I palestinesi come gli indiani d’America

di Barbara Spinelli
(Il Fatto Quotidiano, 31 gennaio 2020)

Prima o poi il principio di realtà doveva prevalere: proclamata solennemente dall’Onu 46 anni fa, la formula che avrebbe pacificato il Medio Oriente – “Due Stati-Due popoli” – si sarebbe rivelata caduca e improponibile, sommersa dalla forza delle armi e dai fatti creati sul terreno. Chiunque abbia visitato i territori occupati, o abbia solo adocchiato una mappa, poteva rendersene conto da anni: è inverosimile un funzionante Stato palestinese su una terra disseminata di colonie israeliane a macchia di leopardo. Fra il 1967 e il 2017, gli insediamenti in Cisgiordania e Gerusalemme Est sono saliti a circa 200, abitati da circa 620.000 israeliani, protetti dai soldati della madre patria e cittadini israeliani a tutti gli effetti. I palestinesi sono circa 3 milioni. I due popoli sono in conflitto costante. L’accesso alle singole colonie avviene attraverso posti di blocco simili ai checkpoint lungo i confini di Israele.

Eludendo le risoluzioni Onu, il Piano Trump – congegnato da Jared Kushner, genero e consigliere presidenziale – fotografa l’esistente e costruisce su di esso una “visione” che più ingannevole non potrebbe essere: ai palestinesi sarà concesso di chiamarsi Stato – si assicura nelle 181 pagine del Piano – ma a condizione che mai diventi uno Stato autentico. Non saranno edificate altre colonie, ma nessuna delle esistenti sarà smantellata o assoggettata al nuovo Stato: resteranno parte di Israele e connesse a esso tramite esclusive vie di trasporto controllate dalla potenza occupante (anche oggi è così: comode autostrade per israeliani; strade più lunghe e impervie per i nativi). Israele avrà la sovranità militare sull’intera area palestinese, controllerà lo spazio aereo a ovest del Giordano e a quello aereo-marittimo di Gaza, nonché i confini dal nuovo Stato. Le risorse naturali saranno cogestite.
Tale sarà dunque la futura Palestina: una riserva per pellerossa, un Bantustan. Non uno Stato con qualche enclave israeliana chiamata a rispondere almeno amministrativamente alla Palestina, ma una serie di enclave palestinesi incuneate nella Grande Israele. Non si sa con quali mezzi bellici Gaza sarà disarmata e le sue ribellioni sedate. A ciò si aggiunga che la valle del Giordano sarà comunque annessa da Israele “per motivi di sicurezza”, come annunciato recentemente da Netanyahu nonché dal suo “grande avversario” Benny Gantz, suo sosia almeno per il momento.
Quando parla di Stato palestinese, Trump mente sapendo di mentire, e con un proposito preciso. Una volta appurato che i due Stati in senso classico non sono più realisticamente praticabili, la formula da aggirare a ogni costo è quella che sta mettendo radici nel popolo palestinese e in un certo numero di israeliani (a cominciare dagli arabi israeliani): il possibile Stato bi-nazionale, dove i due popoli convivano in pace e i suoi cittadini alla fine si contino democraticamente. Se dovesse nascere uno Stato unitario israelo-palestinese (federale o confederale), due sono infatti le vie: o uno Stato ebraico stile bianca Sudafrica, non democratico visto che una parte della popolazione vivrebbe senza diritti in apartheid, oppure Israele resterà democratica ma in tal caso verrà prima o poi e legalmente reclamata la regola aurea della democrazia, consistente nel voto eguale per ciascun cittadino: un uomo, un voto.
