Il confine fantasma che minaccia la pace

Avvenire, 26 febbraio 2019

“Ricordi quel villaggio attraversato dal confine / laggiù in fondo alla strada / Con il macellaio e il panettiere in due stati diversi?” Nel 1980 il poeta nordirlandese Paul Muldoon dedicò una delle sue opere a quella frontiera che per decenni ha tagliato in due le esistenze di intere comunità. Circa cinquecento chilometri di sentieri, corsi d’acqua e distese di prati che corrono dal mare d’Irlanda fino all’estuario del fiume Foyle separando in modo schizofrenico le due parti dell’isola. Un confine che Diarmaid Ferriter, uno dei più autorevoli storici irlandesi contemporanei, non esita a definire “ridicolo” perché la sua stessa natura morfologica lo rese sostanzialmente incontrollabile, ma riuscì comunque a stravolgere la vita di migliaia di persone con effetti distruttivi sull’economia di entrambe le parti dell’Irlanda. Fu anche una delle frontiere più atipiche del mondo, faticosamente cancellata dopo decenni di guerra nel cuore dell’Europa. Negli ultimi vent’anni era svanito a poco a poco fino a diventare impalpabile: lo si poteva attraversare decine di volte quasi senza rendersene conto. Le ispezioni doganali vennero abolite nel 1993 per effetto delle normative europee mentre i controlli ai checkpoint militari furono rimossi del tutto nel 2005, dopo la messa fuori uso delle armi da parte dell’IRA. Ma dopo l’esito del referendum sulla Brexit il problema è riesploso in tutta la sua complessità, diventando oggetto di una controversia apparentemente irrisolvibile tra Londra e Bruxelles. Appare dunque particolarmente puntuale e opportuna l’uscita del nuovo saggio storico di Diarmaid Ferriter, The Border: The Legacy of a Century of Anglo-Irish Politics. Quel confine – ricorda l’autore, che è docente all’University College di Dublino – fu creato ormai quasi un secolo fa per risolvere la “questione irlandese”, cancellandola una volta per tutte dalla politica britannica. Ma oggi la Brexit, per effetto di una sorta di nemesi, ha riavvolto l’orologio della Storia riaprendo ferite che si credevano rimarginate per sempre, rischiando persino di far saltare l’architettura istituzionale dell’Accordo del Venerdì Santo, che si basava proprio sulla cancellazione di quel confine. Un intricato rompicapo politico che i negoziati di Bruxelles non sembrano in grado di risolvere e per il quale gli inglesi – vittime della legge del contrappasso – possono ora solo biasimare sé stessi.
Nel 1954 il deputato laburista Aneurin Bevan, stanco delle dispute parlamentari con i colleghi unionisti irlandesi, affermò durante una seduta della Camera dei Comuni che non doveva più essere consentito a quei pochi irriducibili di condizionare il processo legislativo di Westminster con i loro voti. Oltre sessant’anni dopo, la sopravvivenza del governo di Theresa May e il futuro della Brexit dipendono da un pugno di deputati del Democratic Unionist Party, il partito unionista radicale che fa da stampella alla fragile maggioranza parlamentare dei conservatori inglesi. Sono loro a tenere in ostaggio il governo e a condizionare l’esito delle trattative con Bruxelles sul confine irlandese. “La storia a volte si ripete e spesso non è priva di ironia – rileva Ferriter – poiché il Government of Ireland Act, la legge che nel 1920 aprì la strada alla sciagurata divisione dell’Irlanda fu approvata proprio da una maggioranza parlamentare conservatrice alleata con gli unionisti dell’Ulster”. Per oltre un secolo i tories britannici hanno assecondato il loro fanatismo con i risultati che oggi sono sotto gli occhi di tutti. All’inizio del ‘900, quando l’Impero britannico giunse al crepuscolo e Londra non fu più in grado di giustificare la repressione militare di fronte alle istanze democratiche degli irlandesi, fu imposto a tutta l’Irlanda il durissimo compromesso della divisione. Sei delle