Sulla Siria l’oblio dei giganti del web

Avvenire, 29 aprile 2021

Quando nel 2010 fuggì da Damasco, pochi mesi prima dell’inizio della rivoluzione in Siria, il giornalista Hadi al-Khatib non immaginava che sarebbe riuscito a lasciare il segno nella storia del suo Paese anche da lontano. Si stabilì a Berlino e da lì iniziò a seguire con apprensione i tragici sviluppi bellici che avrebbero devastato la Siria negli ultimi dieci anni. Il regime di Bashar al-Assad ha imbavagliato la stampa impedendo l’accesso alle telecamere dei media ma migliaia di giovani siriani si sono improvvisati citizen journalist, filmando quello che accadeva con i loro cellulari e raccontandolo attraverso i social network. Continua a leggere “Sulla Siria l’oblio dei giganti del web”

Grande guerra, le lapidi rivivono su Twitter

Avvenire, 26.9.2017

“Vittima della menzogna/ che la guerra possa fermare la guerra”; “Quante speranze sono sepolte qua/ con il nostro unico figlio”; “Riposa nel Signore e attendi pazientemente la sua venuta”; “I tuoi passi lontani risuonano nel corridoio del tempo”. Centinaia di epitaffi per i caduti della Grande guerra, pubblicati uno al giorno per oltre quattro anni. Iscrizioni cariche di sofferenza e amore, di disperazione e orgoglio, alcune con riferimenti alla Bibbia e ai classici della letteratura, altre che raccontano un particolare della vita di un soldato o di un’infermiera morta negli anni del conflitto. È Twitter a far rivivere la memoria dei caduti britannici della Prima guerra mondiale con l’ambizioso progetto Great War Inscriptions ideato dalla storica inglese Sarah Wearne. Tre anni fa la studiosa ha iniziato a pubblicare giornalmente le iscrizioni tratte dalle tombe dei cimiteri di guerra sul profilo @WWInscriptions con l’intenzione di proseguire fino all’11 novembre 2018, solcando così il centenario dell’armistizio che pose fine alla brutale mattanza d’inizio ‘900. Ciascun tweet rimanda a una pagina del sito epitaphsofthegreatwar.com che indica il nome, l’età, la data di morte, il corpo di appartenenza e il cimitero dove si trova la lapide. Nella stessa pagina la storica spiega ogni singolo epitaffio citando gli eventuali riferimenti letterari – alcuni tratti da Orazio, Shakespeare, Kipling e Tennyson – e riporta, laddove possibile, anche una breve biografia del caduto. La fase di ricerca del progetto (che ha già superato ampiamente il migliaio di tweet) è durata molti anni, durante i quali Wearne ha studiato negli archivi e ha visitato i più remoti cimiteri di guerra europei riuscendo a riportare in vita le iscrizioni scelte all’epoca dai genitori o dalle mogli dei caduti. Frasi che non ricordano soltanto il sacrificio dei soldati ma anche l’eroismo delle infermiere che seguendo le orme di Florence Nightingale persero la vita nelle trincee, sui campi di battaglia o negli ospedali. Le lapidi riportano epitaffi in più lingue che rispecchiano la patria d’origine del caduto, dal gallese al gaelico scozzese, dall’Afrikaans al Maori. Alcuni di questi sono stati raccolti in due libri dedicati ai momenti cruciali del primo conflitto mondiale: la battaglia della Somme del 1916 e quella di Ypres dell’anno successivo (Epitaphs of the Great War: The Somme e Epitaphs of the Great War: Passchendaele). Ma il cuore del progetto resta la rievocazione quotidiana delle iscrizioni attraverso Twitter, dove il limite dei 140 caratteri appare persino ampio, considerando che all’epoca ai familiari ne furono concessi meno della metà – appena 66 – per ricordare i loro cari. Oggi la geografia di quella memoria bellica lontana un secolo è parte del nostro paesaggio e i cimiteri della Prima guerra mondiale, sparsi per l’Europa, sono ammirati per la loro silenziosa e sobria dignità, ma all’epoca le regole imposte dal governo britannico innescarono non poche controversie. Nel 1915, al culmine del conflitto, Londra proibì infatti il rimpatrio delle salme dalle zone di guerra ignorando le richieste delle famiglie, che non volevano vedere le spoglie dei loro cari inumate in un remoto angolo di un paese straniero. Molti si illusero che sarebbe stato sufficiente attendere la fine delle ostilità per poter dare una degna sepoltura ai propri cari ma il divieto sarebbe rimasto in vigore anche in seguito. A nessuno, neanche a chi aveva i mezzi per farlo, fu consentito di riportare a casa i resti dei propri cari, per evitare che nei cimiteri di guerra restassero soltanto le tombe dei più poveri. “Contrariamente a quanto si può pensare – ha spiegato Wearne – i cimiteri non intendevano riflettere l’uguaglianza dei morti di fronte a Dio, bensì di fronte all’Impero. Che arrivassero dall’Inghilterra, dal Canada o dall’Australia, i soldati dovevano essere tutti sepolti insieme”. Un’apposita commissione governativa stabilì poi che le lapidi dovevano essere uniformate e quindi le famiglie, quale che fosse il grado del soldato caduto, non ebbero neanche la possibilità di sceglierne la forma o le dimensioni. Fu la Chiesa cattolica a far notare che poiché non vi era stata quasi mai la possibilità di amministrare gli ultimi riti, sarebbe stato indispensabile dedicare una preghiera a ciascun morto per favorire il passaggio dell’anima nell’aldilà. Ma in presenza di caduti appartenenti a diverse confessioni religiose fu necessario trovare un compromesso. La commissione concesse che su ciascuna lapide fosse apposta una breve iscrizione lunga non più di 66 caratteri, fissando un costo di 3 pence e mezzo per ciascuna lettera. Una decisione che scatenò non poche proteste, considerando che nel Dopoguerra non tutti potevano permettersi una spesa del genere e furono costretti a rinunciare a quello che di fatto era rimasto l’unico modo per ricordare i propri cari. Ecco perché soltanto sul quaranta per cento di quelle lapidi è stata apposta un’iscrizione. Per tutti gli altri, per i quali l’assenza di un’epigrafe ha inevitabilmente favorito l’oblio, può valere quanto scrisse Rudyard Kipling sotto forma di poesia, pensando a suo figlio John, arruolatosi volontario e ucciso a pochi mesi dall’inizio della Grande guerra: “se qualcuno domanda perché siamo morti, ditegli perché i nostri padri hanno mentito”.
RM