Israele sarebbe costretta a modificare la propria natura etnico-religiosa (suggellata nel maggio ’17 con una legge che degrada la lingua araba a lingua non ufficiale con statuto speciale). Sarebbe uno Stato ebraico e anche palestinese, non più scheggia americana come temeva Hannah Arendt. Un crescente numero di palestinesi, un certo numero di israeliani e parte della diaspora ebraica considera che “Due Stati-Due popoli” sia un treno ormai passato, e che l’unica prospettiva realistica – anche per superare l’ostilità iraniana – sia lo Stato bi-nazionale. Una soluzione certo delicatissima: non solo perché muterebbe demograficamente lo Stato ebraico, ma perché la trasformazione presuppone una pace duratura fra le due parti. L’Unione europea fu pensata durante l’ultima guerra mondiale ma vide la luce dopo la riconciliazione Germania- Francia. Non siamo a questo punto in Medio Oriente.
Il Piano Trump non aspira a tale riconciliazione. Promette nuove intifade e guerre. Destabilizza la Giordania, chiamata ad assorbire buona parte dei profughi palestinesi di stanza in Israele, e getta nell’imbarazzo Egitto e forse Arabia Saudita.
Il piano inoltre contiene vere provocazioni, negando perfino il diritto del futuro Stato a fare appello alle istituzioni internazionali tra cui la Corte penale internazionale. Viene vietato ai suoi cittadini di rivolgersi a qualsiasi organizzazione internazionale senza il consenso dello Stato di Israele, ed è bandito qualsiasi provvedimento, futuro o pendente, che metta in causa “Israele o gli Usa di fronte alla Corte penale internazionale, la Corte internazionale di giustizia o qualsiasi altro tribunale”.
In tutti i modi, infine, si evita di accrescere il peso numerico-elettorale degli arabi israeliani (in crescita, nelle ultime elezioni). Il piano prevede che gran parte delle comunità palestinesi abitanti in Israele – il cosiddetto “triangolo” – sia assegnata al semi-Stato palestinese o altri Stati arabi. Gli arabi israeliani diminuirebbero. Avigdor Lieberman, leader dei nazionalisti di Beiteinu, propose tale trasferimento già nel 2004, avversato dalle sinistre israeliane e dagli arabi israeliani.
Il giornalista Gideon Levy sostiene che Trump ha in mente una nuova Nakba (la “catastrofe” di 700.000 Palestinesi sfollati nel 1948). Mai consultati né convocati, i palestinesi sono stati messi davanti al fatto compiuto alla pari di reietti. In cambio riceveranno croste di pane allettanti (miliardi di dollari, versati da non si sa quali Stati arabi).
Questa pace dei vincitori dovrebbe essere respinta dagli Stati europei, non solo a parole. Non limitandosi a ripetere “Due Stati-Due popoli”, mantra svigorito e ora accaparrato/pervertito da Trump. Bensì difendendo le leggi internazionali e rifiutando di considerare come antisemitismo ogni critica dell’occupazione israeliana (la definizione IHRA dell’antisemitismo, approvata dal Parlamento europeo oltre che dal governo Conte il 17 gennaio scorso). Facendo proprie le parole del nipote di Mandela, Zwelivelile, durante una recente visita a Gerusalemme: “Le enclave Bantustan non funzionarono in Sud Africa e non funzioneranno mai nell’Israele dell’apartheid”.
RM

