La resistenza esistenziale di Etty Hillesum

Avvenire, 22.5.2018

Nella foto: Etty Hillesum

“L’unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di te in noi stessi, mio Dio. Forse possiamo anche contribuire a disseppellirti dai cuori devastati di altri uomini. E quasi a ogni battito del mio cuore, cresce la mia certezza: tocca a noi aiutare te, difendere fino all’ultimo la tua casa in noi”. Etty Hillesum riuscì a viaggiare in un mondo interiore che le consentì di dominare l’orrore della guerra e di lasciarci una delle testimonianze umane e spirituali più alte del nostro tempo. Qualche anno fa, in occasione del settantesimo anniversario della sua morte ad Auschwitz, furono finalmente pubblicate anche in italiano le edizioni integrali del suo diario e delle sue lettere, che fanno conoscere a fondo una delle figure più significative non solo della letteratura concentrazionaria, ma di tutto il pensiero contemporaneo. La resistenza esistenziale di Etty Hillesum può dare le vertigini: le sue profonde fragilità trasformate in forza attraverso un dialogo intimo e personalissimo con Dio, il suo amore per la vita che cresce proporzionalmente all’odio e alla persecuzione nazista, infine la rinuncia a tutto e la scelta di non salvarsi dalla deportazione, pur avendone l’opportunità, ma di condividere la sorte del suo popolo. Una parabola umana e intellettuale che emerge in tutta la sua attualità nel libro di Edgarda Ferri Un gomitolo aggrovigliato è il mio cuore. Vita di Etty Hillesum, un’opera che non è né un saggio, né una biografia in senso stretto, bensì la raffinata ricostruzione di una vita irrequieta e scandalosa che a partire dall’incontro con lo psicoanalista junghiano Julius Spier intraprende uno straordinario cammino mistico e spirituale. “La studio da tanti anni”, ci spiega Ferri. “Etty è diventata per me un punto di riferimento fin da quando uscì la prima edizione parziale del suo diario, che col tempo mi è capitato spesso di aprire anche soltanto per leggere una pagina. Nel suo pensiero trovavo infatti tanti spunti di riflessione, sulla pace, sulla vita, sul perdono. Poi tre-quattro anni fa ho sentito il bisogno di conoscerla meglio e ho iniziato a fare ricerche, sono stata ad Amsterdam, ho consultato libri su di lei, ho studiato lettere e diari dei suoi contemporanei e amici. Sono partita da un indizio, come faccio sempre, cercando poi di risalire alle fonti”. Già autrice di una lunga serie di biografie di donne famose – da Maria Teresa d’Austria a Giovanna la Pazza, da Caterina da Siena a Matilde di Canossa – Edgarda Ferri ci restituisce l’immagine di una giovane assetata di vita e di amore, che vive passioni intense nella carne e nello spirito, spietatamente sincera e legata a un Dio misterioso al quale arriva a perdonare l’indifferenza verso il dolore del mondo. Ci spiega di essersi avvicinata alla Hillesum con il giusto distacco imposto dalla sua formazione giornalistica, quindi senza immedesimarsi in lei, per non cadere nella tentazione di rappresentarla come una santa o come una martire. “Per fortuna ho avuto bravi maestri, uno era Dino Buzzati, che mi ha insegnato ad ascoltare e a non innamorarmi mai di un personaggio, altrimenti si rischia di farne un santino. A volte mi è sembrato quasi di essere uno scienziato intento a vivisezionare i suoi sentimenti e le sue parole, scandagliandole con la lente di ingrandimento”. Il risultato del suo lavoro è un vivido ritratto per immagini in cui predomina il pensiero della Hillesum ma dove l’attento setaccio delle informazioni biografiche consente di contestualizzare il percorso di un’anima che si sentiva “come un gomitolo aggrovigliato”, in totale balìa di forze contraddittorie. Etty era infatti la ragazza “che non sapeva inginocchiarsi” – come è lei stessa a definirsi nel suo diario – ma poi, nel breve volgere di un paio d’anni, un cortocircuito interiore stravolge la sua esistenza. “Inizialmente è inconsapevole di quello che sta accadendo intorno a lei, frequenta i circoli intellettuali e vive una condizione di privilegio ma poi lo psicoanalista Julius Spier, col quale ha un lungo confronto intellettuale e sentimentale, la convince a mettersi in ginocchio. Da quel momento comincerà a dimenticare sé stessa e a pensare agli altri. Ma più che una vera conversione – prosegue Ferri – lo definirei un cammino graduale e molto personale. Prima Etty si dichiara atea, poi cerca Dio e lo trova in un albero. Infine gli scrive dicendo che perdona la sua indifferenza nei confronti delle tragedie del mondo. Non era però né una fanatica, né una santa, né un’eroina. Era una donna assetata di assoluto, che grazie alla sua straordinaria sensibilità ebbe modo di avvicinarsi al divino umiliandosi, fino a decidere di non dare più alcun peso a sé stessa e alla sua sofferenza”.
Di fronte all’abisso del male, Etty Hillesum si interroga sui motivi della disumanità dell’uomo, prega Dio affinché le dia la forza di comprendere anche i delitti più gravi, arriva persino a perdonare i carnefici, percependone la fragilità. Avrebbe la possibilità di salvarsi, ma forte delle sue convinzioni umane e religiose decide di condividere fino in fondo il destino dei deportati. “Chi sono io – si chiede – per accettare di salvarmi e abbandonare il mio popolo?” Va quindi a lavorare come volontaria nel campo di transito di Westerbork, in Olanda, dove gli ebrei sono ammassati in condizioni disumane prima di partire per Auschwitz. Condivide la sofferenza altrui al punto da rendersi conto che il suo dolore personale non è niente, in confronto al dolore dell’umanità intera. “Sono convinta – conclude Ferri – che quando parla del ‘suo popolo’ non si riferisca soltanto agli ebrei ma alla popolazione umana nella sua interezza, poiché a Westerbork c’erano anche tanti cristiani e atei. Là aiutò soprattutto le donne, facendo di tutto perché conservassero fino alla fine la loro dignità. Potete essere private di qualsiasi cosa, disse loro, ma la dignità non dovete mai farvela portar via”. Etty Hillesum amava profondamente la vita. Al punto che, poco prima di partire per Auschwitz – dove morì il 30 novembre 1943 – scrisse, “abbiamo lasciato il campo cantando”.
RM

