Dublino – “Se volete davvero una repubblica irlandese votate Sinn Féin”. A Dublino, nei giorni dell’ultima campagna elettorale, un manifesto spiccava su tutti gli altri. Riproduceva lo slogan e la grafica di un poster affisso in città nel 1918, quando il partito repubblicano si presentò per la prima volta alle elezioni, in un’Irlanda non ancora divisa. E le vinse con largo margine. Il risultato non venne però accettato dagli inglesi: seguirono anni di guerra che furono il preludio alla nascita dell’Irlanda del Nord. Poco più di un secolo dopo lo Sinn Féin è tornato alla vittoria nella Repubblica d’Irlanda ottenendo un risultato elettorale che va ben oltre le aspettative e i sondaggi, e proietta l’isola verso una possibile riunificazione. Un’Irlanda unita è infatti da sempre in cima all’agenda politica dello Sinn Féin, che dopo essere tornato al governo a Belfast sta adesso cercando di formare un esecutivo anche nella capitale irlandese. Secondo Aidan Regan, docente di politica economica all’University College di Dublino, la sua vertiginosa ascesa è il risultato di tre fattori economici interconnessi: “un modello di crescita di cui hanno beneficiato in pochi, il grave conflitto sociale intergenerazionale generato dalla crisi abitativa e un decennio di austerità che ha causato un declino nei servizi e nelle infrastrutture”. Per la prima volta nella storia irlandese i due partiti centristi Fianna Fail e Fine Gael, dopo essersi alternati al governo per quasi un secolo, hanno ottenuto insieme meno della metà dei consensi. Considerando che l’Irlanda ha un livello elevato di crescita economica e un tasso di disoccupazione tra i più bassi dell’area UE, la clamorosa bocciatura dell’ex premier Leo Varadkar può a prima vista apparire inspiegabile. “La ripresa dopo la recessione di dieci anni fa è stata favorita dagli investimenti delle multinazionali dell’high-tech ma la situazione economica non è rosea come sembra”, ribatte Regan. “Secondo gli studi del Fondo Monetario Internazionale circa tre quarti degli investimenti diretti esteri sono fittizi, dovuti a semplici spostamenti di capitali per aggirare gli obblighi fiscali”. In compenso il costo della vita è aumentato in modo esponenziale, creando un divario sociale sempre più insostenibile sulla sanità, l’assistenza all’infanzia e la scuola. Per non parlare del costo delle case ormai alle stelle, con Dublino che è oggi una delle città più care d’Europa. “Gli elettori hanno voluto punire le politiche di austerità imposte negli ultimi anni dai governi Fianna Fail-Fine Gael e hanno dato invece fiducia allo Sinn Féin, che si è presentato come il partito dei lavoratori e della gente comune, deciso a tassare le multinazionali, le banche e i grandi capitali investendo nei servizi pubblici e nell’edilizia popolare”.
Spesso definito sbrigativamente ‘l’ex braccio politico dell’IRA’, lo Sinn Féin è in realtà il più antico partito politico d’Irlanda, fondato nel 1905 quando il paese era ancora una colonia britannica, e pur mantenendo fede all’obiettivo iscritto nel suo Dna – la piena sovranità nazionale irlandese – ha più volte cambiato pelle nel corso del tempo. In passato è stato convintamente anti-europeo: nel 1973 si oppose all’adesione di Dublino alla CEE ma poi, di fronte ai benefici portati dai fondi strutturali e alla spinta di Bruxelles al processo di pace, ha virato verso un euroscetticismo morbido che non gli ha impedito di schierarsi contro i vari trattati di riforma, da Maastricht, a Nizza, fino a Lisbona. Due anni fa un calcolo politico interno portò il partito anche a modificare la propria posizione sull’aborto, diventando a favore della nuova legislazione pur di cavalcare l’onda del consenso popolare. Fino a poco più di trent’anni fa lo Sinn Féin era solo un piccolo partito astensionista ma ha saputo trasformarsi in una formidabile macchina elettorale. Nel medio-lungo periodo punta adesso al grande progetto politico della riunificazione, da ottenersi attraverso un referendum in tutta l’isola. Il suo programma prevede l’immediata istituzione di un apposito comitato parlamentare e di un’assemblea di cittadini che discuta i piani per l’unità, mentre una consultazione popolare vera e propria dovrebbe svolgersi entro il 2025, ovvero prima che finisca la legislatura. Finora l’ipotesi di una riunificazione era stata poco più che un sogno proibito dei repubblicani. La paura di possibili reazioni violente da parte dei paramilitari protestanti (da sempre ostili a Dublino) e le temute conseguenze di carattere economico l’avevano sempre fatta accantonare a priori. Ma adesso ci sono davvero le condizioni perché si possa realizzare. A cambiare le carte in tavola ci ha pensato la Brexit: i cittadini dell’Irlanda del Nord hanno votato a maggioranza per il Remain e, sebbene l’intesa raggiunta da Boris Johnson con l’UE abbia fatto venir meno l’ipotesi di un confine terrestre tra le due parti dell’Irlanda, l’accordo minimalista sul commercio che Londra intende stringere con Bruxelles non funzionerebbe per le due parti dell’Irlanda, le cui economie sono da tempo profondamente legate e interdipendenti. Inoltre l’Irlanda del Nord non vuole perdere i 700 milioni di euro che arrivano ogni anno dall’Europa a sostegno dell’agricoltura, della crescita economica, dei progetti per la riconciliazione e delle iniziative culturali.
