo del ‘caro estinto’ che sfocia spesso in un vero e proprio intervento politico dal pulpito, senza dare troppo nell’occhio. La campagna elettorale al cimitero è infatti un’arte raffinata: bisogna saper lanciare un messaggio conciso ed efficace ma senza farlo apparire un comizio, per non incorrere nelle sanzioni disciplinari previste dal regolamento del partito. La “star” di questo modo alternativo di fare propaganda elettorale è Nkosazana Dlamini, una delle mogli dell’attuale presidente Zuma, che pare anche intenzionata a succedergli alle presidenziali del 2019.

Nkosazana Dlamini

Ma il suo rivale più accreditato alla presidenza dell’Anc, l’attuale vicepresidente Cyril Ramaphosa, non è da meno: qualche settimana fa ha aperto la sua campagna elettorale ‘sotto copertura’ pronunciando un accorato discorso politico durante una conferenza in memoria di Chris Hani, un leader della lotta anti-apartheid assassinato nel 1993.
RM

I guerrieri dimenticati del Sudafrica

di Gianni Sartori

Se questo paese è libero – si rammaricava un ex guerrigliero – e ha potuto organizzare eventi come la Coppa del mondo, lo deve all’MK”, Umkonto we Sizwe, il braccio armato dell’African National Congress (ANC). Ma sembra che all’epoca nessun alto dirigente si fosse recato nel misero ufficio dei reduci, con le pareti ricoperte da manifesti ingialliti, per invitare qualche veterano alle manifestazioni.
863331_733175Tutto era cominciato il 21 marzo 1960. Quel giorno in diversi centri urbani della Repubblica Sudafricana si svolsero manifestazioni, organizzate dal Pan African Congress (PAC), contro l’obbligo per i neri di portare con sé un lasciapassare. Il regime rispose massacrando a Sharpeville decine di persone. Ufficialmente le vittime furono sessantanove, ma i testimoni sostengono che furono molte di più. Altre vittime a Langa (52 morti) e a Nyanga. Seguirono scioperi, manifestazioni, scontri con barricate e assalti agli uffici del Native Affairs Department. Migliaia di persone vennero arrestate, mentre le truppe isolavano i centri della rivolta. In aprile, il governo metteva fuori legge l’ANC e il PAC. Entrambe le organizzazioni costituirono un braccio armato. L’ANC con l’Umkonto we Sizwe (MK, “Ferro di lancia della nazione”) e il Pac con le unità Pogo (“Noi stessi”). Le prime azioni armate dell’MK contro alcuni palazzi ministeriali a Johannesburg, Port Elisabeth e Durban risalgono al dicembre 1961. Nel 1963, a Rivonia, vennero arrestati vari dirigenti dell’organizzazione clandestina e la guerriglia si trasferì nei paesi amici della “linea del fronte”: