Intervista al giudice Carla Del Ponte (dal libro “Libere di essere e di pensare”)
Da almeno vent’anni Carla Del Ponte è il terrore dei governanti e dei capi di stato chiamati a rispondere davanti ai tribunali internazionali per crimini contro l’umanità. La donna che ha portato alla sbarra Milosevic e Karadzic, nonché i principali responsabili del genocidio del Ruanda. Ma dopo aver trascorso gran parte della sua lunga carriera dando la caccia ai criminali di guerra, persino lei ha dovuto alzare bandiera bianca di fronte ai massacri compiuti in Siria. Un anno fa la magistrata ticinese ha lasciato polemicamente la Commissione d’inchiesta Onu sui crimini siriani. Si è ritirata dalla scena lanciando un duro atto d’accusa nei confronti della comunità internazionale. “È una vergogna”, ci dice quando la raggiungiamo al telefono nella sua natia Svizzera.
“Avevamo trovato prove a sufficienza per condannare Assad e i suoi gerarchi, ma anche i ribelli che si erano resi colpevoli di gravi crimini. Per cinque anni ho provato a convincere il Consiglio di Sicurezza a istituire un tribunale per la Siria sulla falsariga di quelli per l’ex Jugoslavia e il Ruanda. Purtroppo è sempre mancata la volontà politica per farlo”. L’accusa di Del Ponte – circostanziata nel suo nuovo libro Gli impuniti (Sperling&Kupfer) – è rivolta in particolare nei confronti di Mosca per aver sempre esercitato il diritto di veto, bloccando le risoluzioni presentate al Consiglio di Sicurezza che chiedevano la creazione di un tribunale ad hoc sul modello di quello da lei presieduto sull’ex Jugoslavia. Eppure all’inizio sembrava che ottenere giustizia per le vittime fosse un obiettivo ragionevolmente possibile. Nel 2011 il Consiglio per i Diritti Umani dell’Onu aveva istituito una commissione d’inchiesta sulla Siria e aveva chiamato la stessa Del Ponte a farne parte per accertare le violazioni, stabilire l’entità dei crimini e arrestare i responsabili. Un incarico che doveva durare pochi mesi e invece si è protratto per sei anni. Fino al 2017, quando Del Ponte ha deciso di andarsene sbattendo la porta.
Quando si è accorta che mancava la volontà politica di fare giustizia in Siria?
Molto presto. Ma non è nel mio carattere arrendermi facilmente e allora ho deciso di restare per cercare di cambiare le cose dall’interno. In tanti anni di attività non ho mai visto una ferocia simile in un conflitto. Bambini torturati e uccisi, raid aerei che colpivano gli ospedali, bombe lanciate sulle persone in fila per il pane. Un orrore indicibile e documentato. I crimini erano così tanti e così gravi che continuavo a sperare che i nostri rapporti avrebbero infine smosso la politica. Per quasi sei anni mi sono impegnata in questo senso, non è stato possibile e allora non potevo far altro che andarmene. Spero che altri riescano laddove io non sono riuscita.
È ormai trascorso più di un anno dalle sue dimissioni dalla Commissione per la Siria. Da allora ha visto qualche cambiamento?
No. Sotto il profilo della giustizia non è cambiato niente. Continua a non esserci la volontà politica di istituire un tribunale che si occupi di quei crimini. La commissione esiste ancora ma non ha più alcuna efficacia. Rappresenta soltanto un alibi per la comunità internazionale, che attraverso di essa vuole far credere che sta facendo qualcosa. Ma in realtà non sta facendo niente. Gli sviluppi, in prospettiva, potrebbero esserci almeno dal punto di vista politico. È possibile che si arrivi finalmente alla pace, poiché il presidente Assad sta riconquistando tutto il territorio del paese. Ma mi domando fino a quando durerà. E purtroppo sono certa che le vittime non otterrano alcuna giustizia. Una pace che non affronta il problema della giustizia sarà sempre una pace fragile. Molto fragile.
Però la Germania ha spiccato un mandato di cattura internazionale nei confronti di Jamil Hassan, una figura-chiave della repressione del regime, accusandolo di crimini contro l’umanità. Può essere il segnale che qualcosa sta finalmente cambiando?
È stato senz’altro un fatto positivo. Almeno qualcuno cerca di fare qualcosa di concreto, ma purtroppo sappiamo già che Hassan non sarà mai né arrestato, né processato per l’iniziativa di un singolo stato straniero.
Eppure i colpevoli hanno nomi e cognomi. La Commissione di cui lei ha fatto parte ha consegnato all’Alto Commissariato dell’ONU una lista che indica almeno un centinaio di criminali di guerra.
Gli impuniti di cui parlo nel libro sono tantissimi, quella lista non pretende certo di essere esaustiva. Il maggior responsabile dei crimini è il presidente della Siria, Assad. Ma abbiamo riscontrato gravi e ripeture violazioni del diritto internazionale da entrambe le parti. Sia le forze governative che i ribelli hanno per esempio fatto uso di armi chimiche. I casi accertati sono almeno ventisette. Abbiamo fornito le prove ma non basta: ci vuole un ufficio del Procuratore che possa terminare le inchieste, che formuli le accuse e soprattutto alla fine emetta i mandati d’arresto internazionali.
Perché nonostante tutto conclude il suo libro affermando che Assad verrà condannato all’ergastolo?
Volevo chiuderlo con una speranza. Non posso assolutamente accettare di aver lavorato oltre otto anni, e con successo, nei tribunali internazionali e dovermi adesso convincere che è stato tutto invano. Che adesso si torna indietro. Allora resto dell’idea che un giorno o l’altro qualcuno dovrà rispondere dei gravissimi crimini commessi in Siria. Sono i passi avanti compiuti dal diritto internazionale a 70 anni dall’approvazione della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani a fornirmi questa speranza.
Il suo libro contiene un’accusa anche nei confronti dell’UE per come ha gestito la questione dei profughi.
Sì, ritengo vergognoso il fatto che l’UE non sia mai riuscita a trovare un accordo tra gli stati membri. Che ogni stato abbia deciso cosa fare per conto suo. È vergognoso anche perché i profughi non resteranno per sempre dispersi in Europa ma al momento opportuno torneranno a casa loro. Tutti i siriani con i quali ho parlato non aspettano altro che il momento di fare ritorno nel loro paese.
Anche dopo il caso siriano la sua fiducia nei confronti dei meccanismi di giustizia internazionale resta immutata?
Assolutamente sì. Riconosco che il momento sia delicato, poiché dopo i buoni risultati ottenuti con i tribunali per l’ex Jugoslavia e per il Ruanda adesso dobbiamo purtroppo registrare un passo indietro. Non solo in Siria, ma anche in Myanmar e in Yemen. Ma lo sapevamo fin dall’inizio: la giustizia internazionale funziona soltanto se sono gli stati a volerlo.