Già l’Accordo di pace del Venerdì Santo del 1998 stabiliva la possibilità di una futura riunificazione “quando entrambe le parti dell’isola lo avessero voluto” e negli ultimi due anni – complice la stessa Brexit – i sondaggi hanno mostrato un sostegno crescente nei confronti di una possibile riunificazione, persino all’interno della comunità protestante. L’ultima rilevazione si è svolta qualche settimana prima delle elezioni e ha visto circa due terzi degli intervistati al di sotto dei cinquant’anni dichiararsi a favore di un’Irlanda unita. Da tempo il dibattito ha anche varcato i confini dell’isola. La potente diaspora irlandese degli Stati Uniti – di cui fanno parte oltre trenta milioni di persone – solidarizza da sempre con i cattolici dell’Irlanda del Nord, ritenendo che la divisione del paese rappresenti un retaggio illegittimo del lungo dominio britannico. E c’è poi il censimento del 2021, che in Irlanda del Nord vedrà molto probabilmente i cattolici superare i protestanti per la prima volta nella storia. La presidente dello Sinn Féin, Mary Lou McDonald, non perde occasione per cercare alleati che possano sostenere il progetto del suo partito. In una recente intervista alla Bbc ha ribadito che l’UE deve prendere posizione sull’Irlanda come fece per la Germania dopo la caduta del Muro di Berlino. Un paragone affascinante ma forse non del tutto plausibile: lo sgretolamento del Regno Unito sarebbe in questo caso la conseguenza, non la causa della riunificazione irlandese, come fu invece il crollo del comunismo per la rinascita della Germania unita. Nel caso dell’Irlanda il processo di riavvicinamento appare assai più complicato, poiché secoli di divisioni tra le due comunità rendono alto il rischio di un ritorno alla violenza, se non sarà individuato un progetto unitario convincente per gli unionisti protestanti del Nord. Sul piano istituzionale il modello più credibile è quello di uno stato confederale con due giurisdizioni che condividano i poteri magari mantenendo un legame con la Corona britannica, sull’esempio del Canada. Al di là delle non trascurabili questioni identitarie vi sono poi anche problemi pratici, a partire dall’elevato costo della vita nella Repubblica d’Irlanda e dal suo programma di assistenza sanitaria privata che non può certo competere con il generoso National Health Service britannico.
RM
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La contea “ribelle” d’Irlanda teme i viaggi dell’aborto
Migliaia di croci bianche lungo la strada che collega Letterkenny a Bridge End, e unisce il centro urbano più popoloso del Donegal al confine con l’Irlanda del Nord. Erano stati gli attivisti Pro-Life della zona a piantarle ai bordi della carreggiata, in una sola notte, alcuni giorni prima dello storico referendum che ha azzerato in un colpo solo la legislazione irlandese sull’aborto. “Quelle croci rappresentavano le vite che saranno sacrificate in Irlanda ogni anno con la vittoria del Sì”, ha spiegato una volontaria che ha voluto restare anonima per non rischiare problemi con la polizia locale. Sono state rimosse una ad una qualche giorno prima del voto ma quella protesta silenziosa e spettacolare ha lasciato il segno, anticipando in un certo senso l’esito delle urne. Il Donegal, la contea ribelle, una delle anime più autentiche dell’antica Irlanda, ha detto di nuovo “No”, andando ancora una volta in direzione ostinata e contraria rispetto al resto del paese. È stata l’unica delle ventisei contee della Repubblica dove la maggioranza dell’elettorato si è espressa contro l’abolizione dell’Ottavo emendamento alla Costituzione, che dal 1983 equiparava il diritto alla vita della madre a quello del nascituro. Qui il “No” ha prevalso con il 52%, mentre a livello nazionale ha raggiunto appena il 33,5%. Il divario appare assai più netto nelle aree rurali e insulari del Donegal a ridosso del confine con il Nord, dove sono stati registrati picchi fino al 70%. D’altra parte nel Dún na nGall – questo il nome gaelico dell’area – sono stati respinti ben otto dei dieci referendum indetti da Dublino negli ultimi vent’anni, a cominciare da quello sul divorzio nel 1995, che fu bocciato con oltre il 60% dei voti.
