Sulla Siria l’oblio dei giganti del web

Avvenire, 29 aprile 2021

Quando nel 2010 fuggì da Damasco, pochi mesi prima dell’inizio della rivoluzione in Siria, il giornalista Hadi al-Khatib non immaginava che sarebbe riuscito a lasciare il segno nella storia del suo Paese anche da lontano. Si stabilì a Berlino e da lì iniziò a seguire con apprensione i tragici sviluppi bellici che avrebbero devastato la Siria negli ultimi dieci anni. Il regime di Bashar al-Assad ha imbavagliato la stampa impedendo l’accesso alle telecamere dei media ma migliaia di giovani siriani si sono improvvisati citizen journalist, filmando quello che accadeva con i loro cellulari e raccontandolo attraverso i social network. Continua a leggere “Sulla Siria l’oblio dei giganti del web”

Carla Del Ponte: “giustizia per le vittime in Siria”

Intervista al giudice Carla Del Ponte (dal libro “Libere di essere e di pensare”)

Da almeno vent’anni Carla Del Ponte è il terrore dei governanti e dei capi di stato chiamati a rispondere davanti ai tribunali internazionali per crimini contro l’umanità. La donna che ha portato alla sbarra Milosevic e Karadzic, nonché i principali responsabili del genocidio del Ruanda. Ma dopo aver trascorso gran parte della sua lunga carriera dando la caccia ai criminali di guerra, persino lei ha dovuto alzare bandiera bianca di fronte ai massacri compiuti in Siria. Un anno fa la magistrata ticinese ha lasciato polemicamente la Commissione d’inchiesta Onu sui crimini siriani. Si è ritirata dalla scena lanciando un duro atto d’accusa nei confronti della comunità internazionale. “È una vergogna”, ci dice quando la raggiungiamo al telefono nella sua natia Svizzera. Continua a leggere “Carla Del Ponte: “giustizia per le vittime in Siria””

