Così è implosa la rivoluzione culturale di Mao

Avvenire, 30.6.2016

L’ordine era stato chiaro, inequivocabile. “Bombardate il quartier generale”. Esattamente cinquant’anni fa Mao Tse-tung chiese alla sua gente una cosa che né Stalin, né Hitler, né Pol Pot avevano mai chiesto al proprio popolo: rovesciare il sistema di potere che loro stessi avevano creato. L’anziano leader, sentendo vicino il crepuscolo del suo potere, denunciò l’infiltrazione del partito da parte di elementi revisionisti e controrivoluzionari intenzionati a creare un regime borghese. La Cina era appena uscita dalla gigantesca catastrofe innescata dalle politiche agricole e industriali imposte dallo stesso Mao con il “Grande Balzo in avanti”. Circa trenta milioni di cinesi erano morti per fame in soli tre anni, a seguito di una delle più gravi carestie dell’epoca moderna. Per governare le conseguenze del disastro e contrastare l’apparato del partito che stava cercando di ridimensionare il suo potere, il Grande Timoniere lanciò la cosiddetta “Rivoluzione culturale”, destinata a durare fino alla sua morte, nel 1976. mao“Mao temeva una condanna postuma per i suoi clamorosi fallimenti, com’era già accaduto a Stalin dopo la sua morte. Ma soprattutto era ancora convinto di poter trasformare la Cina in un paradiso socialista e pur di riuscirci, era disposto a chiedere qualsiasi sacrificio al suo popolo”, spiega lo storico olandese Frank Dikotter, docente all’università di Hong Kong e autore di prestigiosi saggi sulla Cina di quegli anni. Il 16 luglio 1966, ormai 72enne, Mao si buttò nelle acque profonde del fiume Yangtze e nuotò per oltre un’ora, da una sponda all’altra, per dimostrare al popolo che il suo vigore fisico era ancora intatto nonostante l’età avanzata. Un mese dopo, un milione di giovani Guardie rosse osannanti giunte da tutto il paese si riunirono a Pechino, in piazza Tienanmen, dove ricevettero l’ordine di attaccare i “centri della controrivoluzione” e distruggere quelli che furono definiti i quattro nemici della Cina: le idee, la cultura, le abitudini, i comportamenti. I comandamenti della rivoluzione furono elencati nel famierato “Libretto rosso” che venne stampato in milioni di copie. “Da quel momento in poi” – prosegue Dikotter – il furore iconoclasta avrebbe colpito qualsiasi traccia del cosiddetto ‘passato borghese e imperialista’, portando alla distruzione e al saccheggio di monumenti e luoghi di culto, e innescando una guerra civile che causò centinaia di migliaia di morti e milioni di sfollati. Mao aizzò gli studenti contro gli insegnanti, incitò il popolo ad attaccare i membri del partito comunista, infine fece intervenire l’esercito, portando il paese in un vortice di terrore nel quale le persone cercarono disperatamente di dimostrare la loro fedeltà al capo supremo”. Non furono attaccati soltanto i dirigenti, i funzionari del partito e tutti coloro che a vario titolo avevano manifestato perplessità nei confronti delle politiche del Grande Timoniere. Decine di migliaia di cittadini comuni vennero perseguitati, imprigionati, torturati, uccisi.
In occasione del cinquantesimo anniversario dell’ultima fase del delirio maoista, Dikotter ha dato alle stampe The Cultural Revolution: A People’s History (Bloomsbury press), ad oggi considerato lo studio storico più approfondito e aggiornato sulla Rivoluzione culturale cinese. Il libro conclude di fatto una trilogia dedicata agli orrori causati dalle politiche di Mao: nei due volumi precedenti (Mao’s Great Famine e The Tragedy of Liberation) lo storico olandese aveva già fatto largo uso di documenti e testimonianze d’epoca inedite ritrovate negli archivi cinesi, ai quali lo studioso dice di aver avuto accesso con grandi difficoltà, soltanto grazie alla sua incrollabile ostinazione. “Il terrore che Mao scatenò nei suoi ultimi dieci anni di vita si rivelò per lui un grande successo – spiega – poiché gli consentì di eliminare tutti i veterani del partito che avevano iniziato a criticarlo e anche di gettare una fitta coltre di fumo negli occhi del popolo per celare i suoi insuccessi”. Fino al 1968 vi fu una drammatica escalation di violenza urbana: gli studenti inquadrati nelle Guardie rosse presero di mira soprattutto gli insegnanti, che vennero aggrediti, umiliati e picchiati in pubblico, assassinati o costretti al suicidio. Le case dei cittadini benestanti vennero assaltate alla ricerca di beni di lusso, di mobili e libri antichi, di valuta estera. Infine la Rivoluzione culturale si spostò nelle campagne causando nuovi drammi e persino episodi di cannibalismo, verificatisi nella provincia dello Guangxi e portati alla luce per la prima volta proprio dalle ricerche di Dikotter. Mao riuscì infine a incarnare l’utopia, a diventare oggetto di un vero e proprio culto della personalità, ma in ultima analisi il processo aprì la strada anche al tramonto del Maoismo. Il principale elemento di originalità del lavoro di Dikotter è lo sguardo col quale lo storico è riuscito a osservare e ad analizzare il comportamento del popolo. Il suo libro racconta come il caos favorì le delazioni e le vendette personali ma documenta anche i drammatici tentativi di sopravvivenza dei cinesi, la loro spontanea, disperata reazione a decenni di brutalità. I contadini che si ripresero le loro terre confiscate dalle comuni agricole, gli studenti che cercarono di salvare i libri destinati al rogo e poi cominciarono a leggerli di nascosto, il mercato nero che nacque spontaneamente e regolò l’economia indirizzandola in una direzione opposta rispetto a quella voluta dal capo supremo. “Tutto”, conclude, “contribuì infine a svuotare l’ideologia di Mao fino a farla implodere di fronte alle sue stesse contraddizioni”.
RM