Situata nella zona nord-occidentale dell’isola e affacciata sull’Oceano Atlantico, la contea del Donegal è collegata soltanto da un piccolo lembo di terra al resto della nazione, dal quale si differenzia sotto tutti i punti di vista. Non è un caso che fino a qualche anno fa uno degli slogan turistici più in voga nella regione fosse “Up here it’s different (“Quassù è diverso”). La città più grande è Letterkenny – non più di ventimila abitanti – ma il capoluogo è Lifford, minuscola cittadina di appena millesettecento anime a meno di mezz’ora di macchina da Derry. Il Donegal ricade sotto la sovranità della Repubblica d’Irlanda ma fa parte della provincia dell’Ulster, poiché insieme a Cavan e Monaghan è una delle tre contee che ai tempi della divisione del paese non furono incluse nell’Irlanda del Nord. D’altra parte il confine artificiale imposto dagli inglesi nel 1921 mirava a creare uno staterello protestante, e a tale scopo risultò indispensabile escludere dall’Irlanda del Nord le contee a maggioranza cattolica. Dopo la divisione l’area fu tagliata fuori dal resto dell’isola, l’economia locale subì un crollo verticale e a causa della sua posizione geografica fu anche una delle contee più colpite dal conflitto. L’identità del Donegal affonda le sue radici nei secoli precedenti: i suoi abitanti sono da sempre profondamente orgogliosi di aver dato i natali a uno dei dodici apostoli della scuola di San Finnian di Clonard, quel San Columba di Iona che dopo aver fondato decine di comunità monastiche in Irlanda e in Scozia sarebbe diventato uno dei tre santi patroni d’Irlanda, insieme a Patrizio e Brigida. Ma il Donegal è anche la terra di Brian Friel, uno dei più grandi drammaturghi irlandesi contemporanei, e di un gigante del rock come il compianto chitarrista Rory Gallagher.
Il giorno dopo lo storico referendum sull’aborto, le strade delle città e dei villaggi della contea erano già state ripulite dai manifesti elettorali e la gente aveva poca voglia di parlare, quasi come se quel voto non ci fosse mai stato e si cercasse in un certo senso di rimuoverlo. Ma quando l’esito delle urne è risultato chiaro, i social network hanno iniziato a infiammarsi vomitando insulti d’ogni genere contro gli abitanti della regione dissidente, rei di essersi pronunciati in maggioranza per il “No”, proprio come accadde nel 2015 quando la contea di Roscommon votò controcorrente al referendum sulle nozze gay. Nella suggestiva cittadina costiera di Buncrana, padre Francis Bradley si è rivolto ai fedeli durante l’omelia domenicale dall’altare dell’oratorio di Santa Maria, affermando che devono sentirsi orgogliosi “di aver tenuto duro contro la reintroduzione della pena di morte per le vittime innocenti”. La stampa nazionale ha ricordato che il Donegal ha la popolazione più anziana del paese e anche il più alto numero di fedeli che vanno a messa, e si è affrettata a concludere che il voto è stato in parte una ripicca nei confronti di Dublino, poiché tra la gente del posto è forte la convinzione di essere sempre stati ignorati dal governo centrale, anche nei periodi di crisi. Mentre le straordinarie bellezze naturali dell’area richiamano sempre più turisti, i principali nodi irrisolti continuano a essere l’assenza di collegamenti stradali e ferroviari e la crescente disoccupazione giovanile. Soltanto per fare un esempio, l’ampliamento dell’autostrada Derry-Dublino promessa oltre un decennio fa rimane tuttora lettera morta. A non condividere una lettura tutta “politica” del voto è Ann McCloskey di Cherish All The Children Equally, un’associazione ispirata ai principi della storica Proclamazione di Pasqua del 1916. “La vittoria del No da queste parti è il risultato del duro lavoro che abbiamo svolto in questi mesi – ci dice – i nostri volontari hanno compreso fin dall’inizio quale fosse la posta in gioco e si sono impegnati in una campagna capillare, lavorando senza sosta”. Secondo McCloskey c’è stato invece un grave problema di disinformazione nel resto del paese. “Sulla stampa non si faceva altro che parlare di stupri, di incesti o di anomalie del feto. Si sentivano continue menzogne, ad esempio che alle donne venissero negate le terapie anti-cancro durante la gravidanza, mentre in realtà la battaglia era volta soltanto a ottenere l’aborto su richiesta nelle prime dodici settimane”.