Siria, la speranza abita in una biblioteca segreta

Avvenire, 27 novembre 2019

Amjad, il piccolo bibliotecario di Daraya

Solo in un paese distrutto dalla guerra e in una città assediata, i cui abitanti sono ridotti alla fame e presi di mira dai cecchini, si può comprendere fino in fondo quanto sia straordinario il potere salvifico dei libri. Era il 2013 e da due anni la città siriana di Daraya, alla periferia meridionale di Damasco, si trovava stretta nella morsa dell’assedio delle forze governative di Assad, quando un gruppo di giovani abitanti iniziò a rovistare tra le macerie delle case e degli uffici distrutti, nei negozi e nelle cantine. Molti di loro erano ex studenti universitari che, mossi da un coraggio poetico e da una lucida follia, si misero alla ricerca dei libri rimasti sepolti sotto la terrificante devastazione della città. Mettendo a rischio la loro stessa vita. Una volta trovati, quelli rimasti integri li avvolgevano in pezzi di stoffa – quasi fossero vittime umane della guerra – e li trasportavano nel sottosuolo di un palazzo semidistrutto. In poco tempo furono allineate alle pareti delle stanze lunghe file di libri di tutte le dimensioni e di tutti i generi, antichi e moderni, alcuni dei quali – soprattutto i testi di medicina e i manuali tecnici – avrebbero consentito a molti giovani di continuare gli studi interrotti a causa della guerra. Mentre nelle strade rimbombavano le esplosioni e i colpi di mortaio, i sotterranei del palazzo si trasformarono in un’oasi di pace e tranquillità, un luogo dove si alimentava la speranza nel futuro e si faceva crescere il senso di comunità tra la popolazione assediata. La “biblioteca segreta” prese forma in un’area della città che era stata quasi completamente rasa al suolo, all’esterno non c’era niente che segnalava la sua presenza e lasciava credere che non vi fosse nient’altro da bombardare. Ma dentro c’era quasi sempre il giovanissimo Amjad, il libraio appena 14enne, che annotava in un grande registro i libri presi in prestito e poi si rimetteva a leggere. Con il trascorrere del tempo, in mezzo agli scaffali e ai sacchi di sabbia, vennero organizzati gruppi di lettura settimanali, lezioni di inglese, matematica e storia, dibattiti sulla letteratura e la religione. Quella raccontata dal reporter della Bbc Mike Thomson nel suo libro Syria’s Secret Library. Reading and Redemption in a Town Under Siege è la storia quasi incredibile di un luogo straordinario e delle persone che l’hanno reso possibile. Il ritratto appassionato e a tratti commovente di chi non ha voluto arrendersi di fronte all’orrore. “Durante l’assedio nacque il dilemma di promuovere le attività della biblioteca senza comprometterne la sicurezza”, ci spiega, “e temendo che potesse diventare un bersaglio dell’esercito siriano fu utilizzato il semplice passaparola tra le persone”.
Il regime considerava Daraya una roccaforte dei ribelli perché per anni la popolazione era scesa in piazza periodicamente reclamando riforme. Durante l’assedio era rimasto appena un decimo degli oltre ottantamila abitanti che ci vivevano prima della guerra, e ogni giorno le persone erano costrette a fare i conti con i bombardamenti, la scarsità di cibo, il razionamento dell’acqua e dell’elettricità. “Non deve stupire che in condizioni simili qualcuno possa pensare ai libri – sostiene Thomson – poiché, come mi diceva uno dei fondatori della biblioteca, l’anima ha bisogno dei libri proprio come il corpo ha bisogno del cibo”.
Com’è venuto a sapere dell’esistenza della biblioteca?
Mi sono imbattuto in questa storia mentre stavo seguendo per la Bbc l’assedio di Daraya da parte delle forze governative siriane. Durante un’intervista mi capitò di chiedere a un abitante come facevano le persone a resistere sul piano psichico alla fame, alle bombe e ai cecchini. Quell’uomo mi parlò di un luogo segreto nel sottosuolo di un palazzo semidistrutto che funzionava come una biblioteca, al cui interno lui e altri si recavano a volte per cercare rifugio. Quel luogo, mi spiegò, è stato trasformato in un mondo di pace e conoscenza. Fu allora che cominciai a indagare per trovarlo.
Perché queste persone sono rimaste a Daraya e non hanno cercato di scappare come hanno fatto molti altri siriani?
Me lo sono chiesto a lungo anch’io. La risposta più frequente era che se avessero lasciato Daraya, il luogo dove molti di loro erano nati ed erano sempre vissuti, con ogni probabilità non avrebbero più potuto farvi ritorno. Molti di quelli che erano rimasti erano giovani e da anni manifestavano contro il regime, quasi sempre in modo pacifico. Erano convinti che valesse la pena restare lì, nella speranza che a breve le cose potessero migliorare. Purtroppo sono stati costretti a ricredersi. Stando a contatto con loro mi sono anche convinto di quanto certe notizie su di loro fossero false. Daraya, in particolare, ha una lunga storia di proteste pacifiche e gran parte della popolazione è assai più interessata alla penna che alla spada.
Ma da cosa deriva tutta questa devozione per i libri, in una realtà dove la gente veniva uccisa o moriva di fame?
Anas, uno dei fondatori della biblioteca, mi ha spiegato che è stato anche un antidoto alla disperazione, un buon motivo per continuare a sentirsi vivi in quell’inferno. La guerra civile ha oscurato, direi che ha quasi cancellato, la grande eredità culturale e letteraria del paese e la biblioteca segreta di Daraya rappresenta un simbolo della lunga ricerca del sapere del popolo siriano. Abdel, un altro dei ragazzi, mi ha detto che la biblioteca è stata talmente importante per loro che un giorno, quando avranno finalmente fatto ritorno nella loro città, la riapriranno di nuovo.
Com’è riuscito a intervistare gli organizzatori e gli utenti della biblioteca e a raccogliere il materiale per questo libro?
Usando Skype, WhatsApp e la posta elettronica. Ho trascorso mesi a intervistare i volontari della biblioteca e le persone che vi si recavano. Devo dire che non è stato affatto facile, a causa della connessione internet che spesso saltava o era periodicamente interrotta. Tuttavia le forze governative non hanno mai oscurato completamente i mezzi di comunicazione per evitare di sottrarli anche ai loro stessi soldati.
Nell’agosto 2016, dopo quattro anni di bombardamenti, i ribelli e le forze governative hanno stabilito finalmente un cessate il fuoco su Daraya. Cos’è successo da allora?
Migliaia di civili sono stati evacuati e hanno lasciato alle loro spalle le rovine della città. Molti di loro sono andati a Idlib, vicino al confine turco-siriano, altri si sono invece spostati in Turchia dove sono riusciti anche a continuare gli studi. Altri ancora si sono invece rifiutati di lasciare il paese e vivono nella speranza di poter tornare a Daraya, prima o poi. Purtroppo negli ultimi mesi i cacciabombardieri russi e siriani hanno continuato a colpire Idlib e la conta dei morti continua a salire. Per questo sono molto sollevato quando ricevo notizie dalle persone che conosco, e mi confermano che stanno bene. Due dei ragazzi della biblioteca si sono rifugiati in Italia, dove si sono sposati e hanno avuto dei bambini.
RM

Del Ponte: “giustizia per le vittime in Siria”