Zambia, Mozambico, Tanzania, Angola. Proprio in Angola vennero scritte alcune delle pagine più oscure della lotta di liberazione. Accusati di indisciplina e ingiustamente sospettati di tradimento, alcuni guerriglieri del “Campo 4” vennero torturati dai loro stessi compagni. Altri vennero fucilati per essersi rifiutati di tornare a combattere. In seguito, negli anni ’80, l’MK porterà a segno alcune delle sue azioni più spettacolari e disperate: attentati contro i depositi di carburante e lanci di granate contro una centrale nucleare.
Oggi i sopravvissuti dicono di sentirsi “messi da parte, cancellati dalla memoria del paese” come i volti dei loro antichi compagni, morti in combattimento o impiccati nelle carceri. Anche Mandela, il loro ex comandante, sembrava averli dimenticati. L’altro leader, Chris Hani (esponente dell’ANC e del SACP, il partito comunista sudafricano) era stato ammazzato in circostanze non del tutto chiare. Ufficialmente da bianchi razzisti, ma non si esclude un regolamento di conti interno all’ANC.
Divenuto presidente, Jacob Zuma, per un breve periodo esponente dell’MK, aveva costituito un segretariato dotandolo di un modesto finanziamento. Un gesto comunque di buona volontà, anche se per la maggior parte di questi freedom fighters era ormai troppo tardi. Molti ex combattenti, ricordava Kebby Maphatsoe “vivono per la strada e per mangiare rovistano nella spazzatura”. Analogo destino per chi faceva parte delle Unità di autodifesa (SDU), 45mila ragazzi che negli anni ’80 presero alla lettera la consegna di “rendere ingovernabili le townships”. Agli scontri con l’esercito e la polizia si aggiunsero i conflitti settari con l’Inkhata Freedom Party (IFP, definiti “Quisling”, collaborazionisti) e le lotte fratricide con formazioni minori. Una guerra civile a bassa intensità, alimentata ad arte dai servizi segreti del regime di Pretoria.
Con la fine dell’apartheid, dopo un rapidissimo processo di smobilitazione delle strutture della guerriglia, in parte erano stati arruolati nell’esercito. Si temeva che questi uomini, provvisti di armi e abituati ad usarle, venissero utilizzati da gruppi più radicali o dalle gang criminali. La maggior parte non riuscì ad inserirsi e abbandonò l’esercito ritrovandosi in una condizione di emarginazione. Il giornalista Jean-Philippe Rémy del quotidiano francese Le Monde ne aveva incontrati alcuni che si sono isolati sulle montagne del Magaliesberg, non lontano da Johannesburg. Perseguitati dai ricordi, avevano iniziato un processo di purificazione tradizionale che si richiama alle tradizioni guerriere dei popoli nativi.

