Left, 15 ottobre 2021
Quando fu ucciso vigliaccamente da una banda di fascisti a Firenze, nel 1921, Spartaco Lavagnini era il segretario toscano del sindacato ferrovieri e del partito comunista d’Italia, nonché il direttore del periodico Azione comunista. Era soprattutto uno dei principali leader del proletariato italiano: poco più che trentenne, aveva di fronte a sé una straordinaria carriera politica e sindacale. Ma il suo destino era quello di diventare il primo martire dell’antifascismo italiano. Pochi giorni dopo il suo brutale assassinio, Antonio Gramsci scrisse di lui sulla sua rivista l’Ordine nuovo: “cadendo come un capo, al suo posto di lavoro, aveva forse giovato di più all’idea in cui credeva e aveva forse insegnato più cose al popolo con la sua morte, di quanto avrebbe mai potuto insegnare con la parola”.
Dopo la definitiva ascesa del fascismo, Lavagnini fu oggetto di un odio feroce che travalicò la sua eliminazione fisica e colpì a lungo anche la sua memoria. Per lunghi anni fu assai rischioso anche soltanto andare a onorarne la memoria al cimitero fiorentino di Trespiano. “Alla sua tomba si posero in agguato poliziotti e fascisti, pronti ad arrestare e picchiare chiunque si fosse avvicinato a compiere un gesto di pietà”, scrive Andrea Mazzoni in Spartaco il ferroviere. Vita morte e memoria del ragionier Lavagnini antifascista (ed. Pentalinea, pp. 424), la biografia più documentata e completa sul grande sindacalista toscano, uscita proprio in occasione del centenario della sua morte. È un libro che trasuda passione civile, in cui l’autore riconosce un legame affettivo con il protagonista, per i racconti ascoltati dal padre ferroviere amplificati dalla scoperta di una nonna operaia e sindacalista che incrociò Lavagnini durante una lunga vertenza, negli anni della Grande guerra.
Nato a Cortona, in provincia di Arezzo, il 6 settembre del 1889, Spartaco Lavagnini si era trasferito a Firenze nel 1907 per andare a lavorare come impiegato alle Ferrovie dello Stato, proprio nell’anno in cui il servizio ferroviario fu nazionalizzato e nacque il sindacato dei ferrovieri. Nel capoluogo toscano aveva iniziato anche l’attività sindacale e politica aderendo alla Confederazione Generale del Lavoro e iscrivendosi al Partito socialista italiano. Entrato nella corrente rivoluzionaria, aveva iniziato fin da subito ad assumere ruoli dirigenziali. Nel 1914 venne eletto per la prima volta membro del Comitato esecutivo della Federazione fiorentina del Psi cominciando a scrivere regolarmente su La Difesa, organo della federazione fiorentina del partito socialista. Del giornale e del partito Lavagnini condivideva la linea di ferma opposizione alla guerra, e nel settembre del 1914 fu tra gli autori del manifesto del comitato provinciale del Psi che definiva la guerra “la più tipica manifestazione della prepotenza e del privilegio borghese”, invitando gli iscritti a opporsi a un intervento dell’Italia “a fianco dell’una o dell’altra parte belligerante”.
Firmandosi con lo pseudonimo “Vezio”, Lavagnini espresse ammirazione per le tesi di Lenin e avversò il centrismo pacifista, impersonato in Italia dal “né aderire, né sabotare” di Costantino Lazzari. Dopo essere stato protagonista dei grandi scioperi del “biennio rosso”, nel 1920 fu infine eletto segretario dei ferrovieri toscani. Nei mesi cruciali che sfociarono nella storica scissione del partito fu uno dei leader della frazione comunista che prevalse sulla corrente massimalista unitaria e su quella riformista e assunse infine il controllo della federazione fiorentina del Psi.