Left, 28.12.2018

Da almeno vent’anni Carla Del Ponte è il terrore dei governanti e dei capi di stato chiamati a rispondere davanti ai tribunali internazionali per crimini contro l’umanità. La donna che ha portato alla sbarra Milosevic e Karadzic, nonché i principali responsabili del genocidio del Ruanda. Ma dopo aver trascorso gran parte della sua lunga carriera dando la caccia ai criminali di guerra, persino lei ha dovuto alzare bandiera bianca di fronte ai massacri compiuti in Siria. Un anno fa la magistrata ticinese ha lasciato polemicamente la Commissione d’inchiesta Onu sui crimini siriani. Si è ritirata dalla scena lanciando un duro atto d’accusa nei confronti della comunità internazionale. “È una vergogna”, ci dice quando la raggiungiamo al telefono nella sua natia Svizzera. “Avevamo trovato prove a sufficienza per condannare Assad e i suoi gerarchi, ma anche i ribelli che si erano resi colpevoli di gravi crimini. Per cinque anni ho provato a convincere il Consiglio di Sicurezza a istituire un tribunale per la Siria sulla falsariga di quelli per l’ex Jugoslavia e il Ruanda. Purtroppo è sempre mancata la volontà politica per farlo”. L’accusa di Del Ponte – circostanziata nel suo nuovo libro Gli impuniti (Sperling&Kupfer) – è rivolta in particolare nei confronti di Mosca per aver sempre esercitato il diritto di veto, bloccando le risoluzioni presentate al Consiglio di Sicurezza che chiedevano la creazione di un tribunale ad hoc sul modello di quello da lei presieduto sull’ex Jugoslavia. Eppure all’inizio sembrava che ottenere giustizia per le vittime fosse un obiettivo ragionevolmente possibile. Nel 2011 il Consiglio per i Diritti Umani dell’Onu aveva istituito una commissione d’inchiesta sulla Siria e aveva chiamato la stessa Del Ponte a farne parte per accertare le violazioni, stabilire l’entità dei crimini e arrestare i responsabili. Un incarico che doveva durare pochi mesi e invece si è protratto per sei anni. Fino al 2017, quando Del Ponte ha deciso di andarsene sbattendo la porta.
Quando si è accorta che mancava la volontà politica di fare giustizia in Siria?
Molto presto. Ma non è nel mio carattere arrendermi facilmente e allora ho deciso di restare per cercare di cambiare le cose dall’interno. In tanti anni di attività non ho mai visto una ferocia simile in un conflitto. Bambini torturati e uccisi, raid aerei che colpivano gli ospedali, bombe lanciate sulle persone in fila per il pane. Un orrore indicibile e documentato. I crimini erano così tanti e così gravi che continuavo a sperare che i nostri rapporti avrebbero infine smosso la politica. Per quasi sei anni mi sono impegnata in questo senso, non è stato possibile e allora non potevo far altro che andarmene. Spero che altri riescano laddove io non sono riuscita.
È ormai trascorso più di un anno dalle sue dimissioni dalla Commissione per la Siria. Da allora ha visto qualche cambiamento?
No. Sotto il profilo della giustizia non è cambiato niente. Continua a non esserci la volontà politica di istituire un tribunale che si occupi di quei crimini. La commissione esiste ancora ma non ha più alcuna efficacia. Rappresenta soltanto un alibi per la comunità internazionale, che attraverso di essa vuole far credere che sta facendo qualcosa. Ma in realtà non sta facendo niente. Gli sviluppi, in prospettiva, potrebbero esserci almeno dal punto di vista politico. È possibile che si arrivi finalmente alla pace, poiché il presidente Assad sta riconquistando tutto il territorio del paese. Ma mi domando fino a quando durerà. E purtroppo sono certa che le vittime non otterrano alcuna giustizia. Una pace che non affronta il problema della giustizia sarà sempre una pace fragile. Molto fragile.
Alcuni mesi fa però la Germania ha spiccato un mandato di cattura internazionale nei confronti di Jamil Hassan, una figura-chiave della repressione del regime, accusandolo di crimini contro l’umanità. Può essere il segnale che qualcosa sta finalmente cambiando?
È stato senz’altro un fatto positivo. Almeno qualcuno cerca di fare qualcosa di concreto, ma purtroppo sappiamo già che Hassan non sarà mai né arrestato, né processato per l’iniziativa di un singolo stato straniero.
Eppure i colpevoli hanno nomi e cognomi. La Commissione di cui lei ha fatto parte ha consegnato all’Alto Commissariato dell’ONU una lista che indica almeno un centinaio di criminali di guerra.
Gli impuniti di cui parlo nel libro sono tantissimi, quella lista non pretende certo di essere esaustiva. Il maggior responsabile dei crimini è il presidente della Siria, Assad. Ma abbiamo riscontrato gravi e ripeture violazioni del diritto internazionale da entrambe le parti. Sia le forze governative che i ribelli hanno per esempio fatto uso di armi chimiche. I casi accertati sono almeno ventisette. Abbiamo fornito le prove ma non basta: ci vuole un ufficio del Procuratore che possa terminare le inchieste, che formuli le accuse e soprattutto alla fine emetta i mandati d’arresto internazionali.
Perché nonostante tutto conclude il suo libro affermando che Assad verrà condannato all’ergastolo?
Volevo chiuderlo con una speranza. Non posso assolutamente accettare di aver lavorato oltre otto anni, e con successo, nei tribunali internazionali e dovermi adesso convincere che è stato tutto invano. Che adesso si torna indietro. Allora resto dell’idea che un giorno o l’altro qualcuno dovrà rispondere dei gravissimi crimini commessi in Siria. Sono i passi avanti compiuti dal diritto internazionale a 70 anni dall’approvazione della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani a fornirmi questa speranza.
Il suo libro contiene un’accusa anche nei confronti dell’UE per come ha gestito la questione dei profughi.
Sì, ritengo vergognoso il fatto che l’UE non sia mai riuscita a trovare un accordo tra gli stati membri. Che ogni stato abbia deciso cosa fare per conto suo. È vergognoso anche perché i profughi non resteranno per sempre dispersi in Europa ma al momento opportuno torneranno a casa loro. Tutti i siriani con i quali ho parlato non aspettano altro che il momento di fare ritorno nel loro paese.
Anche dopo il caso siriano la sua fiducia nei confronti dei meccanismi di giustizia internazionale resta immutata?
Assolutamente sì. Riconosco che il momento sia delicato, poiché dopo i buoni risultati ottenuti con i tribunali per l’ex Jugoslavia e per il Ruanda adesso dobbiamo purtroppo registrare un passo indietro. Non solo in Siria, ma anche in Myanmar e in Yemen. Ma lo sapevamo fin dall’inizio: la giustizia internazionale funziona soltanto se sono gli stati a volerlo.
RM

