Vladislav Kovalyov, 25 anni, condannato a morte, è stato ucciso con un colpo alla nuca. È l’11 aprile del 2011, un’esplosione nella stazione Oktiabrskaia della metropolitana di Minsk, provoca 15 morti e circa 200 feriti. Il giorno successivo la polizia arresta numerosi sospetti. L’azione viene considerata un attacco terroristico. Gli investigatori sostengono che l’ordigno sia stato realizzato “in casa” e radio-controllato a distanza ravvicinata. Due giorni dopo il presidente bielorusso Aleksandr Lukashenko, definito “l’ultimo dittatore d’Europa”, dichiara alla nazione che sono stati individuati i colpevoli. Si tratta di due bielorussi che hanno ammesso di aver compiuto il fatto. Il ministro dell’Interno fa sapere, intanto, che sono state raccolte in merito sufficienti prove per dimostrare la colpevolezza dei due arrestati.
Sono Dmitry Konovalov e Vladislav Kovalyov, entrambi poco più che ventenni, amici d’infanzia e residenti a Vitebsk. Secondo gli investigatori i due hanno agito da soli. La storia va avanti, si dà vita al processo e nel dicembre del 2011 arriva la sentenza. Dmitri Konovalov, reo confesso, è ritenuto l’esecutore della strage, mentre Vladislav Kovalov, dichiaratosi innocente, è accusato di aver aiutato l’amico ad attivare l’esplosivo e di non aver fatto nulla per impedire l’attentato. Per entrambi la condanna è a morte. Secondo l’accusa il movente non sarebbe stato di natura politica.
La Bielorussia è l’unico Paese europeo che applica ancora la pena di morte, eseguita generalmente con un colpo di pistola. Ai due ragazzi, inoltre, vennero attribuiti anche tutti gli altri attentati giudicati terroristici in Bielorussia degli ultimi dieci anni, ovvero quello del 2005 a Vitebsk, che causò una decina di feriti e quello del 2008 a Minsk durante il concerto per la celebrazione dell’indipendenza, che ne causò circa sessanta. Entrambi gli attentati furono compiuti con ordigni artigianali. Il giudice Aleksandr Fedortsov giustificò la condanna a morte, sostenendo che i due imputati rappresentavano “un pericolo eccezionale per la società”, soprattutto perché, secondo la Corte, i due non appartenendo a nessuna organizzazione di natura politica o a gruppo organizzato, avrebbero agito spinti “dall’odio per il genere umano”. Già un mese prima della sentenza Lukashenko aveva dichiarato che gli accusati meritavano “per i loro atti, la pena più pesante”.
Così il 14 marzo scorso Vladislav Kovalyov, 25 anni, condannato a morte, è stato ucciso con un colpo alla nuca, mentre è mistero sulla sorte di Dmitry Konovalov, che risulterebbe peraltro il principale indiziato. Sono molte le ombre che hanno accompagnato, com’era prevedibile, la vicenda, a partire dalla velocità con cui sono stati individuati i colpevoli. Dopo la morte dei presunti responsabili sarà quasi impossibile arrivare alla verità sui fatti di Minsk: c’è chi sostiene che dietro l’attentato ci sia una sorta di strategia della tensione messa in atto dal sempreverde Kgb. E continua a restare senza risposta una domanda cruciale: per quale motivo i due giovani avrebbero compiuto l’attentato, o come sostiene la Corte, gli attentati? Cosa volevano ottenere?
Quale che sia la verità sulla loro presunta colpevolezza, resta il fatto che nell’Europa del XXI secolo esiste uno stato che applica ancora la pena di morte, a volte, come in questo caso, anche senza la certezza matematica di colpevolezza dei condannati. Alexandr Lukashenko salì ai (dis)onori delle cronache qualche tempo fa per aver affermato che “era meglio essere un dittatore che un gay”. Da quando è in carica sono passati 17 anni, sono stati chiusi una ventina di giornali indipendenti, sono stati perseguitati gli omosessuali e imprigionati decine di prigionieri politici.
Da allora nessuno gli ha ricordato che la Dichiarazione Universale dei diritti umani – adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel dicembre 1948 – riconosce a ogni individuo il diritto alla vita (articolo 3) e afferma categoricamente che “Nessuno potrà essere sottoposto a tortura o a trattamento o punizioni crudeli, inumane o degradanti” (articolo 5).
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La trappola afgana
(di Franco Cardini)
Il dolore per i nostri caduti rimane. Ma bisogna smetterla con l’elaborazione del lutto: anche per evitare che la politica strumentalizzi la tragedia. Facciamo dunque chiarezza, tanto per cominciare. Troppi italiani ignorano o dimenticano i fatti, per disinformazione o per scarsa memoria; e altri, in malafede, ci marciano. Ecco qua, allora. L’invasione dell’Afghanistan fu voluta nell’ottobre del 2001 dal governo Bush come risposta alla tragedia dell’11 settembre, gli effettivi responsabili della quale non sono stati individuati con sicurezza né allora, né dopo. Si disse però ch’era necessario catturare il mandante, lo sceicco Usama bin Laden (le tracce del quale sono praticamente perdute), e smantellare i “santuari” terroristici dei talibani e di al-Qaeda.