Quando sarà approvata la legge che liberalizzerà l’interruzione di gravidanza in tutta la Repubblica d’Irlanda – entro l’inizio del 2019, stando agli annunci del primo ministro Varadkar – il Donegal potrebbe persino ritrovarsi in una situazione paradossale. Rischia infatti di diventare in breve tempo una delle aree del paese con il più alto tasso di aborti: trovandosi al confine con l’Irlanda del Nord – dove l’aborto resta illegale – è facile prevedere che d’ora in avanti le donne nordirlandesi che vogliono abortire non avranno più motivo di prendere l’aereo per l’Inghilterra ma sceglieranno piuttosto di recarsi nel Donegal, a pochi chilometri da casa. Le statistiche ufficiali del ministero della Sanità britannico hanno registrato 724 casi nel 2016 e nei giorni scorsi l’attuale ministro per le politiche giovanili di Dublino, Katherine Zappone, ha persino lanciato una sorta di appello in tal senso alle donne del Nord. Intanto l’IMO, il sindacato dei medici irlandesi, ha iniziato a fare pressione perché la nuova legge tuteli perlomeno la libertà di scelta dei medici obiettori.
RM
L’Irlanda al voto sull’aborto. Intervista a Catherine Dunne
Venerdì di Repubblica, 27.4.2018
“L’aborto divide la società irlandese dal 1983, quando fu introdotto l’Ottavo emendamento alla Costituzione che equipara la vita del feto a quella della donna fin dal concepimento. Dobbiamo innanzitutto eliminare questa ingiustizia dalla Costituzione, poi la materia dovrà tornare nelle mani del legislatore”. La scrittrice Catherine Dunne è stata una delle prime ad aderire alla campagna degli artisti irlandesi a favore dell’abrogazione di quell’emendamento, insieme a Edna O’Brien, Colm Tóibín, Joseph O’Connor e a centinaia di altri intellettuali. “Tre anni fa, grazie a una campagna estremamente efficace, prevalse il sì nel referendum per il matrimonio tra persone dello stesso sesso – spiega l’autrice del recente romanzo Come cade la luce (Guanda) -, adesso abbiamo bisogno dello stesso impegno per emendare un deficit legislativo sull’aborto che contravviene anche la carta dei Diritti Umani delle Nazioni Unite”.
Il 25 maggio, dopo anni di tentennamenti e rinvii, si terrà un altro referendum indetto dal governo di Dublino che stavolta chiederà ai cittadini se vogliono mantenere l’Ottavo emendamento oppure consentire al Dáil Éireann, la camera bassa del parlamento, di legiferare permettendo l’aborto entro la dodicesima settimana di gravidanza.