Una cinepresa dentro al-Qaeda

Avvenire, 17.6.2018

Uno sguardo intimo e familiare all’interno del radicalismo islamico, una prospettiva inedita sul rapporto tra padri e figli al tempo del Jihad e sull’indottrinamento dei cosiddetti “cuccioli del Califfato”. Nel suo nuovo lavoro Of Fathers and Sons, il regista siriano Talal Derki racconta sotto forma di documentario la vita dei bambini del generale Abu Osama, uno dei fondatori di Al-Nusra, il braccio siriano di Al-Qaeda, filmandoli durante le esercitazioni nei campi di addestramento ma anche nell’intimità della vita quotidiana.

Talal Derki

Per oltre due anni, il giovane film maker ha finto di essere un reporter filo-jihadista intento a realizzare un documentario sull’ascesa del Califfato e ha vissuto a Idlib, nel nord della Siria, a stretto contatto con Abu Osama e la sua famiglia, fotografando con crudo realismo il leader islamista radicale e i suoi tre figli piccoli, che hanno abbandonato la scuola per dedicarsi anima e corpo allo studio del Corano e all’addestramento militare. Osama è un inquietante patriarca idolatrato dai giovani che lo seguono, un fervente sostenitore della Shari’a che ha chiamato i suoi figli come gli attentatori delle Torri gemelle e ha avviato i due più grandi (13 e 12 anni) sulla strada per diventare soldati della cosiddetta “guerra santa”. Nel film lo osserviamo sparare da un bunker, interrogare un gruppo di prigionieri catturati dalle truppe di Al-Nusra, persino sradicare a mani nude le mine da un campo. I suoi figli li vediamo invece tirare sassi alle ragazzine che escono da scuola senza coprirsi con l’hijab, esercitarsi come soldati indossando un’uniforme di Al-Qaeda a misura di bambino e infine giocare alla guerra, quasi senza rendersi conto che si tratta di una guerra vera. Quella che emerge è una sorta di romanzo di formazione dei mostri di domani, un film che supera i confini del reportage bellico e del documentario descrittivo lasciando lo spettatore con la disperante convinzione che ci vorrà ancora molto tempo per uscire dall’attuale polveriera siriana. Derki riesce a svelare l’aspetto umano di una situazione eccezionale, raccontando la storia di un uomo che ha deciso un destino da martiri per i suoi amati figli maschi, eppure a tratti riesce persino ad apparire come un padre affettuoso e amorevole. “Volevo analizzare la psicologia e mettere a nudo le emozioni di questa guerra”, ci dice. “Capire cos’è che radicalizza quelle persone e le spinge a vivere sotto le regole molto rigide dello stato islamico. Anche se sono ateo ho pregato tutti i giorni con loro e condotto la vita del buon musulmano per comprendere cosa sta accadendo nel mio paese”. Una scelta non soltanto assai rischiosa ma anche eticamente difficile, considerando che Talal Derki è un curdo siriano – peraltro costretto da tempo a vivere in esilio a Berlino – che afferma di essere assai distante dalle idee di Osama e del Califfato, e che ha quindi deciso di raccontare qualcosa che non condivide affatto, e anzi disprezza profondamente. Of Fathers and Sons ha vinto il gran premio della giuria all’ultimo Sundance festival, lo stesso riconoscimento che Derki aveva vinto nel 2014 con un altro documentario che fece molto discutere, Ritorno a Homs, in cui raccontava l’assedio della città omonima attraverso lo sguardo dei volontari locali che combattevano contro il regime di Bashar al-Assad.
Ha mai pensato di abbandonare in corso d’opera il progetto di questo film, ritenendolo troppo rischioso?
Molte volte. In più occasioni ho detto al mio assistente alla regia – che è mia moglie – che intendevo andarmene. Ma poi riguardavo il girato e decidevo che valeva la pena tornare.
Quindi non è rimasto lì per tutto il tempo delle riprese?
No, facevo avanti indietro con Idlib, ogni tanto tornavo dalla mia famiglia. A volte è stato estremamente difficile entrare e uscire. In totale ho girato per circa trecentotrenta giorni. Mi sono trovato lì proprio nel periodo in cui le due volontarie italiane (Vanessa Marzullo e Greta Ramelli, ndr) furono rapite ad Aleppo, nell’estate del 2014.
Crede che Abu Osama sia venuto a sapere che il suo film non è un’opera di propaganda come gli aveva fatto credere?
Non ho idea ma di sicuro se lo sapesse ne rimarrebbe scioccato. Ovviamente non posso più tornare lì, e anche la mia vita in Europa non è molto facile.
Che impatto ha avuto questa esperienza per lei, sul piano personale?
Oltre ai rischi è stato molto difficile e doloroso, in quanto siriano, seguire una persona con quelle idee e vedere il mio paese soffrire una completa riorganizzazione sociale e demografica, osservare da vicino tutta quella violenza e lo spostamento forzato della popolazione da una zona all’altra della Siria.
Vede una possibile soluzione alla guerra in corso nel suo paese?
Sono tutt’altro che ottimista. Ogni volta che viene bombardata una città siriana altre persone si radicalizzano e si scelgono di diventare jihadisti. L’odio e la violenza vengono trasmessi di generazione in generazione. Credo che l’unica soluzione possibile sia in un maggiore intervento nel sistema educativo che ponga fine all’autorità assoluta dell’uomo che vige in certi paesi musulmani, dove il padre decide tutto della vita dei propri figli, come parlano, come si comportano, dove vanno, cosa studiano. Le donne dovrebbero ottenere maggiore libertà, dovrebbero essere fatti passi avanti nel campo dell’uguaglianza. E anche i bambini non dovrebbero essere più picchiati dagli insegnanti, com’è accaduto anche a me, quando ero piccolo.
RM

