Aleppo, un dramma a colori

Avvenire, 8.1.2017

“Non c’è più colore ad Aleppo. Tutto è grigio, anche noi. Lo scontro inaspettato tra il grigio e l’arancione mostra le buie conseguenze di una guerra, ma riflette anche un sottile filo di speranza. Il blu notte intorno alle pupille mi parla, mi dice degli orrori che ha visto. Ci manca un colore più chiaro: il bianco. Il cielo dovrebbe essere dipinto di bianco per prendersi gioco della presunta fine della guerra e mostrare l’ingenuità che resta”. Il dramma della Siria prende forma sotto i nostri occhi attraverso la voce innocente e lo sguardo disincantato di Adam, un ragazzino siriano di quattordici anni affetto dalla sindrome di Asperger, che cerca di dare un senso alle proprie emozioni attraverso la pittura. I colori gli servono per descrivere la gente e l’orrore che lo circonda, per cercare di comprendere gli effetti devastanti della guerra sulla vita della sua famiglia e delle persone che gli stanno attorno. Dopo aver ottenuto il plauso della critica inglese, Il ragazzo di Aleppo che ha dipinto la guerra, immaginifico romanzo d’esordio della giovane scrittrice anglo-siriana Sumia Sukkar, viene adesso proposto anche in italiano dalla casa editrice Il Sirente, specializzata in letteratura araba, con la traduzione di Barbara Benini. aleppo-siriaCon un lungo e ininterrotto flusso di coscienza Adam esprime un misto di incredulità e paura, di tenerezza e innocenza. Dipinge la guerra perché “offre infinite possibilità pittoriche” e la sua piccola arte finisce per trasfigurarsi in un estremo atto di resistenza, ma contrariamente alle apparenze il romanzo non è una favola e quindi non ci risparmia orrori e crudezze. È piuttosto un originale reportage intimista, il tentativo di spiegare le conseguenze della guerra sulla mente di un bambino la cui leggera forma di autismo lo porta a una forte relazionalità affettiva con gli altri, soprattutto con la sorella Yasmine, il suo principale punto di riferimento dopo la morte della mamma. Ogni capitolo ha il nome di un colore, persino ai personaggi sono assegnate tonalità e sfumature diverse a seconda della vibrazione delle loro emozioni: Adam vede le persone avvolte da un’aurea colorata percependo i loro stati d’animo e i loro sentimenti, mentre la guerra è grigia e copre tutto come uno spesso strato di polvere che rischia di soffocare la nostra umanità. La necessità di comprendere quello che accade attorno a lui lo trasfigura poi nel ruolo di testimone: “un giorno, quando sarà finita la guerra, avrò i miei quadri per mostrare alla gente cosa stava realmente succedendo. I miei quadri non mentono”.
L’autrice, Sumia Sukkar, afferma di essersi ispirata ai racconti di prima mano ascoltati dai suoi familiari siriani e dagli amici che tuttora vivono in Siria. “In questi casi ci può essere la tentazione di edulcorare quello che sta accadendo – spiega – ma io ho scelto al contrario di raccontare i fatti in tutta la loro drammaticità. Quello che volevo trasmettere era l’oscenità e la crudezza della situazione nella quale si trova attualmente la Siria”. Durante la stesura del romanzo Sukkar è stata costantemente in contatto su Skype con una zia che vive a Damasco, e le storie terribili che le ha raccontato sono state poi in parte riversate nel romanzo. “Ho bisogno di dipingere e posso già figurarmi il quadro nella testa – dice Adam – . Due ragazzi giovani sdraiati nell’acqua a gambe e braccia divaricate, liberi, ma con il viso sfigurato, bruciato. Si riesce anche a distinguere dove erano veramente gli occhi e il naso. Sarebbe un dipinto in bianco e nero, con il viso a spettro cromatico. Sarà orribile e meraviglioso allo stesso tempo”. Il libro deve gran parte della sua originalità proprio alla voce narrante, quella di un quattordicenne che a causa della sindrome di Asperger è dotato di una sensibilità fuori dall’ordinario e dell’intelligenza di un bambino più piccolo della sua età. La sua tenera ingenuità diventa un monito contro l’assurdità di tutte le guerre, come quando sente una folla che acclama Assad e si chiede “se stanno dalla parte del presidente, perché allora uccidono la gente del suo paese?”, oppure quando si affaccia alla finestra di casa sua e gli uomini che vede in strada gli sembrano un dipinto, qualcosa che Salvador Dalì dipingerebbe nel suo famoso quadro Volto della guerra.
La giovane scrittrice (aveva appena ventidue anni quando il libro è uscito in Inghilterra) spiega che la scelta si è resa necessaria per rendere più intenso ed efficace l’impatto narrativo della storia. È quasi inevitabile tracciare un paragone con il romanzo best seller di Mark Haddon uscito una decina d’anni fa, Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte. Anche in quel caso il protagonista era Christopher, un quindicenne affetto dal medesimo disturbo pervasivo dello sviluppo, costretto ad affrontare fatti tragici con un’emotività al di fuori dell’ordinario. Il ragazzo di Aleppo che ha dipinto la guerra ha però il grande pregio di rappresentare con uno sguardo inedito e sorprendente una delle più terribili crisi umanitarie del nostro tempo, di dimostrare come la fantasia e l’immaginazione possano proteggerci dagli orrori del mondo, e di individuare una speranza per il popolo siriano nella sua fede incrollabile in Dio e nella forza degli affetti. In Gran Bretagna è stato adattato sotto forma di documentario radiofonico passando nel prestigioso “Saturday Drama” della Bbc e sono già stati acquistati i diritti per la realizzazione di un film tratto dal libro.
RM