L’Irlanda ha ancora una delle leggi più restrittive del mondo, che non consente l’interruzione di gravidanza neanche in caso di stupro o incesto, e prevede pene fino a quattordici anni di carcere per le donne colpevoli di aborto illegale. La sensibilità di Catherine Dunne sull’argomento nasce anche da un’esperienza personale. Nel 1991 perse Eoin, il suo secondogenito appena nato, a causa di un distacco della placenta. Riuscì a superare quel trauma solo grazie al potere terapeutico della scrittura e all’aiuto degli amici. “Circa cinquemila donne lasciano l’Irlanda ogni anno per cercare un aborto sicuro e legale lontano da casa, in particolare nel Regno Unito. Ma i cambiamenti di paradigma culturale sono possibili. Una trentina d’anni fa il divorzio era impensabile e fino a poco tempo fa lo stesso concetto di matrimonio gay era incomprensibile. Spero che a breve anche la visione cattolica sull’aborto, finora sostenuta dallo stato irlandese, possa cambiare”. Una prima apertura c’è già stata nel 2013, con una legge che consente l’aborto se la gravidanza mette a rischio la vita della donna. Di recente il premier Leo Varadkar, del partito di centrodestra Fine Gael, ha affermato che non è più possibile continuare a esportare il problema all’estero, dal momento che in Irlanda “l’aborto esiste ma è pericoloso, non regolato e illegale”. Secondo i sondaggi più recenti circa il 56 per cento degli elettori risulta a favore dell’abrogazione dell’Ottavo emendamento ma i principali partiti irlandesi sono ancora fortemente divisi sul tema, mentre i cattolici tradizionalisti sono decisi a difendere l’ultimo argine contro la definitiva secolarizzazione del paese. “Sono ottimista”, conclude Dunne, “ma anche molto cauta, perché l’elettorato delle città è assai distante da quello delle aree rurali”.
RM
L’Irlanda apre sull’aborto?
Quelle del 26 febbraio prossimo saranno le elezioni generali dall’esito più incerto e dalle conseguenze sociali potenzialmente più profonde della storia della Repubblica irlandese. Appena cinque anni fa l’Irlanda si trovava sull’orlo della bancarotta, strozzata da una bolla speculativa immobiliare che aveva gettato in crisi l’intero sistema bancario nazionale. Oggi, dopo una ripresa economica da molti considerata sorprendente, il paese ha un debito pubblico che nell’ultimo anno è sceso di quasi nove punti percentuali in proporzione al Pil, un tasso di disoccupazione ai livelli minimi dell’area UE e previsioni di crescita che secondo la BCE sfioreranno il 5% nel 2016. Anche se la ripresa è più evidente nelle città che nelle aree rurali, tutti gli indicatori economici confermano che in Irlanda la crisi è finita e, dopo anni assai difficili, è stato varato il primo bilancio che non prevede nuove tasse né tagli alla spesa pubblica, mentre la creazione di nuovi posti di lavoro appare finalmente una prospettiva concreta. Tuttavia la coalizione di governo formata dal partito di centrodestra Fine Gael insieme ai laburisti non è riuscita a prendersi il merito dell’uscita dalla crisi e, stando agli ultimi sondaggi, difficilmente otterrà i seggi necessari per essere confermata. Secondo gli osservatori più attenti le dure politiche di austerità pagate dalla classe media e dai lavoratori puniranno soprattutto il Labour, e ad oggi l’ipotesi più gettonata contempla un accordo senza precedenti tra i due principali partiti, il Fianna Fail e il Fine Gael, la cui rivalità risale ai tempi della guerra civile degli anni ’20.
Gli orientamenti degli elettori irlandesi, anche prima della crisi, sono sempre stati condizionati molto più dai temi economici che dalle questioni sociali. Eppure il terremoto politico innescato dal referendum che il 22 maggio scorso ha equiparato i diritti delle coppie omosessuali ed eterosessuali ha aperto anche una breccia con possibili conseguenze per quanto riguarda una futura legalizzazione dell’aborto. Anche nella cattolicissima Irlanda c’è infatti chi da tempo chiede a gran voce un analogo referendum per abrogare l’Ottavo emendamento della Costituzione irlandese, che equipara il diritto alla vita della madre a quello del feto, stabilendo pene detentive fino a 14 anni per chi pratica aborti illegali. Negli ultimi mesi, a Dublino e dintorni, i gruppi dell’area radicale e femminista hanno organizzato vaste campagne di mobilitazione, sono state lanciate petizioni che hanno coinvolto personaggi della cultura e dello spettacolo, mentre centinaia di medici hanno firmato l’appello di Amnesty international che chiede al governo irlandese di depenalizzare l’interruzione di gravidanza.