nove contee dell’Ulster andarono a costituire un’entità politica mai esistita fino ad allora, frutto della convergenza di interessi tra il governo britannico e la borghesia industriale dell’Ulster: lo stato dell’Irlanda del Nord, pari al 17% scarso del territorio dell’isola, con un proprio Parlamento presso il palazzo di Stormont, alle porte di Belfast. Ne facevano parte quattro contee a maggioranza protestante (Antrim, Armagh, Down e Londonderry) e due a maggioranza cattolica (Fermanagh e Tyrone). I confini del nuovo stato furono tracciati in modo arbitrario al fine di assicurare una prevalenza di due terzi ai protestanti e a questo scopo fu necessario escludere dall’accordo le tre contee dell’Ulster a maggioranza cattolica (Cavan, Monaghan e Donegal). L’Irlanda sarebbe rimasta divisa sine die, contro la volontà della maggioranza della popolazione e ogni logica politico-giuridica. Ferriter fa notare che spesso persino i funzionari britannici riconoscevano in privato che quel confine era “artificiale e assurdo” ma ormai era troppo tardi per tornare indietro. Fin dalla sua nascita nel 1921, lo staterello artificiale dell’Irlanda del Nord fu fondato sulla discriminazione della minoranza cattolica, analogamente al Sudafrica dei tempi dell’apartheid. E proprio come accadde in India e in Palestina dopo la Dichiarazione Balfour del 1917, le divisioni imposte dagli inglesi non riuscirono a risolvere i problemi di quei territori ma, al contrario, finirono per esacerbarli. I cattolici nordirlandesi divennero cittadini di seconda classe: già negli anni ‘20 oltre settemila persone furono cacciate dai posti di lavoro e costrette a vivere in alloggi fatiscenti. Circa cinquecento di essi morirono in appena tre anni a causa degli attacchi settari compiuti dagli estremisti protestanti. La crisi si inasprì negli anni ‘60, quando il Movimento per i diritti civili dell’Irlanda del Nord iniziò a chiedere la fine delle discriminazioni sul lavoro, sul voto e sull’accesso alla casa ma in tutta risposta ottenne solo l’inasprimento della repressione. La conseguente escalation di violenza fece deflagrare il conflitto nei decenni successivi: gli scontri tra l’IRA e l’esercito britannico – che agiva spesso in collusione con i paramilitari lealisti – scatenò un conflitto lungo quasi tre decenni, durante il quale il confine divenne una zona militarizzata con gigantesche torri di osservazione, posti di blocco dell’esercito e ponti abbattuti per impedire gli sconfinamenti illegali. Una situazione che creò perdite economiche incalcolabili favorendo il contrabbando di bestiame, di benzina, di alcol e di generi alimentari. Per anni quel confine fu anche uno dei luoghi più pericolosi d’Europa, con attentati ed episodi di violenza che divennero una prassi quasi quotidiana. Finché il coraggio e la diplomazia non riuscirono finalmente a trovare una faticosa via d’uscita con l’accordo del Venerdì Santo del 1998, che cementò una pace basata sul compromesso. Nel suo libro, Ferriter non manca di sottolineare il ruolo decisivo dell’Europa nel favorire il processo di pace e gli enormi benefici economici portati in questi ultimi anni da un confine aperto. Avrebbe potuto essere una storia a lieto fine, se il terremoto della Brexit non avesse infine sparigliato le carte contro il volere della maggioranza della popolazione dell’Irlanda del Nord. Il 56% di essa votò infatti a favore della permanenza nell’UE. Adesso, a meno che non sia trovata una soluzione momentanea con il cosiddetto “backstop”, quando Londra abbandonerà il mercato unico e l’unione doganale sarà inevitabile anche il ripristino dell’infrastruttura transfrontaliera tra le due parti dell’isola. “Il nuovo confine occidentale dell’UE avrà più attraversamenti in un remoto angolo d’Irlanda che in tutta l’Europa dell’est – conclude Ferriter – con conseguenze imprevedibili sul processo di pace”.
