“Sumud”, la meglio gioventù della Palestina

È una calda notte d’estate senza stelle e la musica risuona a tutto volume da una grotta nel deserto a sud di Hebron. Sami, Hammoudi e Adib hanno all’incirca vent’anni e ballano la dabka, una danza popolare mediorientale, davanti a un gruppo di volontari internazionali che scandiscono il ritmo battendo le mani. Nella notte altri giovani arrivano dai villaggi circostanti per fare festa all’insegna del “Sumud”, una parola araba che significa ‘resilienza’.  In questa distesa di colline di pietra e pascoli per le pecore due anni fa questi ragazzi hanno dato vita al “Sumud Freedom Camp” di Sarura, un’esperienza di resistenza nonviolenta che ha l’obiettivo di salvare le loro terre. Hanno ripulito la zona, costruito terrazzamenti con muretti a secco e piantato alberi di ulivo. Ma soprattutto hanno ristrutturato le antiche grotte e le caverne che un tempo erano abitate dalle famiglie palestinesi. La grotta più grande è stata pavimentata e adibita a sala riunioni, poi hanno costruito i bagni e allestito le cucine. Donne, uomini e bambini presidiano a turno le caverne notte e giorno, insieme ad attivisti internazionali e israeliani. “Per far rivivere Sarura volevamo rendere le grotte abitabili in modo che le famiglie cacciate di qua tanto tempo fa potessero finalmente ritornare”, ci spiega Sami, che studia diritto internazionale all’università di Yatta. Molti dei giovani del gruppo di Sumud provengono dal vicino villaggio di At-Tuwani e credono fermamente nella tradizione di nonviolenza nata nell’area molto tempo fa, e che negli anni ha coinvolto molte Ong israeliane tra cui B’Tselem, Ta’ayush e Rabbini per i diritti umani, oltre ai volontari cattolici di Operazione Colomba. I villaggi di At-Tuwani e Sarura si trovano nella cosiddetta “area C” della Cisgiordania, sotto il totale controllo civile e militare israeliano, e sono stretti tra Havat Ma’on e Avigayil, due avamposti israeliani considerati illegali dalla stessa Alta Corte di Tel Aviv e abitati dai sionisti più radicali. Da quasi due anni i giovani di Sumud si oppongono al tentativo di coloni ed esercito di collegare due colonie israeliane rubando la terra del villaggio di Sarura. In questi mesi hanno subito continue vessazioni: si sono visti confiscare i materassi, i materiali da lavoro e i generatori dai militari. I coloni si sono presentati spesso di notte, a volto coperto, per minacciarli e costringerli ad andarsene. L’ultimo rapporto delle Nazioni Unite sull’area, risalente al 2018, ha denunciato un picco di violenze compiute dagli abitanti dei due avamposti contro i civili palestinesi. Le telecamere degli operatori umanitari hanno documentato ripetuti attacchi contro i pastori che pascolano il gregge, contro le donne e i bambini. Nel maggio scorso il gruppo dei Rabbini per diritti umani ha inviato una petizione all’Alta Corte israeliana denunciando le violenze subite dai bambini palestinesi che la mattina vanno a scuola percorrendo la strada che costeggia i due avamposti. La petizione precisa che impedire l’accesso sicuro alla scuola rappresenta una violazione dei valori fondanti della legge israeliana e del diritto umanitario internazionale. “I coloni più estremisti aggrediscono i bambini nella strada che collega i villaggi di At-Tuwani e Tuba. Li insultano, li picchiano e li prendono a sassate perché non vogliono che i palestinesi camminino su queste terre”, denuncia Giuseppe, un volontario di Operazione Colomba. “La strada alternativa è molto più lunga, e li costringerebbe a partire da casa un paio d’ore prima”. Alcuni anni fa una volontaria internazionale che scortava i bambini venne colpita da un sasso e Israele fu costretto a prendere provvedimenti. La Commissione diritti dell’infanzia della Knesset decise di far intervenire l’esercito, fornendo una scorta militare ai bambini che andavano a scuola. “Ma i problemi non sono stati risolti, perché spesso i soldati arrivano in ritardo, o non arrivano affatto”, aggiunge Giuseppe. E allora sono i ragazzi di Sumud, insieme ai volontari di Ta’ayush e di Operazione Colomba, a darsi il turno per accompagnare i bambini a scuola cercando di proteggerli dagli attacchi dei coloni. Alla violenza e ai soprusi la popolazione di At-Tuwani ha deciso di rispondere con le armi della legge, appellandosi alle stesse istituzioni israeliane, e documentando le violazioni dei diritti umani e delle norme internazionali. “La nonviolenza non è solo una scelta morale ma anche strategica”, ci spiega Hafez, l’anziano coordinatore del Comitati popolari di resistenza pacifica di At-Tuwani. “Israele ci descrive come criminali ma noi abbiamo deciso di dimostrare all’opinione pubblica che così possiamo neutralizzare la violenza dei coloni. Nelle colline a sud di Hebron abbiamo raggiunto obiettivi importanti e siamo convinti che questa sia la soluzione più efficace”. Il movimento popolare di resistenza nonviolenta di At-Tuwani è diventato un modello per tanti villaggi della Cisgiordania. La scuola, tirata su dagli abitanti e poi difesa dalla demolizione, copre l’intero ciclo scolastico – dall’asilo alle scuole superiori – ed è frequentata da circa duecento bambini e ragazzi provenienti da tutti i villaggi del circondario. Negli anni, oltre alla scuola, sono stati costruiti un ospedale, una rete idrica e le strade sono asfaltate. “La solidarietà che venite a portarc dall’estero per noi è molto importante ed è fondamentale che raccontiate in giro quello che sta accadendo qua”, conclude Hafez.
RM