In questi giorni la grande incertezza politica ha trasformato il tema dell’aborto nel convitato di pietra dell’attuale campagna elettorale. La questione non compare infatti nei manifesti dei principali partiti che, condizionati dal risultato del referendum dell’anno scorso e dai sondaggi che vedrebbero la maggioranza degli irlandesi favorevoli all’abolizione, preferiscono sfuggire il dibattito sull’argomento, affidandosi ai machiavellismi e rimandando il problema a dopo le elezioni. Il partito di maggioranza relativa Fine Gael ha rischiato di spaccarsi, tanto che il premier Enda Kenny ha imposto il silenzio ai suoi e ha concesso in cambio la libertà di voto nella convenzione costituzionale che si terrà dopo le elezioni, promettendo che il referendum si farà se il suo partito uscirà vincitore dalle urne. Micheál Martin, leader del Fianna Fáil, il maggiore partito d’opposizione, ha detto invece che non intende toccare l’Ottavo emendamento e neanche promuovere un referendum, ma metà dei suoi parlamentari hanno preferito non pronunciarsi, lasciando intravedere una possibile apertura. Appena un anno fa, al suo ultimo congresso, il partito repubblicano Sinn Féin, già braccio politico dell’IRA e protagonista di un’ascesa politica senza precedenti, ha abbandonato in modo del tutto strumentale la sua storica opposizione nei confronti dell’aborto, dichiarandosi a favore almeno in presenza di gravi anormalità del feto. Non hanno invece scelto una linea chiara, preferendo lasciare un sostanziale libertà di coscienza ai propri candidati, tutte le realtà politiche minori, tra cui il nuovo partito di centrodestra Renua Ireland. La verità è che nell’Irlanda odierna non esiste un partito politico espressamente impegnato a promuovere i valori cattolici e i singoli candidati stanno molto attenti all’umore dei loro elettori prima di prendere posizione su un tema così sensibile. Giorni fa l’arcivescovo di Armagh Eamon Martin, primate di tutta l’Irlanda, ha elencato con estrema chiarezza le priorità per i cattolici alle prossime elezioni. “A chi vuole il nostro voto – ha detto – dovremo chiedere fino a che punto sarà disposto a sostenere la famiglia e la vita, la libertà di educazione e di coscienza, oltre a un corretto equilibrio tra la vita e il lavoro che rispetti il ruolo delle madri e dei padri. Le politiche sociali ed economiche dovranno concentrarsi sul problema delle famiglie più povere, affrontando in particolare i bisogni dei bambini, degli anziani e dei giovani che vogliono metter su famiglia ma sono spesso costretti dalla situazione economica a restare da soli”. Alle parole di Martin ha fatto eco il monito del Primate della Chiesa d’Irlanda, l’arcivescovo anglicano Richard Clarke, anch’egli nettamente contrario a qualsiasi ipotesi di liberalizzazione dell’aborto.
È utile ricordare che l’Ottavo emendamento alla Costituzione irlandese venne adottato nel 1980 proprio da un governo Fine Gael-Labour al fine d’impedire che la Corte Suprema potesse sancire il diritto all’aborto su base giurisprudenziale, com’era già accaduto nei primi anni ’70. L’emendamento venne all’epoca approvato per via referendaria da un’ampia maggioranza di irlandesi e poi attenuato nel 1992, quando fu garantito alle donne il diritto di andare ad abortire all’estero. A chi sostiene che la vita delle madri viene messa in pericolo è stato già risposto nel 2013 con una legge che consente alle donne di interrompere la gravidanza se la loro vita è a rischio, includendo anche i casi di suicidio. Ma per il fronte abolizionista è ancora troppo poco e la richiesta è quella di cancellare il divieto una volta per tutte. Tutti i partiti irlandesi sembrano concordare sul fatto che la legislazione vada resa più chiara, stabilendo dei paletti ben precisi sulla concezione di rischio per la vita della madre. Proprio questa mancanza di chiarezza potrebbe alla fine spianare la strada agli abolizionisti tout court, consentendo loro di sostituire l’Ottavo emendamento con quello che è stato definito ‘aborto su richiesta’, uno scenario che equivarrebbe a una svolta storica per la Repubblica irlandese che proprio quest’anno celebra il centenario del suo evento fondativo, la Rivolta di Pasqua del 1916. Il prossimo governo irlandese, quale che sia, è atteso da sfide importanti come la riforma del settore pubblico, la grave emergenza abitativa, l’atteggiamento nei confronti di ‘Brexit’ (l’eventuale uscita di Londra dall’UE) e dovrà contenere la forte protesta popolare per la nuova tassa sull’acqua. Ma non potrà in alcun modo sottrarsi al dibattito sull’Ottavo emendamento, dal cui esito dipende il futuro dell’identità dell’Irlanda.