Siria, un poeta contro il baratro

La Siria avrà un futuro di pace perché non si possono sconfiggere le colombe “che continuano a volare istericamente in cielo durante i bombardamenti, per resistere all’aereo che ha invaso la loro patria e il loro spazio (…). Come l’aereo sparisce dal cielo, patria delle colombe, così la tirannia sparirà dalla mia patria, perché le colombe ci sono alleate nel viaggio verso la libertà”. La letteratura e la poesia hanno aiutato Muhammad Dibo, giornalista e scrittore siriano non ancora quarantenne, ad affrontare la mostruosa esperienza delle carceri siriane, l’angoscia, l’umiliazione, la tortura. Adesso rappresentano la stella polare delle speranze che nutre per il futuro del suo paese. Arrestato, incarcerato e torturato per aver preso parte fin dal 2011 alla rivoluzione contro il regime di Bashar al-Assad, i suoi compagni di cella l’avevano soprannominato “il poeta perfido” perché nei lunghi periodi di detenzione recitava a memoria le poesie del mistico al-Hallaj e del grande poeta arabo al-Mutanabbi. “Farlo mi rendeva felice – ci racconta oggi dal suo esilio a Beirut – perché nei loro visi vedevo il desiderio di libertà e riuscivo, almeno in quei momenti, a farli evadere da un mondo di oppressione verso il mondo dell’amore e della poesia. La bellezza della poesia ci aiutava a dissolvere le tenebre e a resistere al carcere e alla morte”. Proprio in questi giorni è arrivato nelle librerie italiane il suo ultimo libro E se fossi morto? (pubblicato dalle edizioni Il Sirente con la traduzione di Federica Pistono), un’opera assolutamente originale, a metà strada tra il romanzo, il trattato politico e il diario intimistico, nella quale Muhammad Dibo ci offre una lunga testimonianza sulla Siria contemporanea, dalle primavere arabe alla successiva repressione, fino agli odierni interventi stranieri.