Sopravvivere all’assedio

Betlemme (Palestina)

Questa terra è della tua famiglia, da quattro generazioni. Lo dimostrano i documenti ufficiali di epoca ottomana, datati 1916. Quarantadue ettari di terreno coltivabile a 900 metri d’altezza, affacciati sulla valle. Ma quasi trent’anni fa il governo israeliano iniziò a far costruire tutto intorno nuove case per i coloni. Quei mostri di cemento spuntavano uno dopo l’altro come funghi velenosi. A est, a sud, a nord. Finché non ti hanno circondato con cinque insediamenti di coloni ebraici. Eravate sotto assedio. Solo il verde dei tuoi alberi d’ulivo riusciva a curare le ferite di quella vista. I tuoi antenati avevano piantato i loro rami nella terra e le loro radici nel cielo. A te e alla tua famiglia sono serviti anni di sudore per coltivarli. Poi un giorno vi hanno detto che dovevate andarvene, perché serviva spazio per costruire altri mostri. Proprio lì, sulla tua terra. Li hai zittiti tirando fuori quegli antichi documenti. Mi chiamo Daoud, in arabo significa Davide, come il secondo re di Israele. Gli hai spiegato che il tuo bisnonno aveva comprato quei terreni ai tempi degli ottomani. La legge ti dava ragione ma intanto in fondo alla valle continuavano a costruire, mentre i soldati e i coloni iniziarono a intimidirvi. Un giorno sono arrivate le ruspe per distruggere i tuoi alberi di ulivo. Sapevano bene che per un palestinese come te quella pianta è un albero sacro, quasi come un figlio, e proprio per quello ne hanno abbattuti più di duecento. Quel giorno ti hanno strappato un pezzo di anima. Mahmoud Darwish diceva che l’ulivo insegna ai soldati a deporre le armi e li rieduca alla tenerezza e all’umiltà. Allora anche un grande poeta può sbagliarsi, hai pensato. Ma sei riuscito a controllare la tua rabbia, a non farla diventare odio, a trasfigurare le forze negative in energia positiva.

A sinistra:: Daoud Nassar

Intanto la solidarietà che continuava ad arrivarvi da tutto il mondo era diventata un fiume in piena. Una marea inarrestabile di giovani volevano partecipare al progetto di nonviolenza attiva e di educazione all’ambiente che avevate chiamato Tenda delle nazioni. Al cuore della vostra scelta nonviolenta c’era una profonda fede cristiana. “Ci rifiutiamo di essere nemici”, hai scritto su quella grossa pietra, davanti all’ingresso della fattoria. Eppure i coloni e l’esercito stavano facendo di tutto per renderti la vita impossibile. Dopo gli ulivi hanno tagliato gli albicocchi, a centinaia, hanno bloccato la principale strada di accesso alle tue terre. E poi le minacce, le intimidazioni, le piccole violenze quotidiane. Quando hanno capito che non cedevi, e che la legge era dalla tua parte, hanno anche provato a comprarti. Dicci quanto vuoi e vattene di qua per sempre. Un sorriso amaro ha solcato le tue labbra mentre gli spiegavi che nessuna cifra potrà mai convincerti a vendere una terra che hai ereditato dai tuoi avi. Hanno cercato di isolarvi in tutti i modi. Ma non ci sono riusciti. Niente è impossibile, dicevi, neanche far crescere una grande fattoria senza acqua, né luce. Ti sei convinto che abbandonarsi al vittimismo non sarebbe servito a niente. Che non avresti mai risposto alle loro provocazioni, perché violenza genera solo altra violenza. Ma di abbandonare tutto e andartene non vuoi neanche sentir parlare. Per procurarti l’elettricità hai realizzato un sistema di pannelli solari che ti consente di avere la luce tutto il giorno. Per rifornirti di acqua hai costruito un meccanismo di raccolta delle acque piovane. Non ti sei fermato neanche di fronte ai divieti di costruire sulla tua terra. Se non posso costruirci sopra vorrà dire che lo farò nel sottosuolo, hai pensato. E con l’aiuto di tanti volontari hai scavato quelle grandi grotte attrezzate con camere, bagni e cucine. Da allora vivete là dentro, proprio come il tuo bisnonno cento anni fa. Avevi deciso di dimostrare a te stesso che tutto è possibile, che anche i grandi problemi possono diventare piccoli ostacoli, quando si imbocca la strada della resistenza nonviolenta, della creatività, della fede. Così avete ripiantato gli alberi e adesso avete raccolti tutti i mesi dell’anno, in un luogo dove cristiani e musulmani lavorano insieme per la pace, per la tolleranza, per l’ambiente. Presto Israele avrà completato il muro dell’apartheid e voi vi ritroverete completamente isolati. Ma il cielo, almeno quello, non potranno mai dividerlo.
RM