RM

Irlanda del Nord, dolore e poesia

Può un conflitto pluridecennale essere declinato in versi? Giganti della poesia come Seamus Heaney, Michael Longley, Paul Muldoon e molti altri cercarono di usare le parole per combattere l’orrore.

Avvenire, 8.4.2018

“Nessun trattato/ intravvedo che possa del tutto sanare il tuo corpo/ tracciato di solchi e smagliature, il grande dolore/ che ti lascia ferita, come terra aperta, terreno aperto, ancora.” Mentre l’Irlanda del Nord si avvia a celebrare il ventennale dell’Accordo di pace del 10 aprile 1998, questi versi della poesia Atto di Unione scritta da Seamus Heaney negli anni ‘70, suonano oggi quasi profetici. A lungo il grande bardo d’Irlanda è stato considerato estraneo al contesto politico del suo paese, sebbene i crudi temi della guerra angloirlandese ricorrano con toni evocativi e personali in molti suoi componimenti. Heaney condivise in un certo senso ciò che Picasso affermò dopo la Liberazione (“Non ho dipinto la guerra, ma senza dubbio la guerra è presente nei quadri che ho dipinto allora”). Il conflitto è infatti una delle tematiche centrali della sua raccolta “North” risalente al 1975, con liriche come Punizione, Riti funebri, Smascheramento e la bellissima Qualunque cosa tu dica non dire niente, in cui declama, “C’è una vita prima della morte? È scritto in gesso/ a Ballymurphy. Competenza con dolore/ e miserie coerenti, un morso e un sorso,/ noi abbracciamo ancora il nostro piccolo destino”. Un’altra sua celeberrima raccolta, “Field Work” del 1979, contiene invece Vittima, la straordinaria elegia per un pescatore di anguille che viola il coprifuoco proclamato dalla sua stessa parte e muore con una pinta fra le mani, in un pub dove non avrebbe dovuto essere (“Ma la mia arte esitante/ la sua schiena girata pure osserva:/ fu dilaniato/ mentre era al pub durante un coprifuoco/ rispettato da altri, tre sere/ dopo che avevano ammazzato/ i tredici di Derry./ PARA’ TREDICI, si leggeva sui muri/ BOGSIDE ZERO. Quel mercoledì/ tutti trattennero/ il respiro e tremarono”). Nel suo incessante “scavare”, alla ricerca delle radici del proprio popolo, Heaney fu anche accusato di essere un osservatore di parte, di aver interpretato quel conflitto solo attraverso lo sguardo di un cattolico, ignorando le sofferenze della comunità protestante. Mai accusa fu più ingiusta e infondata, ripensando ad esempio a una poesia appartenente al primo periodo della sua attività – L’altra parte -, nella quale torna al contesto rurale della sua nascita per indagare la differenza tra le due tradizioni religiose e politiche dell’Irlanda. Heaney volle mantenere un’equidistanza persino nel discorso che pronunciò nel 1995 di fronte all’Accademia di Svezia, il giorno del conferimento del Nobel, ricordando i tempi in cui ascoltava la pioggia negli alberi insieme alle notizie della radio, con “le bombe dell’Ira – disse – e quelle dei lealisti del nord”. Secondo alcuni quel premio ebbe anche un significato politico, poiché seguì lo storico cessate il fuoco dell’esercito repubblicano, che l’anno prima aveva finalmente spianato la strada al processo di pace. Proprio com’era accaduto nel 1923 al suo illustre connazionale William Butler Yeats.