RM
I serbi di Bosnia sfidano Dayton
Non sono pochi i timori della comunità internazionale nei confronti del referendum che si terrà in Bosnia-Erzegovina domani, domenica 15 novembre, e che rappresenta una chiara minaccia nei confronti della stabilità e della pace nello stato bosniaco. La consultazione è stata voluta a tutti i costi dal presidente della Repubblica Srpska Milorad Dodik, l’entità serbo-bosniaca dell’area, che ha chiesto e ottenuto il consenso dell’assemblea legislativa su un referendum popolare che potrebbe di fatto delegittimare la fragile architettura istituzionale faticosamente creata dalle ceneri del brutale conflitto degli anni ’90. I cittadini saranno chiamati a esprimersi su un unico quesito referendario, apparso tutt’altro che imparziale già nella sua formulazione: “sostieni le leggi incostituzionali e non autorizzate imposte dall’Alto Rappresentante e dalla comunità internazionale in Bosnia-Erzegovina, in particolare le leggi imposte sulla Corte statale e il Procuratore e l’attuazione delle loro decisioni sul territorio della Repubblica Srpska?”. Criticando la figura dell’Alto Rappresentante delle Nazioni Unite incaricato di sorvegliare sul processo di pace in Bosnia si mettono di fatto in discussione gli accordi di Dayton del 1995 – dei quali in questi giorni ricorre peraltro il ventennale – e si rischiano di compromettere anni di progressi verso la pace e la stabilità nella regione. Il nazionalista Dodik ha sottolineato lo spirito della sua iniziativa usando parole forti, spiegando all’assemblea che “si tratta di scegliere tra preservare la nostra costituzione e i nostri diritti internazionali o continuare sulla strada della degradazione dei diritti della Republika Srpska”. Se l’esito del referendum sarà quello da lui auspicato, le istituzioni dell’entità serbo-bosniaca potranno disobbedire al potere giudiziario federale, avviando di fatto la distruzione del sistema giuridico creato nel dopoguerra. Secondo molti osservatori, la consultazione di domenica equivarrebbe addirittura a una forma velata di dichiarazione d’indipendenza da parte dell’entità serbo-bosniaca, un primo passo verso una secessione dalle conseguenze imprevedibili, specie adesso che la forza internazionale di peacekeeping presente sul territorio è stata ridotta a poche centinaia di effettivi. Con la secessione della repubblica serba di Bosnia soltanto la federazione croato-musulmana resterebbe a far parte dell’attuale Bosnia Erzegovina, ma di fatto imploderebbe l’intera architettura amministrativa e politica costruita a Dayton venti anni fa. Il primo a denunciare questa situazione è stato l’Alto Rappresentante Valentin Inzko, che nelle settimane scorse ha inviato da Sarajevo un allarmatissimo rapporto al Consiglio di Sicurezza sostenendo che il referendum rappresenta un’aperta violazione degli accordi di Dayton. “Esiste un rischio serio – ha concluso Inzko nel suo rapporto – che la Bosnia Erzegovina scivoli verso la disintegrazione, con conseguenze significative per la pace e la sicurezza internazionale”.
L’iniziativa del nazionalista Dodik ha suscitato anche la condanna unanime da parte dei Ministri degli Esteri europei, che hanno sottolineato come questa potrebbe frenare il processo d’integrazione della Bosnia nell’UE, ed è stata sconfessata fin da subito anche dal governo di Belgrado. Il primo ministro serbo Aleksandar Vucic ha chiesto a Dodik di riconsiderare la decisione sul referendum, ma ha ricevuto un netto rifiuto. Il leader serbo-bosniaco aveva già minacciato un’iniziativa analoga nel 2011, che all’epoca fu scongiurata proprio dall’intervento europeo. Oggi la situazione appare però più grave, con una volontà referendaria alimentata anche dalle crescenti tensioni interne dovute alla crisi economica (la Bosnia ha un tasso di disoccupazione tra i più alti d’Europa) e alla dilagante corruzione. Un altro fattore ha poi contribuito all’insoddisfazione nei confonti delle autorità bosniache: l’arresto di Naser Oric, comandante dell’esercito bosniaco durante il conflitto degli anni ’90. Recentemente assolto dal Tribunale dell’Aja, esistono ancora contro di lui una serie di capi d’imputazione per fatti commessi contro l’entità serba, per i quali è stato spiccato da tempo un mandato di cattura internazionale da parte della Serbia. Arrestato dalle autorità svizzere il 10 giugno scorso, Oric è stato estradato in Bosnia – e non in Serbia, dov’era accusato – e quasi subito rilasciato.
RM