Gaza, il calvario di due fratelli

Avvenire, 20.12.2017

In uno dei suoi versi più famosi, il poeta Mahmoud Darwish scrisse che il tempo, a Gaza, “non porta i bambini dall’infanzia immediatamente alla vecchiaia, ma li rende uomini al primo incontro con il nemico”, e che “l’unico valore di chi vive sotto occupazione è il grado di resistenza all’occupante”. Sembra prendere avvio proprio da queste parole il romanzo d’esordio della scrittrice anglo-palestinese Selma Dabbagh, Fuori da Gaza, appena pubblicato in italiano dall’editore Il Sirente, con la traduzione di Barbara Benini. Un’opera prima che si avventura in uno dei terreni ancora inesplorati dalla letteratura contemporanea, andando a indagare l’animo più profondo della gioventù palestinese al tempo della Seconda Intifada. La narrazione ruota attorno alla storia dei Mujahed, una famiglia medio borghese, colta e benestante, la cui casa si ritrova all’improvviso in mezzo alle macerie del quartiere distrutto dalle incursioni israeliane. “Avevano demolito ogni struttura del vicinato, strappandola dalle radici, scavandone le fondamenta. I soldati, sui loro bulldozer gialli, si erano divertiti a inseguire i nuovi senzatetto in quella confusione. Gli alberi avevano continuato a bruciare per giorni”. Iman e Rashid sono due fratelli gemelli di 17 anni che hanno vissuto gran parte della loro vita all’estero e adesso si ritrovano psicologicamente intrappolati nella Striscia. Rashid osserva Gaza attraverso le immagini del satellite, e sogna di andarsene. Dall’alto gli appare come “un corallo essiccato, increspato, compartimentato e sabbioso”, con “centinaia di migliaia di abitazioni ridotte a graffi su un osso”. Dall’altra parte, quella ormai vietata ai palestinesi, c’è invece “un’elaborata coperta dal design modernista. […] Quella parte scintillava. Pannelli solari e piscine luccicavano al sole”. È lo stesso contrasto evidenziato dalla giornalista israeliana Amira Haas quando definì Gaza “la contraddizione dello Stato d’Israele, democrazia per alcuni, esproprio per altri”. E Dabbagh sceglie di indagare proprio il significato intimo di quel nervo scoperto nella vita di tutti i giorni.
Ambientato tra Gaza e Londra, il suo romanzo segue le vite di Rashid e Iman nel loro tentativo di costruirsi un futuro in mezzo all’occupazione, al fondamentalismo religioso e alle varie fazioni politiche. Il padre dei due giovani è un ex esponente dell’Olp, vive in esilio e non comprende le ragioni degli islamici, “non aveva mai avuto tempo per la religione e non vedeva alcuna ragione per cambiare: a tutti loro, Dio aveva a malapena rivolto un sorriso”. La madre ha un passato segreto nei movimenti di lotta per la liberazione della Palestina e vive invece a Gaza, accudendo il primogenito, Sabri, costretto su una sedia a rotelle dopo aver perso le gambe in un attentato. I due gemelli provengono da un background privilegiato, sono profondamente legati eppure diversi, e le loro strade sembrano dividersi fin dall’inizio del libro. Proprio mentre Iman viene chiamata dall’ala islamica del centro culturale di cui è attivista – e che le propone di farsi esplodere in un attentato suicida – Rashid viene a sapere di aver vinto una borsa di studio a Londra e trova, almeno apparentemente, la sua via di fuga. “Non volevo raccontare soltanto il dilemma di una generazione di palestinesi, tra chi vuole restare per lottare e chi invece ha la possibilità di fuggire per inseguire i propri sogni – ci spiega Dabbagh – ma descrivere il punto di rottura, il momento non ritorno di ciascun individuo, in termini di scelta morale. Quella sensazione di sentirsi tagliati fuori dalla storia, qualcosa che persino molti palestinesi che vivono sotto occupazione danno per scontata”. Oltre al desiderio dei due fratelli di uscire dalla soffocante condizione di vita della Striscia di Gaza, c’è infatti anche il tentativo di evadere dal loro passato, il senso di straniamento che provano all’interno del nuovo contesto in cui cercano di ambientarsi. Anche la famiglia della scrittrice ha un passato segnato dall’esilio e dalla politica. Suo nonno fu imprigionato dai britannici per le sue idee e decise di abbandonare Jaffa quando suo padre, bambino, rischiò di rimanere ucciso da una granata lanciata dai paramilitari sionisti. Trovarono rifugio in Siria per poi trasferirsi in altre parti del mondo. Selma Dabbagh è nata in Scozia nel 1970 e ha vissuto in Arabia Saudita, Kuwait, Francia e Bahrein, lavorando come avvocato per i diritti umani a Gerusalemme, Il Cairo e Londra. Ciononostante, assicura che la sua storia personale non ha influito nella vicenda raccontata nel libro: “non c’è niente di autobiografico nel romanzo e io non ho mai vissuto a Gaza. Certo, sono stata impegnata politicamente e la mia famiglia è sempre rimasta legata al dramma palestinese, ma forse ha inciso di più il confronto con le persone che ho incontrato durante la mia attività di avvocato”. La storia di Rashid e Iman è l’espediente narrativo attraverso il quale Dabbagh riesce a ricostruire le molteplici sfaccettature di una società complessa, a indagare i conflitti interiori e il modo in cui la guerra, la violenza e il fondamentalismo religioso influiscono sull’intimità delle persone. A raccontare non solo l’assedio dei territori ma anche quello delle coscienze, con una scrittura che – proprio come sarebbe piaciuto a Darwish – fa parlare Gaza “attraverso il sangue, il sudore, le fiamme”. Il pubblico, anche in Palestina, pare aver accolto il romanzo positivamente. “La gente si è riconosciuta nel libro – conclude Dabbagh -, trovarsi in un’opera di finzione letteraria è stato per loro un modo per sentirsi vivi, per essere ascoltati. Era la cosa cui tenevo di più e infatti ho cercato in tutti i modi di rappresentare quella realtà terribile nel modo più fedele possibile”. Per due anni consecutivi, Fuori da Gaza è stato definito “libro dell’anno” dal Guardian.
RM