Dopo lo storico congresso nazionale che si tenne dal 15 al 21 gennaio del 1921 a Livorno, la maggioranza della federazione fiorentina si schierò con i comunisti e Lavagnini fu uno dei fondatori della locale sezione del Partito comunista d’Italia, di cui divenne anche il primo segretario, nonché il direttore del nuovo periodico Azione comunista. Il libro di Mazzoni dà giustamente ampio risalto anche al Lavagnini giornalista sottolineando che, sotto la sua guida, il settimanale propose articoli di impostazione teorica e programmatica e raccontò in presa diretta le lotte del proletariato toscano in una fase storica estremamente violenta, in cui lo scontro sociale si era tramutato ormai da tempo in guerra civile. “Il partito comunista – scrive Lavagnini – non ha fatto rosee promesse, né socchiuso gli occhi dei lavoratori alla visione di sogni dorati: esso ha parlato della necessità della lotta. L’azione rivoluzionaria, necessariamente violenta, necessariamente sanguinosa è azione che può rendere sublime il sacrificio, ma che il sacrificio esige, vuole, impone”. Erano parole che suonavano quasi come il suo testamento politico. All’inizio degli anni ‘20 la Toscana fu travolta dall’offensiva fascista, con le bande mussoliniane che si scontrarono quotidianamente con i socialisti sia nelle città che nelle campagne.
Domenica 27 febbraio 1921 è per Firenze una delle giornate più drammatiche di quegli anni. Verso mezzogiorno una bomba esplode in un corteo diretto in piazza dell’Unità per deporre una corona sul monumento ai caduti di tutte le guerre. Un carabiniere è colpito in pieno e muore sul colpo. Uno studente è gravissimo e morirà in ospedale pochi giorni dopo. Non si contano i feriti. Per le strade scoppia il panico e nel caos un carabiniere uccide un giovane ferroviere, Gino Mugnai, che porta al bavero un distintivo socialista.
È l’occasione che i fascisti aspettano da tempo per mostrare la forza del movimento. Dalle prime ore del pomeriggio di quel giorno il centro di Firenze pullula di fascisti che fanno irruzione nei locali pubblici e buttano fuori a calci i clienti, imponendo ai proprietari di abbassare le saracinesche in segno di lutto. Intorno alle sei un gruppo di squadristi si ritrova in piazza San Lorenzo, davanti alla basilica, e si dirige verso via Taddea, una piccola contrada dove al numero 2, al primo piano, si trovano la sede del sindacato dei ferrovieri e della federazione provinciale comunista e la redazione del periodico Azione comunista. A presidiare lo stabile non c’è nessuno. Tre fascisti salgono le scale fino a raggiungere il primo piano mentre il resto del gruppo attende in strada, pronto a intervenire in caso di bisogno. Quando aprono la porta dell’ufficio trovano un uomo seduto dietro una scrivania, con la sigaretta in bocca. Spartaco Lavagnini è al suo posto di lavoro, il capo chino sul foglio, la penna in mano. Non gli danno neanche il tempo di rendersi conto di quello che sta accadendo: gli sparano in faccia a sangue freddo, senza alcun preavviso. Lavagnini cade a terra, ferito sotto il naso. Viene finito con un colpo alla testa, altri proiettili lo raggiungono anche alla spalla. Poi i fascisti devastano la stanza, frugano nei cassetti e danno fuoco alle carte. Prima di andarsene sistemano il cadavere di Lavagnini sulla sedia e gli infilano la sigaretta tra i denti, con un gesto di macabro disprezzo.
“Il suo assassinio sarebbe dovuto servire da monito a chiunque avesse solo pensato di poter ostacolare l’avanzata fascista”, scrive Mazzoni, citando il prefetto di Firenze di allora, Carlo Olivieri, che dopo l’assassinio espresse “soddisfazione per la severa lezione data agli estremisti grazie al sorgere potente e audace del fascismo”.
Il Partito Comunista d’Italia era nato da appena un mese e già aveva ricevuto il suo battesimo di sangue. La notizia dell’omicidio incendiò ancora di più gli animi. Ferrovieri e tranvieri scesero in sciopero bloccando treni e autobus. Al loro fianco si unirono una a una quasi tutte le altre categorie di lavoratori. La protesta popolare dette luogo a gravi disordini e violenze che si protrassero per tre giorni coinvolgendo anche alcune località dell’area fiorentina. A onorare nel modo migliore Spartaco Lavagnini, il primo martire dell’antifascismo italiano, ci avrebbe pensato la Brigata partigiana d’assalto Garibaldi a lui intitolata, che un ventennio dopo, durante la Resistenza, operò tra le province di Siena e di Grosseto.