In una società squassata da quella guerra e in preda a un prolungato spasmo di paralisi sociale, la reinterpretazione della violenza in forma poetica è stata un effetto collaterale di trent’anni di conflitto. Dalla fine degli anni ‘60 in poi, i poeti irlandesi hanno fatto l’unica cosa che potevano fare per rispondere all’orrore: confezionare parole, mettere in rima sentimenti, costruire elegie per elaborare quei lutti e farsi carico del peso collettivo della memoria. Autori come Michael Longley e Paul Muldoon, solo per citare i più famosi degli ultimi cinquant’anni, hanno considerato la guerra e la politica come un terreno di continua esplorazione letteraria, molto più di quanto abbia fatto Heaney. Non uno strumento per schierarsi o per esprimere giudizi, bensì un modo per trascendere la ragione e – stando a Longley – “annotare le proprie incertezze”. I poeti della loro generazione hanno raccolto il testimone di Yeats e hanno rinverdito una tradizione poetica che risaliva ai tempi precedenti il conflitto in Irlanda del Nord, con autori come John Harold Hewitt e Patrick Kavanagh, Louis MacNeice e Cecil Day Lewis, questi ultimi due tra gli esponenti di spicco del “Circolo” fondato negli anni ‘30 da W.H. Auden.
La ricerca di simboli appropriati per descrivere l’orrore ha dato vita a un immaginario in parte ripreso dai classici che ha ispirato una moltitudine di componimenti, a partire da uno dei capolavori di Longley, nonché quella che è forse la poesia più nota sul conflitto irlandese, Tregua. Pubblicata nel 1994 subito dopo l’annuncio del cessate il fuoco dell’IRA, è un sonetto in quattordici versi ispirato all’Iliade di Omero, nel quale il re Priamo bacia la mano di Achille che ha ucciso suo figlio Ettore. Una metafora del perdono alla quale lo stesso Longley farà seguire, quattro anni più tardi, At Poll Salach, una poesia composta due giorni dopo la firma dell’Accordo del Venerdì Santo che è un’allegoria della pace e della speranza. Ma prima delle metafore di riconciliazione, delle immagini di crescita e di fioritura, c’erano stati gli scenari raffiguranti l’assenza, la morte e il gelo invernale. Risale ad esempio all’inizio del conflitto la splendida Canti dei bambini morti, una citazione dall’omonima opera di Gustav Mahler, che Longley scrisse ispirandosi al primo bambino ucciso durante il conflitto, il piccolo Patrick Rooney di nove anni, ammazzato a Belfast nell’agosto 1969 dall’esercito britannico. Anche Paul Muldoon ha sempre sentito un bisogno quasi ossessivo di scrivere sui cosiddetti “Troubles”, regalandoci opere memorabili come Raccogliendo funghi e il lungo componimento Più un uomo ha e più vuole. Altri poeti del Nord Irlanda hanno scritto sulla guerra veri e propri capolavori: Derek Mahon con Un capanno abbandonato nella contea di Wexford, Sinéad Morrissey con Pensieri in un taxi nero o Medbh McGuckian con la struggente Disegnando ballerine, composta per commemorare una ragazza uccisa da una bomba dell’IRA, il cui corpo violato risorge come un’icona di spazio e di biancore. Edna Longley, professore emerito alla Queen’s University di Belfast e tra le più autorevoli voci del panorama culturale irlandese, sostenne anni fa che la dimensione trascendente era stata indispensabile per costruire la pace, la quale “non si alimenta solo del pragmatismo dei negoziati e dello smantellamento dell’attitudine mentale alla conflitto. Poiché la pace, proprio come la poesia, deve essere prima di tutto anche immaginata”.
Oggi, a distanza di vent’anni da quell’accordo che sancì ufficialmente la fine del conflitto, la tradizione poetica dell’Irlanda del Nord appare sempre più vitale perché è alimentata dal basso, in luoghi come i pub, uno su tutti il rinomato Sunflower di Belfast, teatro di affollatissime sessioni di reading poetici che vedono protagonisti autori di successo ma anche semplici appassionati. Ed è sempre più un punto di riferimento per la letteratura in lingua inglese, come dimostrano i prestigiosi riconoscimenti ottenuti l’anno scorso proprio da Michael Longley – vincitore del PEN Pinter Prize – e da Paul Muldoon, che ha ricevuto la medaglia d’oro alla poesia conferita ogni anno dalla regina d’Inghilterra.
RM