Katyn, gli Usa complici di Stalin

Le autorità degli Stati uniti hanno attivamente contribuito a coprire per decenni le responsabilità sovietiche nel massacro di Katyn, nascondendo le prove in loro possesso e accettando la versione sovietica dei fatti anche negli anni più duri del maccartismo e della guerra fredda. L’oggettiva complicità con Stalin nell’attribuire ai nazisti la fucilazione in massa di 22mila ufficiali polacchi compiuta invece dagli uomini del NKVD su diretto ordine del Cremlino andrebbe fatta risalire a un ordine di F.D. Roosevelt, che nel 1943 non voleva guastare i rapporti con gli alleati sovietici mentre le sorti della guerra erano ancora in forse; quello che stupisce è che il silenzio venne poi mantenuto anche da Truman e dai presidenti successivi, a costo di mentire di fronte al Congresso.
L’esplosiva rivelazione viene dall’agenzia Associated Press, che cita una serie di documenti declassificati dagli Archivi nazionali degli Stati uniti. I documenti mostrano senza ombra di dubbio che il governo statunitense aveva ricevuto chiare indicazioni, già nel 1943, da parte di militari americani prigionieri di guerra dei nazisti, del fatto che il massacro di Katyn fosse avvenuto molto prima dell’estate 1941, cioè di quando le truppe tedesche occuparono la zona (attualmente nel territorio della Bielorussia). Quei militari avevano potuto vedere le salme degli ufficiali polacchi riesumate dai tedeschi e avevano notato che lo stato di decomposizione dei corpi e invece le condizioni “quasi nuove” delle divise collocavano il massacro a poca distanza di tempo dall’occupazione sovietica della Polonia orientale, avvenuta nell’autunno del 1939. Altre prove in possesso delle autorità americane erano state fornite dai servizi britannici, oltre che dal governo polacco in esilio, e tutte concordavano sul fatto che la versione sovietica dell’eccidio di Katyn – cioè che gli ufficiali polacchi erano stati massacrati dai tedeschi durante gli anni della loro occupazione di quell’area (1941-1944) – faceva acqua da tutte le parti e non poteva essere creduta.
Roosevelt invece decise a quanto pare di crederci per convenienza politica, e qualcuno in alto loco ordinò di far sparire i documenti compromettenti giunti in possesso di Washington. Più tardi, nel 1952 in pieno maccartismo, una commissione d’inchiesta del Congresso indagò sulla vicenda e concluse attribuendo la responsabilità dell’eccidio ai sovietici, ma non ottenne collaborazione dalla Casa bianca, che continuò a tenere nascosti i documenti, sostenne che era stato dato credito a Stalin “per necessità” e da allora in poi, fino a quando nel 1990 il Cremlino stesso ammise la verità, continuò ad attenersi alla posizione secondo cui “non c’erano prove conclusive” della pur credibile responsabilità dell’Urss nel massacro. Le rivelazioni odierne, presumibilmente, non faranno bene alle relazioni – perlomeno quelle emozionali – tra Stati uniti e Polonia.

(di Astrit Dakli, dal blog Est Est Est)

Se questa è Europa

Vladislav Kovalyov, 25 anni, condannato a morte, è stato ucciso con un colpo alla nuca. È l’11 aprile del 2011, un’esplosione nella stazione Oktiabrskaia della metropolitana di Minsk, provoca 15 morti e circa 200 feriti. Il giorno successivo la polizia arresta numerosi sospetti. L’azione viene considerata un attacco terroristico. Gli investigatori sostengono che l’ordigno sia stato realizzato “in casa” e radio-controllato a distanza ravvicinata. Due giorni dopo il presidente bielorusso Aleksandr Lukashenko, definito “l’ultimo dittatore d’Europa”, dichiara alla nazione che sono stati individuati i colpevoli. Si tratta di due bielorussi che hanno ammesso di aver compiuto il fatto. Il ministro dell’Interno fa sapere, intanto, che sono state raccolte in merito sufficienti prove per dimostrare la colpevolezza dei due arrestati.
Sono Dmitry Konovalov e Vladislav Kovalyov, entrambi poco più che ventenni, amici d’infanzia e residenti a Vitebsk. Secondo gli investigatori i due hanno agito da soli. La storia va avanti, si dà vita al processo e nel dicembre del 2011 arriva la sentenza. Dmitri Konovalov, reo confesso, è ritenuto l’esecutore della strage, mentre Vladislav Kovalov, dichiaratosi innocente, è accusato di aver aiutato l’amico ad attivare l’esplosivo e di non aver fatto nulla per impedire l’attentato. Per entrambi la condanna è a morte. Secondo l’accusa il movente non sarebbe stato di natura politica.
La Bielorussia è l’unico Paese europeo che applica ancora la pena di morte, eseguita generalmente con un colpo di pistola. Ai due ragazzi, inoltre, vennero attribuiti anche tutti gli altri attentati giudicati terroristici in Bielorussia degli ultimi dieci anni, ovvero quello del 2005 a Vitebsk, che causò una decina di feriti e quello del 2008 a Minsk durante il concerto per la celebrazione dell’indipendenza, che ne causò circa sessanta. Entrambi gli attentati furono compiuti con ordigni artigianali. Il giudice Aleksandr Fedortsov giustificò la condanna a morte, sostenendo che i due imputati rappresentavano “un pericolo eccezionale per la società”, soprattutto perché, secondo la Corte, i due non appartenendo a nessuna organizzazione di natura politica o a gruppo organizzato, avrebbero agito spinti “dall’odio per il genere umano”. Già un mese prima della sentenza Lukashenko aveva dichiarato che gli accusati meritavano “per i loro atti, la pena più pesante”.
Così il 14 marzo scorso Vladislav Kovalyov, 25 anni, condannato a morte, è stato ucciso con un colpo alla nuca, mentre è mistero sulla sorte di Dmitry Konovalov, che risulterebbe peraltro il principale indiziato. Sono molte le ombre che hanno accompagnato, com’era prevedibile, la vicenda, a partire dalla velocità con cui sono stati individuati i colpevoli. Dopo la morte dei presunti responsabili sarà quasi impossibile arrivare alla verità sui fatti di Minsk: c’è chi sostiene che dietro l’attentato ci sia una sorta di strategia della tensione messa in atto dal sempreverde Kgb. E continua a restare senza risposta una domanda cruciale: per quale motivo i due giovani avrebbero compiuto l’attentato, o come sostiene la Corte, gli attentati? Cosa volevano ottenere?
Quale che sia la verità sulla loro presunta colpevolezza, resta il fatto che nell’Europa del XXI secolo esiste uno stato che applica ancora la pena di morte, a volte, come in questo caso, anche senza la certezza matematica di colpevolezza dei condannati. Alexandr Lukashenko salì ai (dis)onori delle cronache qualche tempo fa per aver affermato che “era meglio essere un dittatore che un gay”. Da quando è in carica sono passati 17 anni, sono stati chiusi una ventina di giornali indipendenti, sono stati perseguitati gli omosessuali e imprigionati decine di prigionieri politici.
Da allora nessuno gli ha ricordato che la Dichiarazione Universale dei diritti umani – adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel dicembre 1948 – riconosce a ogni individuo il diritto alla vita (articolo 3) e afferma categoricamente che Nessuno potrà essere sottoposto a tortura o a trattamento o punizioni crudeli, inumane o degradanti(articolo 5).