Se Gerry Adams twitta peluche

Il Venerdì di Repubblica, 9.12.2016

C’era una volta il leader politico più rispettato e temuto di tutta l’Irlanda, l’icona vivente che infiammava i cuori degli indipendentisti irlandesi, l’uomo capace di dare una svolta al più lungo conflitto europeo del dopoguerra. Oggi Gerry Adams, 68 anni appena compiuti, siede tra i banchi dell’opposizione del Senato e qualche settimana fa, durante un acceso dibattito parlamentare, ha zittito un avversario gridandogli “i miei orsacchiotti sono vergini”. Una frase da teatro dell’assurdo, da far invidia a Samuel Beckett, in realtà un riferimento alla clamorosa svolta “social” dello stesso Adams. 4a742f7c78fb5a1c6fcd3618af0856ee-2Molti anni dopo la firma dello storico accordo di pace che nel 1998 portò la pace a Belfast e dintorni, il presidente indiscusso del partito repubblicano Sinn Féin ha infatti rivelato di avere interessi a dir poco singolari, facendo conoscere un lato del suo carattere che nessuna biografia era stata finora in grado di raccontare. La “confessione” è avvenuta sul profilo Twitter che Adams cura personalmente da qualche anno, e che è popolato da orsetti di peluche, paperelle di gomma, fiori, torte e cani. Una sera ha scritto: “Troppo stanco per twittare. Sono a letto. Col mio orsacchiotto”. In un altro tweet ha mostrato i regali che aveva appena ricevuto: “paperelle nuove. Si illuminano. Mi hanno fatto felice per Natale”. Mesi dopo, le stesse paperelle sono comparse in un altro tweet che mostrava la sua collezione di pennuti di gomma schierata sul bordo della vasca, prima di cominciare il bagnetto. Alle foto degli animali finti alterna le immagini di quelli veri, le torte che decora personalmente e i giochi che fa col nipotino, corredando il tutto con un linguaggio infantile, “ho sognato che stavo mangiando un tiramisù. Quando mi sono svegliato avevo il cuscino e la barba ricoperti di crema e cioccolato”, oppure “sono in parlamento. Pensavo di avere una penna in tasca, invece era lo spazzolino. Che sciocco!”.30b3dc4300000578-0-image-a-2_1454632917640
In questa finestra inedita e soprendente sulla sua vita c’è molto spazio per quello che mangia, per la musica che ascolta e per i suoi passatempi da bambino molto cresciuto. I tweet di argomento politico sono invece rari e poco rilevanti. La presenza di Gerry Adams su Twitter ha assunto contorni grotteschi da almeno tre anni, ed è confluita in un curioso libretto (My Little Book of Tweets) con una prefazione firmata a quattro mani – o meglio, a quattro zampe – da Tom e Ted, i suoi orsacchiotti preferiti. In copertina c’è lui che fa un selfie con una capretta. Scelte editoriali assai curiose per un leader riconosciuto in tutto il mondo per il suo carisma e la sua proverbiale freddezza, che finora aveva pubblicato serissimi saggi sul conflitto irlandese tradotti e che due anni fa è stato arrestato con l’accusa di essere implicato nell’omicidio e nell’occultamento del cadavere di una donna, nel lontano 1972. Anche chi in un primo momento aveva avanzato dubbi sulla sua sanità mentale si è ormai convinto che si tratta di un’astuta strategia che gli ha già portato molti più follower di alcuni divi del rock, l’ultima frontiera del machiavellismo di un leader con qualche scheletro nell’armadio, che tenta di costruirsi un’immagine edulcorata fino al parossismo. Per farsi accettare anche da chi lo identifica ancora con la lotta armata dell’IRA, deve rifarsi una verginità. Proprio come i suoi orsacchiotti.
RM