Si tacque però il fatto che il controllo del territorio afghano era necessario perché da lì dovevano obbligatoriamente passare gli oleodotti che avrebbero dovuto convogliare il greggio dei grandi giacimenti centroasiatici di recente scoperti verso i porti pakistani sull’Oceano Atlantico: un colossale business nel quale, tramite la compagnia californiana Unocal, erano coinvolti molti membri dell’establishment statunitense. Affari e geopolitica, in corsa con Russia e Cina: una riedizione dell’ottocentesco Great Game.
Il movimento talibano, alimentato e sostenuto dai fondamentalisti wahhabiti arabo-yemeniti (un Islam fino ad allora estraneo alle tradizioni afghane) si era radicato in Afghanistan durante il jihad contro i sovietici, ed era sostenuto dagli Stati Uniti. L’alleanza non aveva però retto, anche perché i talibani rimproveravano agli americani di aver occupato il sacro suolo arabo, la terra del Profeta e del pellegrinaggio, con l’alibi della prima guerra del Golfo. Secondo i consiglieri neoconservatori di Bush, ormai la diplomazia non bastava più: bisognava passare alla modificazione anche violenta degli equilibri geopolitici in tutto il Vicino e il Medio Oriente. Questa la ragione effettiva dell’invasione dell’Afghanistan, che le Nazioni Unite bollarono come illegittima. Il governo Bush agì allora al di fuori dell’autorizzazione Onu, prima con una piccola coalizione di stati e di staterelli fedelissimi e quindi chiamando in campo la Nato, cioè un organo concepito per il controllo dell’Atlantico e quindi del tutto estranea al teatro territoriale afghano. Era intanto cominciata anche l’avventura irakena, e alla fine l’Onu fu costretta a legittimare la duplice aggressione, illudendo che per tale via si giungesse in qualche modo a ristabilire un qualche equilibrio politico.
I risultati, otto anni dopo l’invasione dell’Afghanistan e sei dopo quella dell’Iraq, sono sotto gli occhi di tutti. Due paesi distrutti, insicuri, martoriati (le vittime si contano ormai a decine di migliaia), dove si stenta a far decollare una qualche forma di “democrazia” del tutto formale, cartacea e forzosa; recrudescenza delle lotte etniche e di quelle religiose; avanzata del caos e del fondamentalismo, che stanno sommergendo lo stesso vicino Pakistan un tempo sicuro baluardo filoccidentale. Il piano strategico di Bush è fallito e il suo successore Obama lo sta smontando pezzo per pezzo. Dietro il fallimento in Vietnam gli americani si lasciarono un regime comunista; qui lasceranno il caos e il potere nelle mani dei signori della guerra e della droga. Il dilemma, oggi, è comunque fallimentare: o prolungare una guerra feroce e senza uscita, o andarsene ammettendo il pieno fallimento.
Da questa trappola, bisogna uscire; è inutile giocarsi altre vite umane. Berlusconi, il quale fino a ieri sosteneva che bisognava tener duro, ha fiutato l’impopolarità di questa guerra inutile e incomprensibile ai più e ora si nasconde dietro il legalismo internazionale: ci ritireremo, dice, ma solo con il pieno accordo degli “alleati”. Fuor di metafora, dopo averci trascinato in due guerre per far piacere a Bush, ora sta mendicando da Obama l’autorizzazione a uscirne senza troppo irritarlo. Politica da pollaio. L’importante è che faccia presto.
Afghanistan: lacrime inutili
(di Massimo Fini)
È inutile che in Italia si esprimano sgomento e sdegno. Siamo, con i nostri alleati, un esercito di occupazione e come tale veniamo legittimamente trattati. Forse, sgomento e sdegno, avrebbero maggiore credibilità se una lacrima, anche una sola, fosse scesa anche per le centinaia di migliaia di afghani, talebani e non, morti in questa guerra ingiusta mentre noi ci trastullavamo con i Sanremo, le Miss Italia, e le linee di beauty per cani.
La verità sull’“Operazione Valchiria”
Esce oggi nelle sale italiane l’attesissimo film sul fallito complotto per uccidere Hitler nel 1944, “Operazione Valchiria” con Tom Cruise. Il consueto buonismo della trasposizione cinematografica hollywoodiana è smascherato da tre libri che ricostruiscono la vicenda nella sua complessità, riportando a galla non poche ombre sugli autori del famoso attentato che stava per cambiare le sorti della Germania e del secondo conflitto mondiale. Gli autori sono un testimone dell’epoca e due storici, uno dei quali è Ian Kershaw, uno dei più accreditati biografi del Fuhrer. Ne ho scritto nel dettaglio in un articolo uscito qualche giorno fa su “Avvenire”.