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Quale può essere il ruolo degli intellettuali siriani di fronte a quanto sta accadendo?
Gli intellettuali hanno un compito molto importante oggi in Siria, perché devono raccontare alla gente la verità, e devono farlo senza ambiguità. Devono spiegare al popolo la complessità di questo momento e renderlo comprensibile a tutti. L’intellettuale deve essere critico e radicale nel dire la verità, senza curarsi del consenso. Il suo compito oggi appare più importante che in passato, perché in virtù della sua cultura è il solo capace di guardare oltre la superficie, attraverso le tenebre e il caos, di vedere gli errori di un popolo e di affrontare la verità, a qualunque prezzo. L’intellettuale ha inoltre il compito di trasmettere la speranza alle persone, rassicurandolole sul fatto che ciò che sta accadendo oggi non rappresenta la fine della storia. In fondo al tunnel c’è la speranza, nonostante tutte le difficoltà, e bisogna lavorare per realizzarla.
Ma come può lei nutrire ancora speranza nel futuro?
Quando mi interrogano sul futuro, mi piace rispondere che vedo con pessimismo il futuro a breve termine ma sono molto ottimista per quello a lungo termine. Ciò significa che i prossimi cinque-dieci anni saranno un periodo molto duro per noi siriani, un inferno in cui ci sarà caos e assoluta mancanza di orizzonti. Una fase simile a quella che la Siria ha vissuto tra il 1920 e il 1936. Ma sono sicuro che la Siria riuscirà a rialzarsi con le proprie gambe, troverà la strada verso la libertà e il posto che merita nel mondo, nonostante il disastro di oggi. Ne sono sicuro come sono sicuro del fatto che sto scrivendo queste righe.
Lei è caporedattore della testata dissidente “Syria Untold” e collabora con numerose testate internazionali, occupandosi di attivismo civile. Ha quindi uno sguardo privilegiato sull’attualità. Come immagina il suo paese tra dieci o vent’anni?
Personalmente, sto lavorando oggi per la Siria del futuro dal momento che, nonostante la cupa disperazione e la morte, spero che la Siria, tra venti o trent’anni, sia diventato uno Stato unitario, laico e democratico. Mi auguro di raggiungere questo obiettivo, anche dopo un lungo percorso.
In che modo l’Occidente dovrebbe affrontare la crisi siriana?
Innanzitutto dovrebbe impegnarsi a non mantenere in piedi la dittatura con il pretesto della lotta al Daesh, perché la sopravvivenza della dittatura implica la continuazione della guerra. Poi credo che la risposta al terrorismo dello stato islamico non debba essere solo di natura militare, ma sia necessario anche eliminare le cause che hanno prodotto fenomeni come il Daesh.
Com’è oggi, la sua vita in esilio?
Sono in Libano perché amo il mio Paese e voglio restargli vicino ma non sono stato io a scegliere l’esilio: è lui che ha scelto me. Non ho scelto il Libano, sono stati la necessità e il caso a trattenermi fino ad ora in questo paese. Ogni mattina mi chiedo cosa ci faccio qui, mentre la vita passa. Resto in Libano perché è il paese più vicino alla Siria, e da qui è possibile aiutare i miei a casa, restare in contatto con ciò che succede e con coloro che escono dal mio paese. La mia famiglia è ancora in patria, ma qui i miei familiari possono venire a trovarmi e io posso comunicare con loro. Sono qui perché rifiuto l’idea di essere un profugo costretto a elemosinare cibo, acqua e protezione, perché l’inferno costruito da Assad costringe il nostro popolo a una vita disumana. E poi, forse sono in Libano anche perché mi sono immerso nel lavoro e non ho pensato a un’altra opzione.
RM