Emily, la “Gandhi” del Sudafrica

emily“La donna più nobile e coraggiosa”, secondo il Mahatma Gandhi. “Una donna maledetta”, nell’opinione del generale inglese Lord Kitchener, l’uomo forte delle guerre angloboere. Queste due definizioni diametralmente opposte rappresentano il paradigma perfetto della vita e dell’opera di Emily Hobhouse: poco più di una nota a piè di pagina nei libri di storia britannica ma tuttora considerata un’eroina nazionale in Sudafrica, dove denunciò l’esistenza dei campi di concentramento di Sua Maestà, nei quali trovarono una morte orrenda decine di migliaia di boeri. Poiché la storia è spesso fatta anche di punti di vista, poche figure sono riuscite a dividere l’opinione pubblica nell’Inghilterra vittoriana come questa Giovanna d’Arco vissuta all’inizio del XX secolo. Infermiera, pacifista, militante politica, attivista per i diritti umani e, di fatto, missionaria laica nel Sudafrica dilaniato dalle guerre angloboere. Fu proprio lei a scoprire, per prima, le condizioni di vita di donne e bambini rinchiusi su base etnica nei campi d’internamento ai quali alcuni decenni dopo si sarebbero ispirati anche i nazisti del Terzo Reich. Quando nel 1899 scoppiò la seconda guerra contro i coloni sudafricani di origine olandese, Emily Hobhouse non si limitò a organizzare le proteste e a schierarsi apertamente contro il potere imperiale britannico, ma iniziò a raccogliere fondi per aiutare le vittime civili. La sua storia viene raccontata nel dettaglio in That Bloody Woman: the Turbulent Life of Emily Hobhouse (Truran Books), un libro costato otto anni di ricerche al giornalista inglese John Hall, e che si propone di restituire il ruolo che la Storia ha finora inspiegabilmente negato a questa donna originaria di un piccolo paese della Cornovaglia.
Non appena sentì parlare dell’esistenza di un campo di concentramento inglese a Port Elisabeth, la Hobhouse decise di partire per il Sudafrica, dove la realtà che le si parò di fronte agli occhi superava ogni più pessimistica previsione. Quando iniziò a indagare, scoprì che i campi attivi erano già ben quarantacinque, da Johannesburg a Springfontein, da Norvalspont a Kroonstad, da Potchefstroom a Kimberley, fino ad arrivare a Bloemfontein, dov’erano imprigionate circa duemila persone, per la maggior parte donne e bambini. “Al campo mancano i principali beni di sussistenza”, scrisse in un rapporto che recapitò al parlamento di Westminster nel 1901. “All’interno di piccole tende dall’odore nauseabondo, prive di letti e materassi, vivono fino a dodici persone che quasi non possono muoversi, prive di sapone e con un approvvigionamento idrico totalmente insufficiente. Per potersi scaldare, donne e bambini devono andare a raccogliere gli arbusti nelle colline circostanti”. E infatti a causa della fame, delle privazioni e del diffondersi delle peggiori malattie, nei campi morivano già circa cinquanta bambini al giorno, e in diciotto mesi vi furono spazzate via oltre 26000 vite umane, circa 24000 delle quali erano giovani di età inferiore ai sedici anni. Emily si batté strenuamente contro il suo governo e contro gran parte della stampa inglese che la derideva, definendola una ribelle, una bugiarda, una nemica del suo popolo. Alla fine riuscì a migliorare le condizioni di vita nei campi, facendo inviare carri ferroviari e camion carichi di viveri e beni di prima necessità. Gli appelli che rivolse alle autorità del suo paese caddero nel vuoto, ma riuscirono almeno a smuovere l’opinione pubblica, che spinse per la nomina di una commissione d’inchiesta che alla fine del 1901 visitò i campi di concentramento e fece pressioni per migliorarne le condizioni di vita. Per tutta risposta il governo di Londra si vendicò di “quella donna maledetta”, facendola espellere dal Sudafrica. Emily Hobhouse vi avrebbe fatto ritorno soltanto dopo la fine della guerra, per partecipare alla ricostruzione e alla riconciliazione del paese. Portò con sé i macchinari per insegnare alle donne boere l’arte della filatura e della tessitura. Nel Transvaal e nello Stato Libero d’Orange avviò oltre venti scuole per dare un futuro ai sopravvissuti. È qui che conobbe Gandhi, col quale strinse una collaborazione che la portò in seguito anche a prendere a cuore la causa dell’indipendenza dell’India. Morì a Londra nel 1926 e la sua morte, passata quasi inosservata in Inghilterra, fu invece un evento in Sudafrica, dove oltre ventimila persone la salutarono come una principessa, nel corso dei funerali di stato più solenni mai concessi a uno straniero. Questa biografia, arricchita da oltre una cinquantina di fotografie inedite e dalle mappe dei campi di concentramento scoperti e visitati dalla Hobhouse, contribuirà a far riscoprire la vicenda di questa eroina del XX secolo e riuscirà, forse, a regalarle il posto che si merita nella nostra storia recente.
RM

Irlanda: chi ha paura di una Commissione per la verità e la giustizia?