Quella casa a Damasco

Avvenire, 13.6.2018

“Se esiste davvero il Paradiso sulla Terra, questo è senza dubbio a Damasco”. Quanto suonano lontane, oggi, le parole di Ibn Jubayr, grande poeta arabo del XIII secolo. Dopo essere sopravvissuta per secoli a terremoti, incendi e invasioni, la capitale siriana è ormai abbandonata a un triste destino che sta cancellando lentamente quello che fino a pochi anni fa era il centro urbano più antico e meglio conservato di tutto il Medio Oriente. La Vecchia Damasco, circondata da mura romane, non era solo uno dei luoghi più evocativi del Medioriente ma rappresentava anche un ideale nazionale per molti siriani, grazie alla sua diversità etnica e religiosa. Per rivederla in tutto il suo splendore è ormai necessario riavvolgere il nastro della storia recente, affidandosi all’immaginazione o a libri straordinari come La mia casa a Damasco (editore Neri Pozza, traduzione di Massimo Ortelio) della giornalista britannica Diana Darke. Un’opera che è in parte un memoir e in parte un libro di viaggio, basata sull’esperienza personale dell’autrice, una grande esperta di cultura islamica, capace di rievocare con un taglio originalissimo il fascino della vecchia Damasco, raccontandola come una sorta di quiete prima della tempesta. Nel 2005 Darke si trova in Siria per scrivere una guida della città e incontra Bassim, un giovane architetto impegnato nel progetto di restauro della Città Vecchia. Da lui apprende che il governo non ha i fondi necessari per restaurare le antiche dimore di epoca ottomana che costellano il centro di Damasco, e che gli stranieri hanno la possibilità di salvare dalla rovina quei capolavori ricchi di decorazioni e mosaici. Semplicemente acquistandoli. Darke varca la soglia di una casa di epoca ottomana in un quartiere misto sunnita-sciita e si ritrova immersa nella quiete di un cortile ornato da aranci, tralci di vite e rampicanti. Resta folgorata dalla straordinaria bellezza di quel luogo incantato e decide di comprare la casa, per poi sottoporla a tre anni di restauri. Prende avvio così un’avventura che assumerà anche contorni bizzarri, a cominciare dal pagamento, che avviene con la consegna di dieci borse di plastica piene di contanti, in tagli talmente piccoli che serviranno circa sei ore per contarli tutti. Quella casa diventa il pretesto per raccontare la storia pre-rivoluzionaria del paese, la sontuosità della sua architettura e le mille minoranze etniche e religiose a lungo capaci di convivere pacificamente. La sua profonda conoscenza dell’arabo le consente di entrare nei meandri della cultura siriana, esplorandoli nel dettaglio. Purtroppo la pace interiore che è riuscita a trovare nella sua nuova casa viene interrotta bruscamente quando il paese sprofonda nella guerra civile. Darke torna a Damasco per l’ultima volta nella primavera del 2012, proprio nei giorni in cui entra in vigore il piano di pace proposto da Kofi Annan. Ma il cessate il fuoco si rivelerà soltanto una speranza effimera. Da quel momento in poi la sua splendida casa con cortile, al pari di molte altre simili, dovrà ospitare i profughi in fuga da ogni parte del paese. Tra i rimpianti di Diana Darke c’è quello di non aver fatto costruire a suo tempo un hammam – un bagno turco – sotto al cortile della casa perché, spiega, oggi sarebbe un ottimo rifugio anti-aereo. Ma nonostante tutto non ha ancora perso la speranza di poterci ritornare, un giorno.
RM

La squadra di Assad ai mondiali di calcio?