Siria, la pace era solo silenzio

Più profetico di 1984 di Orwell, più surreale della Metamorfosi di Kafka. Quando dieci anni fa il romanziere siriano Nihad Sirees scrisse The Silence and the Roar, non poteva immaginare che quella riuscitissima satira politica avrebbe rispecchiato così fedelmente il futuro del suo paese. “Non volevo scrivere un romanzo premonitore – ci spiega oggi dall’esilio dove vive da alcuni anni, per motivi di sicurezza, – ma solo un libro che rappresentasse correttamente il dittatore siriano e la situazione del mio paese. Qualcuno – prosegue – doveva pur scrivere che Bashar era un dittatore che governava con la paura mentre all’epoca molti, soprattutto in Occidente, credevano che fosse un uomo mite e gentile, e che fosse amato dal suo popolo. Nessuno aveva raccontato che egli costringeva invece la gente a mostrare amore nei suoi confronti. In seguito, purtroppo, abbiamo visto tutti che è stato capace di portarci all’inferno”.
Pubblicato nel 2004 in Libano e circolato per anni in Siria solo attraverso canali clandestini, due anni fa il romanzo di maggior spicco di questo scrittore e sceneggiatore originario della città di Aleppo è stato tradotto in inglese e diffuso anche in Occidente; nelle prossime settimane arriverà finalmente nelle librerie anche in traduzione italiana, col titolo Il silenzio e il tumulto, edito dalla casa editrice Il Sirente, da tempo impegnata in un’interessante opera di diffusione della letteratura araba. È un romanzo sulla vita durante la dittatura, ambientato in un paese immaginario ma con chiari riferimenti alla Siria, l’affresco di un popolo le cui vite sono dominate dalla paura, reso con una scrittura brillante, ironica e fortemente allegorica attraverso una vicenda che prefigura l’attuale situazione siriana. La trama si svolge tutta all’interno delle ventiquattr’ore di un giorno particolare, quello in cui il regime festeggia il ventennale dell’ascesa al potere di un anonimo dittatore. Il tumulto richiamato dal titolo è quello prodotto dalle grida e dai festeggiamenti dei sostenitori scesi in strada a sfilare per dimostrare il loro ardore verso il grande leader, ma anche quello dei pestaggi riservati a chi non manifesta. Un rumore e un caos che servono anche a impedire al popolo di pensare, di commettere cioè il crimine dell’uso del pensiero. Il silenzio è invece la condizione alla quale è costretto il giovane protagonista del romanzo, lo scrittore 31enne Fathi Sheen, messo a tacere dal regime perché accusato di idee antipatriottiche. Un silenzio che rischia di diventare definitivo – in prigione o addirittura nella tomba – se oserà opporsi al regime che gli chiede di schierarsi dalla parte della propaganda. E lui ne è ben consapevole, al punto da ammettere: “non faccio più niente, non leggo, non scrivo, non penso nemmeno. In tempi come questi, il silenzio è saggezza”.
Molteplici sono i riferimenti letterari che si possono individuare nel testo: da quelli più immediati – a Orwell e al surrealismo di Kafka – fino a opere completamente diverse, come L’autunno del patriarca di Garcia Marquez. “Gli uomini e le donne sconfitti dalla tirannia smetteranno di amare”, sostiene Sirees, e infatti il tema dominante di un libro che è inevitabilmente anche autobiografico è la metafora dell’artista che cerca di resistere sotto la dittatura, che prova a tenere in vita la sua arte tra rumorosi e silenziosi stati d’animo. Ci riuscirà soltanto grazie all’amore per Lama, una donna che richiama alla mente Julia, la figura femminile che in 1984 fa ritrovare il desiderio di libertà a Winston Smith, l’impiegato preposto alla riscrittura della storia. La passione per Lama diventa per Fathi una forma di resistenza, “il solo modo per urlare in faccia al silenzio”. Ma c’è anche un’altra arma, assai potente, con la quale gli uomini possono sconfiggere la dittatura, ed è il sarcasmo, che può essere usato per reagire all’insensata crudeltà del regime al potere. I toni da commedia dell’assurdo utilizzati nella narrazione intendono ridicolizzare la devozione che il popolo è costretto a mostrare nei confronti della dittatura ma anche l’assurdità di uno stato costruito attorno alla personalità del suo leader. Fino al tragicomico finale, carico di significati simbolici e premonitori. “Il merito principale di questo libro – sostiene Sirees – è quello di aver fatto vedere al mondo che la pace nella quale si trovava la Siria prima della guerra civile era artefatta e costruita sulla paura. Non era pace, era soltanto silenzio”. Ma il sarcasmo non riesce a nascondere la sua disillusione nei confronti del futuro: “in questi anni ho visto un incubo trasformarsi in realtà sotto i miei occhi. Oltre alle morti, alle violenze e alle distruzioni, è particolarmente doloroso vedere Aleppo, la mia città, sulla quale ho scritto tutti i miei libri, la cui cultura e la cui storia stanno scomparendo. Sul futuro non mi faccio illusioni, spero che le persone cui voglio bene siano ancora vive. Quanto all’ISIS, non sarebbe mai nato se i regimi vari – Iraq, Siria, Iran ma anche il Libano di Hassan Nasrallah – si fossero comportati in modo pacifico con i loro oppositori moderati. Sono stati proprio questi regimi a creare le condizioni per la nascita e il proliferare dell’estremismo”.
RM