Soltanto una Commissione per la verità e la giustizia sul modello di quella del Sudafrica post-apartheid potrà sanare una volta per tutte le ferite dell’Irlanda del Nord. A sostenerlo è Anne Cadwallader, ricercatrice del Pat Finucane Centre, una prestigiosa Ong di Belfast, che ha da poco dato alle stampe Lethal Allies. British Collusion in Ireland, un libro che dimostra per la prima volta in modo inconfutabile l’esistenza di un sistema di collusione ad altissimo livello tra lo stato britannico e i gruppi paramilitari protestanti durante gli anni più cruenti del conflitto in Irlanda del Nord. 1781171882.01._PC_SCLZZZZZZZ_Il ponderoso volume è frutto del lavoro di un team di ricercatori che per anni hanno indagato sugli omicidi settari compiuti negli anni ‘70 all’interno di quello che è stato definito il “triangolo della morte”, cioè le cittadine di Armagh, Portadown e Dungannon, a pochi chilometri dall’allora sensibilissima frontiera con la Repubblica d’Irlanda. “Il mio intento – ci spiega l’autrice al telefono dalla sua casa di Belfast – è quello di fornire il punto di partenza per la creazione di un organo indipendente e dotato di pieni poteri che sia in grado d’indagare alla ricerca della verità in base all’articolo 2 della Convenzione europea per i diritti umani, quello che garantisce il diritto alla vita”. A un mese dalla sua uscita, il libro è giunto alla terza ristampa ed è già riuscito a riaprire il dibattito sulla necessità di una Commissione “stile Sudafrica”, un’ipotesi tramontata tre anni fa quando un apposito gruppo di ricerca istituito da Londra naufragò di fronte alle richieste di risarcimenti delle famiglie delle vittime.
Ma a quindici anni dall’Accordo di Pace del Venerdì Santo, l’Irlanda del Nord resta un paese diviso, con comunità che vivono separate e tensioni permanenti che il tempo non sembra in grado di cancellare. “Non sono solo le famiglie ad avere il diritto di conoscere la verità sulla morte dei loro cari. Anche la società ha bisogno di comprendere il passato per costruire un futuro condiviso”, afferma Cadwallader, che ha alle spalle una lunga carriera di giornalista alla BBC e alla Reuters. Il suo Lethal Allies racconta per la prima volta tutta la verità in modo documentato e incontrovertibile, incrociando materiale degli archivi britannici, interviste di prima mano e rapporti ufficiali degli organi di polizia. “Questa collusione è giunta fino all’apice del governo britannico – denuncia – siamo infatti in grado di citare una lettera del 1975 che rivela un incontro tra l’allora primo ministro Harold Wilson e il nuovo capo dell’opposizione, Margaret Thatcher, durante il quale il Segretario per l’Irlanda del Nord informa i due leader politici che la RUC (la polizia dell’Irlanda del Nord, NdR) collabora col gruppo paramilitare protestante UVF e che il reggimento speciale dell’esercito britannico UDR è stato infiltrato da estremisti protestanti. Abbiamo un’enorme quantità di documenti nei quali lo stesso esercito britannico utilizza il termine ‘collusion’ per descrivere il motivo per il quale le armi venivano prese dagli arsenali dell’UDR”. Oltre alla mole di materiale d’archivio citato nel dettaglio, impressionano i numeri. Soltanto una tra le 120 persone ammazzate che la studiosa racconta nel suo libro era un membro dell’I.R.A.. Tutti gli altri erano civili, persone comuni che non avevano preso parte alla lotta armata. “Un simile sistema di collusione aveva funzionato in altri contesti coloniali nei quali era stata coinvolta la Gran Bretagna: il Kenya, la Malesia, Aden, Cipro e altri. I britannici volevano impedire ai cattolici nordirlandesi di avere rapporti con Dublino, ed era la stessa cosa che volevano i lealisti”. Ma secondo Cadwallader ormai incolpare le persone sarebbe una perdita di tempo, anche perché poche tra le famiglie delle vittime vogliono che i responsabili siano messi sotto processo. Quello che vogliono, invece, è che Londra riconosca ciò che è accaduto, che chieda scusa e li risarcisca. “I governi, in particolare quelli che devono fare fronte a insurrezioni violente, devono garantire e salvaguardare lo stato di diritto, devono comportarsi in modo diverso dalle forze paramilitari. Perché se a infrangere la legge sono gli stessi che fanno le leggi, non c’è più legge”. Ed è qui che torna d’attualità la Commissione per la verità e la giustizia. Chi ne sta ostacolando l’istituzione? Cadwallader non ha dubbi: il governo britannico. “Forse perché avrebbe molto da perdere. Il ruolo di Londra nel conflitto è riuscito finora a scampare al giudizio dell’opinione pubblica internazionale. Molte persone al di fuori del Nord Irlanda credono ancora alla favola secondo la quale Londra è stata un arbitro imparziale tra due fazioni in lotta. Invece nel corso dei decenni ha compiuto molti errori, ha infranto la legge e ha molte domande alle quali rispondere. Ma ignorare le divisioni del passato sarebbe l’errore più grande, perché prima o poi tornerebbero fuori per ossessionarci, come sta accadendo adesso in Spagna”.
RM