La carestia segreta di Mao

Da “Avvenire” di oggi

A lungo la macchina della propaganda del governo cinese era riuscita a nascondere agli occhi del mondo una delle più terrificanti carestie dell’epoca moderna. Tra il 1958 e il 1962 le folli politiche economiche imposte da Mao con il cosiddetto “Grande balzo avanti” avevano fatto morire milioni di persone ma grazie all’alibi della Guerra Fredda, le denunce sollevate in Occidente erano state sminuite e definite una montatura della CIA. Il regime cinese ha continuato fino ai giorni nostri a sostenere che le cause dell’elevata mortalità di quegli anni erano da ricondurre alle cattive condizioni climatiche e ai gravi problemi logistici di alcune aree del paese. Le regole rigidissime dell’ortodossia comunista impedivano di ammettere che il gigantesco piano economico e sociale ideato da Mao per far entrare la Cina tra le principali potenze industriali aveva fatto morire di stenti circa 40 milioni di cinesi.
Mentre le dimensioni bibliche di quella tragedia sono state calcolate con numeri attendibili da un recente studio dello storico olandese Frank Dikötter, la conferma sulle sue cause è arrivata da una dettagliatissima opera redatta da un giornalista cinese, Yang Jisheng. Uscito originariamente soltanto a Hong Kong, il suo ponderoso volume Tombstone: The Great Chinese Famine 1958-1962 è stato pubblicato adesso per la prima volta anche in inglese dalla casa editrice Farrar, Straus and Giroux. Il libro contiene centinaia di testimonianze e resoconti sui villaggi cosparsi di cadaveri, gli innumerevoli casi di cannibalismo e la violenza disumana che si diffuse nel paese in quegli anni. Jisheng ha lavorato a lungo all’agenzia di stampa Xinhua (Nuova Cina) – il principale organo d’informazione governativo del paese – e ha utilizzato la sua posizione privilegiata per avere accesso ai documenti riservati degli archivi di stato, per intervistare i sopravvissuti e i demografi, riuscendo a portare a termine un monumentale progetto di ricerca senza dare troppo nell’occhio. E pensare che in passato anche lui aveva creduto a lungo alla versione ufficiale del partito. Solo dopo i fatti di piazza Tien An Men, divenuto ormai un veterano del giornalismo cinese, cominciò a porsi delle domande. Il sangue degli studenti lo aiutò ad aprire gli occhi di fronte alle menzogne del partito e gli fece tornare in mente quanto accadde a suo padre, morto a causa di quella carestia nel 1959. All’epoca lui era solo un diciottenne idealista come tanti, già inquadrato nella lega giovanile del partito, e pur nel dolore di quella perdita non si era sognato di biasimare un governo che riteneva impegnato nel grandioso avvento del comunismo in Cina. Il piano lanciato da Mao si proponeva di mobilitare tutta la popolazione per riformare rapidamente il paese, trasformando il sistema economico rurale – incentrato fino ad allora sull’agricoltura – in una società comunista industrializzata basata sulla collettivizzazione. I seguaci del “Grande balzo avanti” teorizzavano che le derrate alimentari sarebbero state raddoppiate, addirittura triplicate, in pochi anni e che la produzione di acciaio avrebbe presto superato quella dei più moderni paesi occidentali. Invece fu la fine. Yang Jisheng racconta nel dettaglio la storia di intere famiglie che per non morire di fame si cibavano della corteccia degli alberi, di erbacce e di escrementi degli uccelli. Descrive i cadaveri scuoiati dai disperati cui non restava altra scelta che cibarsi dei loro resti. Salvarsi era quasi impossibile, anche perché la fuga era considerata un reato grave contro il partito e un tradimento nei confronti del Grande Timoniere. Le ricerche di Jisheng sono durate quasi due decenni, e hanno visto l’autore avvalersi della preziosa collaborazione di tanti studiosi e funzionari del partito, anch’essi intenzionati a far emergere la verità su quei tragici anni. Il risultato, contenuto nelle oltre seicento pagine di questa edizione inglese opportunamente annotata, evoca orrore ma anche speranza. Poiché se è vero che tuttora i programmi scolastici evitano di menzionare la carestia e molti giovani sono ancora convinti che sia stata un’invenzione dell’Occidente, in questo libro sono gli stessi cinesi a spezzare per la prima volta il muro dell’ipocrisia e dell’omertà. Riconoscere le vere cause della grande carestia del 1958-1962 significa rivedere il giudizio ufficiale sulle politiche di Mao, sminuendo la posizione d’onore che il governo di Pechino continua a tributare al padre spirituale della Cina moderna. Seppur censurata, l’opera rappresenta dunque un primo serio tentativo di fare i conti con il tragico passato del paese. Ed è buon segno che Jisheng, nonostante il risalto ottenuto dal suo lavoro, continui a vivere a Pechino dove cura la pubblicazione di un periodico riformista.
RM