Gaza assediata anche dalla realpolitik

Silvio Berlusconi ha definito “giusta” la brutale offensiva missilistica che Israele scagliò contro la Striscia di Gaza alla fine del 2008, causando centinaia di vittime civili e la netta condanna dell’Onu. Concludendo la sua visita istituzionale in Israele, il premier italiano ha così suggellato il deciso spostamento “filo-israeliano” della tradizionale politica mediorientale dell’Italia. E’ Carnevale e verrebbe da dire che ha scelto i tempi alla perfezione, pensando d’indossare per una volta i panni dello statista di livello internazionale, manco fosse un Jimmy Carter coi capelli tinti. Ma fuor d’ironia, le sue parole su Gaza costituiscono un’offesa grave ai civili uccisi e a quelli che continuano a vivere “reclusi nella più grande prigione collettiva del mondo”, come l’ha eloquentemente definita chi quell’area la conosce molto bene, avendola visitata più volte in tempi recenti. Berlusconi al massimo se la sarà fatta raccontare da Netanyahu, Niccolò Rinaldi vi è entrato di nuovo nel dicembre scorso. Quello che segue è il racconto del suo viaggio…

«Tutti i draghi della nostra vita forse non sono altro che delle principesse che aspettano di vederci belli e coraggiosi». In altre parole, « Tutte le cose terribili forse altro non sono che delle cose prive di soccorso che aspettano solo che noi le soccorriamo». Questo passo di Rilke, dalla «Lettera a un giovane poeta», è anche un viatico a Gaza, maledetta striscia chiusa ormai da anni. Solo un ridottissimo numero di prodotti più che altro alimentari – circa una ventina – può entrare a Gaza su autorizzazione di Israele, mentre il resto, dal combustibile a un rubinetto, dalla marmellata alle armi, è costretto a transitare nei pericolosi, carissimi, oltre che vietati, tunnel sotterranei con l’Egitto (che sta costruendo una barriera in acciaio profonda diciotto metri per chiudere questo traffico illecito eppure vitale). Entrare a Gaza è un lusso ormai, come lo è uscire. Lo scorso dicembre anche una delegazione ufficiale del Parlamento Europeo si è vista negare, sul più bello, l’accesso a Gaza da parte israeliana, e così, visto che i poveri abitanti della striscia sono reclusi nella più grande prigione collettiva del mondo, ho deciso di unirmi a una delegazione parlamentare di vari paesi europei che dopo lunghi negoziati con le autorità egiziane, e altrettante attese al varco di Rafah, è riuscita a visitare Gaza per due giorni scarsi. Negli ultimi anni vi sono stato spesso, dai tempi delle colonie fino a subito dopo la fine delle bombe israeliane nel febbraio del 2009. E una volta di più il viaggio ha conosciuto dimensioni straordinarie, cose che non si vedono, non si sentono, in nessun’altra parte del pianeta. Cominciando dall’enormità della sofferenza della popolazione. Continua a leggere “Gaza assediata anche dalla realpolitik”