Avvenire, 25 ottobre 2017
Tan Hecheng conserva ancora un vivido ricordo di quell’estate del 1967. All’epoca era uno studente di vent’anni in visita con un gruppo di amici nella contea cinese del Daoxian, provincia dello Hunan, non lontano dal luogo natale di Mao Zedong. Dopo un lungo viaggio in autobus, il giovane si incamminò da solo per le strade della città di Daojiang e si imbatté nei minacciosi avvisi della Corte Suprema del Popolo, affissi sulle mura di un ponte. Annunciavano la punizione nei confronti dei “proprietari terrieri reazionari” ritenuti colpevoli di crimini atroci. “La collera del popolo chiede la loro esecuzione – sentenziavano quei manifesti – sono quindi tutti condannati a morte con effetto immediato”. L’anno prima il Grande Timoniere della Cina comunista, sentendo vicino il crepuscolo del suo potere, aveva lanciato quella che sarebbe tristemente passata alla storia come la Rivoluzione culturale. Era stata denunciata l’infiltrazione del partito da parte di elementi revisionisti e controrivoluzionari intenzionati a creare un regime borghese, erano state chiuse le scuole e le università per mobilitare gli studenti, in breve tempo oltre un milione di giovani Guardie rosse erano giunte da tutto il paese per riunirsi a Pechino, in piazza Tienanmen, dove avevano ricevuto l’ordine di attaccare i “centri della controrivoluzione” per distruggere i quattro nemici della Cina: le idee, la cultura, i comportamenti, le abitudini. In realtà Mao, indebolito dall’enorme fallimento del Grande Balzo in Avanti che aveva causato decine di milioni di morti per fame, voleva riaccentrare il potere nelle sue mani a costo di nuovi massacri. Per un volta, il giudizio della storia non si sarebbe fatto attendere: nel 1981, appena cinque anni dopo la sua morte, il partito comunista cinese approvò una risoluzione che condannava la Rivoluzione culturale definendola “un lungo e grave errore”. Poco si sapeva all’epoca sui reali effetti di quel decennio di terrore imposto da Mao in tutto il paese, con proprietà confiscate, imprigionamenti arbitrari, “rieducazioni”, torture e uccisioni di massa. Nei primi anni ’80 Hu Yaoban, uno dei nuovi leader del partito, promosse una breve fase di riforme democratiche e nel 1986 inviò oltre un migliaio di funzionari a indagare sugli eccidi di massa compiuti vent’anni prima. Tan Hecheng all’epoca lavorava per un giornale controllato dal partito e fu incaricato di andare nel distretto rurale del Daoxian per raccontare quell’indagine. Avrebbe dovuto scrivere una serie di articoli per giustificare ed elogiare gli sforzi del partito che cercava di affrontare i drammi del passato punendo i colpevoli. Fu il governo stesso a offrirgli la possibilità di scoprire la verità su quei massacri e in qualità di giornalista del regime ebbe pieno accesso a migliaia di pagine di documenti ufficiali. Riuscì quindi a raccogliere informazioni clamorose su una delle tante ondate di violenza e isteria di quei giorni, che causò la morte di circa novemila persone in appena due mesi, tra l’agosto e l’ottobre del 1967. Ma i buoni propositi riformisti del partito erano destinati a svanire in breve tempo. Alla fine del 1986 il clima politico in Cina era già profondamente cambiato e la commissione d’inchiesta insabbiò quasi tutto. Circa quindicimila persone furono riconosciute colpevoli del massacro ma solo una cinquantina di esse vennero condannate per i loro crimini. Il regime fu incapace di compiere una vera catarsi e gli articoli di Hecheng non furono mai pubblicati, rimanendo a lungo chiusi in un cassetto. Se non fosse stato per il suo coraggio e la sua caparbietà, il massacro del Daoxian sarebbe probabilmente rimasto sepolto nell’oblio per sempre. Alcuni anni fa l’anziano giornalista è finalmente riuscito a pubblicarli a Hong Kong, in un volume che adesso è uscito anche in inglese col titolo The Killing Wind: A Chinese County’s Descent into Madness During the Cultural Revolution (Oxford University Press). Continua a leggere “Testimone degli orrori di Mao”