Venerdì di Repubblica, 28 aprile 2017

Può una squadra di calcio senza tifosi, senza stadio e senza soldi qualificarsi per i mondiali che si disputeranno in Russia nel 2018? La nazionale siriana potrebbe partecipare a una fase finale del campionato del mondo per la prima volta nella sua storia proprio mentre il paese è dilaniato dalla guerra civile. Quello che anche in tempo di pace è sempre stato un sogno proibito è diventato una possibilità concreta qualche settimana fa, grazie a un’inaspettata vittoria casalinga sull’Uzbekistan nel girone di qualificazione. La partita sembrava avviata verso un inutile pareggio, quando a pochi minuti dalla fine il ct Ayman Hakeem ha fatto entrare l’anziano attaccante Firas al-Khatib. Erano cinque anni che il 33enne numero dieci originario di Homs, considerato il più forte giocatore siriano di tutti i tempi, non indossava più la maglia della nazionale. Nel 2012 aveva infatti  abbandonato “la squadra del regime” per motivi politici, non facendo mistero del suo sostegno nei confronti dei ribelli anti-Assad, prima di trasferirsi in Kuwait. Ma poi ha deciso di riprendere il suo posto in squadra affermando che la nazionale è di tutti, e che vale la pena contribuire alla corsa verso il Mondiale. A un minuto dalla fine è stato proprio lui a procurarsi il rigore decisivo che è stato trasformato dal giovane compagno di squadra Omar Kharbin, proiettando la squadra a ridosso del terzo posto nella classifica del girone eliminatorio, che garantirebbe l’accesso ai playoff per Russia 2018. Per ovvi motivi di sicurezza le “aquile di Qassioun” (questo il soprannome dei giocatori siriani, dal nome del monte che sovrasta la capitale) sono costrette da anni a giocare le partite casalinghe fuori casa, anche perché lo stadio Abbasyn di Damasco che era il tempio della nazionale è stato trasformato in una base militare e molti altri sono diventati centri di detenzione. I match interni di qualificazione sono stati disputati prima in Oman, poi in Malesia: alla partita con l’Uzbekistan, giocata allo stadio Hang Jebat di Malacca, hanno assistito appena trecento tifosi. Ma il ritorno di al-Khatib – da molti considerato un traditore della patria – è stato visto come un provvidenziale segno del destino e una speranza per il futuro del paese, come hanno dimostrato le lacrime versate nel dopo partita dal ct Hakeem, che ha dedicato il successo a tutto il popolo siriano. La nazionale è da sempre un potente strumento di propaganda del regime di Bashar al-Assad e negli ultimi anni non è stata immune da tensioni politiche, con giocatori arrestati, costretti a fuggire o addirittura uccisi a causa del loro sostegno ai ribelli. Ma pur priva di tifo al seguito e costretta a convocare giocatori sparsi per il Golfo, la squadra si era già resa protagonista di un’impresa nell’ottobre scorso, quando aveva strappato una clamorosa vittoria in trasferta contro la Cina di Marcello Lippi, al Coca Cola Stadium della provincia di Shaanxi. In quell’occasione l’orgoglio siriano aveva prevalso su una squadra ricca e sostenuta da circa cinquantamila tifosi locali. Adesso, tra giugno e settembre, restano da giocare tre partite contro Qatar, Iran e Cina, e il terzo posto appare ancora alla portata dell’undici siriano, il cui segreto è lo spirito con il quale i giocatori scendono in campo. “Non importa se uno di noi è cristiano, musulmano o di qualsiasi altra confessione”, ha dichiarato al Guardian il capitano Abdulrazak al Hussein. “Siamo una squadra e giochiamo per il nostro paese”.
RM

Aleppo, un dramma a colori

Avvenire, 8.1.2017

“Non c’è più colore ad Aleppo. Tutto è grigio, anche noi. Lo scontro inaspettato tra il grigio e l’arancione mostra le buie conseguenze di una guerra, ma riflette anche un sottile filo di speranza. Il blu notte intorno alle pupille mi parla, mi dice degli orrori che ha visto. Ci manca un colore più chiaro: il bianco. Il cielo dovrebbe essere dipinto di bianco per prendersi gioco della presunta fine della guerra e mostrare l’ingenuità che resta”. Il dramma della Siria prende forma sotto i nostri occhi attraverso la voce innocente e lo sguardo disincantato di Adam, un ragazzino siriano di quattordici anni affetto dalla sindrome di Asperger, che cerca di dare un senso alle proprie emozioni attraverso la pittura. I colori gli servono per descrivere la gente e l’orrore che lo circonda, per cercare di comprendere gli effetti devastanti della guerra sulla vita della sua famiglia e delle persone che gli stanno attorno. Dopo aver ottenuto il plauso della critica inglese, Il ragazzo di Aleppo che ha dipinto la guerra, immaginifico romanzo d’esordio della giovane scrittrice anglo-siriana Sumia Sukkar, viene adesso proposto anche in italiano dalla casa editrice Il Sirente, specializzata in letteratura araba, con la traduzione di Barbara Benini. aleppo-siriaCon un lungo e ininterrotto flusso di coscienza Adam esprime un misto di incredulità e paura, di tenerezza e innocenza. Dipinge la guerra perché “offre infinite possibilità pittoriche” e la sua piccola arte finisce per trasfigurarsi in un estremo atto di resistenza, ma contrariamente alle apparenze il romanzo non è una favola e quindi non ci risparmia orrori e crudezze. È piuttosto un originale reportage intimista, il tentativo di spiegare le conseguenze della guerra sulla mente di un bambino la cui leggera forma di autismo lo porta a una forte relazionalità affettiva con gli altri, soprattutto con la sorella Yasmine, il suo principale punto di riferimento dopo la morte della mamma. Ogni capitolo ha il nome di un colore, persino ai personaggi sono assegnate tonalità e sfumature diverse a seconda della vibrazione delle loro emozioni: Adam vede le persone avvolte da un’aurea colorata percependo i loro stati d’animo e i loro sentimenti, mentre la guerra è grigia e copre tutto come uno spesso strato di polvere che rischia di soffocare la nostra umanità. La necessità di comprendere quello che accade attorno a lui lo trasfigura poi nel ruolo di testimone: “un giorno, quando sarà finita la guerra, avrò i miei quadri per mostrare alla gente cosa stava realmente succedendo. I miei quadri non mentono”.
L’autrice, Sumia Sukkar, afferma di essersi ispirata ai racconti di prima mano ascoltati dai suoi familiari siriani e dagli amici che tuttora vivono in Siria. “In questi casi ci può essere la tentazione di edulcorare quello che sta accadendo – spiega – ma io ho scelto al contrario di raccontare i fatti in tutta la loro drammaticità. Quello che volevo trasmettere era l’oscenità e la crudezza della situazione nella quale si trova attualmente la Siria”. Durante la stesura del romanzo Sukkar è stata costantemente in contatto su Skype con una zia che vive a Damasco, e le storie terribili che le ha raccontato sono state poi in parte riversate nel romanzo. “Ho bisogno di dipingere e posso già figurarmi il quadro nella testa – dice Adam – . Due ragazzi giovani sdraiati nell’acqua a gambe e braccia divaricate, liberi, ma con il viso sfigurato, bruciato. Si riesce anche a distinguere dove erano veramente gli occhi e il naso. Sarebbe un dipinto in bianco e nero, con il viso a spettro cromatico. Sarà orribile e meraviglioso allo stesso tempo”. Il libro deve gran parte della sua originalità proprio alla voce narrante, quella di un quattordicenne che a causa della sindrome di Asperger è dotato di una sensibilità fuori dall’ordinario e dell’intelligenza di un bambino più piccolo della sua età. La sua tenera ingenuità diventa un monito contro l’assurdità di tutte le guerre, come quando sente una folla che acclama Assad e si chiede “se stanno dalla parte del presidente, perché allora uccidono la gente del suo paese?”, oppure quando si affaccia alla finestra di casa sua e gli uomini che vede in strada gli sembrano un dipinto, qualcosa che Salvador Dalì dipingerebbe nel suo famoso quadro Volto della guerra.
La giovane scrittrice (aveva appena ventidue anni quando il libro è uscito in Inghilterra) spiega che la scelta si è resa necessaria per rendere più intenso ed efficace l’impatto narrativo della storia. È quasi inevitabile tracciare un paragone con il romanzo best seller di Mark Haddon uscito una decina d’anni fa, Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte. Anche in quel caso il protagonista era Christopher, un quindicenne affetto dal medesimo disturbo pervasivo dello sviluppo, costretto ad affrontare fatti tragici con un’emotività al di fuori dell’ordinario. Il ragazzo di Aleppo che ha dipinto la guerra ha però il grande pregio di rappresentare con uno sguardo inedito e sorprendente una delle più terribili crisi umanitarie del nostro tempo, di dimostrare come la fantasia e l’immaginazione possano proteggerci dagli orrori del mondo, e di individuare una speranza per il popolo siriano nella sua fede incrollabile in Dio e nella forza degli affetti. In Gran Bretagna è stato adattato sotto forma di documentario radiofonico passando nel prestigioso “Saturday Drama” della Bbc e sono già stati acquistati i diritti per la realizzazione di un film tratto dal libro.
RM

Siria, un poeta contro il baratro

La Siria avrà un futuro di pace perché non si possono sconfiggere le colombe “che continuano a volare istericamente in cielo durante i bombardamenti, per resistere all’aereo che ha invaso la loro patria e il loro spazio (…). Come l’aereo sparisce dal cielo, patria delle colombe, così la tirannia sparirà dalla mia patria, perché le colombe ci sono alleate nel viaggio verso la libertà”. La letteratura e la poesia hanno aiutato Muhammad Dibo, giornalista e scrittore siriano non ancora quarantenne, ad affrontare la mostruosa esperienza delle carceri siriane, l’angoscia, l’umiliazione, la tortura. Adesso rappresentano la stella polare delle speranze che nutre per il futuro del suo paese. Arrestato, incarcerato e torturato per aver preso parte fin dal 2011 alla rivoluzione contro il regime di Bashar al-Assad, i suoi compagni di cella l’avevano soprannominato “il poeta perfido” perché nei lunghi periodi di detenzione recitava a memoria le poesie del mistico al-Hallaj e del grande poeta arabo al-Mutanabbi. “Farlo mi rendeva felice – ci racconta oggi dal suo esilio a Beirut – perché nei loro visi vedevo il desiderio di libertà e riuscivo, almeno in quei momenti, a farli evadere da un mondo di oppressione verso il mondo dell’amore e della poesia. La bellezza della poesia ci aiutava a dissolvere le tenebre e a resistere al carcere e alla morte”. Proprio in questi giorni è arrivato nelle librerie italiane il suo ultimo libro E se fossi morto? (pubblicato dalle edizioni Il Sirente con la traduzione di Federica Pistono), un’opera assolutamente originale, a metà strada tra il romanzo, il trattato politico e il diario intimistico, nella quale Muhammad Dibo ci offre una lunga testimonianza sulla Siria contemporanea, dalle primavere arabe alla successiva repressione, fino agli odierni interventi stranieri.

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Quale può essere il ruolo degli intellettuali siriani di fronte a quanto sta accadendo?
Gli intellettuali hanno un compito molto importante oggi in Siria, perché devono raccontare alla gente la verità, e devono farlo senza ambiguità. Devono spiegare al popolo la complessità di questo momento e renderlo comprensibile a tutti. L’intellettuale deve essere critico e radicale nel dire la verità, senza curarsi del consenso. Il suo compito oggi appare più importante che in passato, perché in virtù della sua cultura è il solo capace di guardare oltre la superficie, attraverso le tenebre e il caos, di vedere gli errori di un popolo e di affrontare la verità, a qualunque prezzo. L’intellettuale ha inoltre il compito di trasmettere la speranza alle persone, rassicurandolole sul fatto che ciò che sta accadendo oggi non rappresenta la fine della storia. In fondo al tunnel c’è la speranza, nonostante tutte le difficoltà, e bisogna lavorare per realizzarla.
Ma come può lei nutrire ancora speranza nel futuro?
Quando mi interrogano sul futuro, mi piace rispondere che vedo con pessimismo il futuro a breve termine ma sono molto ottimista per quello a lungo termine. Ciò significa che i prossimi cinque-dieci anni saranno un periodo molto duro per noi siriani, un inferno in cui ci sarà caos e assoluta mancanza di orizzonti. Una fase simile a quella che la Siria ha vissuto tra il 1920 e il 1936. Ma sono sicuro che la Siria riuscirà a rialzarsi con le proprie gambe, troverà la strada verso la libertà e il posto che merita nel mondo, nonostante il disastro di oggi. Ne sono sicuro come sono sicuro del fatto che sto scrivendo queste righe.
Lei è caporedattore della testata dissidente “Syria Untold” e collabora con numerose testate internazionali, occupandosi di attivismo civile. Ha quindi uno sguardo privilegiato sull’attualità. Come immagina il suo paese tra dieci o vent’anni?
Personalmente, sto lavorando oggi per la Siria del futuro dal momento che, nonostante la cupa disperazione e la morte, spero che la Siria, tra venti o trent’anni, sia diventato uno Stato unitario, laico e democratico. Mi auguro di raggiungere questo obiettivo, anche dopo un lungo percorso.
In che modo l’Occidente dovrebbe affrontare la crisi siriana?
Innanzitutto dovrebbe impegnarsi a non mantenere in piedi la dittatura con il pretesto della lotta al Daesh, perché la sopravvivenza della dittatura implica la continuazione della guerra. Poi credo che la risposta al terrorismo dello stato islamico non debba essere solo di natura militare, ma sia necessario anche eliminare le cause che hanno prodotto fenomeni come il Daesh.
Com’è oggi, la sua vita in esilio?
Sono in Libano perché amo il mio Paese e voglio restargli vicino ma non sono stato io a scegliere l’esilio: è lui che ha scelto me. Non ho scelto il Libano, sono stati la necessità e il caso a trattenermi fino ad ora in questo paese. Ogni mattina mi chiedo cosa ci faccio qui, mentre la vita passa. Resto in Libano perché è il paese più vicino alla Siria, e da qui è possibile aiutare i miei a casa, restare in contatto con ciò che succede e con coloro che escono dal mio paese. La mia famiglia è ancora in patria, ma qui i miei familiari possono venire a trovarmi e io posso comunicare con loro. Sono qui perché rifiuto l’idea di essere un profugo costretto a elemosinare cibo, acqua e protezione, perché l’inferno costruito da Assad costringe il nostro popolo a una vita disumana. E poi, forse sono in Libano anche perché mi sono immerso nel lavoro e non ho pensato a un’altra opzione.
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