Srebrenica, la memoria contesa

Non c’è pace per Srebrenica: la fragile memoria dell’ultimo genocidio del XX secolo rischia di essere distorta proprio alla vigilia del suo ventesimo anniversario, in programma l’anno prossimo. A lanciare il grido dall’allarme sono le associazioni dei familiari delle vittime, che denunciano il progetto di ampliamento del memoriale di Potočari, il luogo dove ogni anno si tengono in luglio le commemorazioni del massacro e le tumulazioni delle nuove vittime identificate grazie al lavoro degli antropologi forensi. Il progetto prevede il restauro della vecchia fabbrica di accumulatori che in quella drammatica estate del 1995 ospitava il quartiere generale del Dutchbat, il battaglione Onu olandese che fallì nel compito di proteggere l’enclave. La cittadina che avrebbe dovuto essere protetta dalle truppe di peacekeeping fu presa dalle milizie serbo-bosniache del generale Ratko Mladić, che in pochi giorni massacrarono oltre ottomila uomini, anziani, bambini e adolescenti, gettandone i resti in decine di fosse comuni.

2670915671_64747739d6_mLa nostra galleria fotografica

A finanziare la ricostruzione dell’edificio sarà il governo dell’Aja – recentemente condannato per quei fatti –, che allestirà al suo interno un’esposizione permanente sulla presenza internazionale a Srebrenica nel periodo tra il 1993 e il 1995. Sono previste mostre fotografiche e percorsi guidati realizzati in collaborazione con gli esperti del campo di Westerbork, l’ex lager aperto dai nazisti su territorio olandese durante la Seconda guerra mondiale e trasformato in monumento nazionale negli anni ’70. Per la prima volta saranno raccolte a Potočari anche le testimonianze dei soldati olandesi, che andranno a integrare le storie dei sopravvissuti e avranno dunque un ruolo attivo nel ricostruire la memoria di quei fatti. Non era difficile immaginare che ciò sarebbe stato inevitabilmente motivo di controversia. I rassicuranti opuscoli informativi ufficiali del progetto sottolineano che “spesso gli ex caschi blu olandesi si sentono ignorati. Anche se i sopravvissuti possono avere una diversa visione riguardo a determinati eventi, gran parte di loro è convinta che le storie e le informazioni dei veterani del Dutchbat siano importanti per ottenere una ricostruzione completa di quanto avvenne a Srebrenica”. Ampio spazio – assicura lo stesso opuscolo – sarà quindi riservato “al rapporto particolare che si è sviluppato tra l’Olanda e Srebrenica dopo il 1995”. Forse non è corretto affermare che sia in atto un tentativo di revisionismo, ma di sicuro ce n’è abbastanza per suscitare più di una perplessità e far sentire puzza di bruciato alle associazioni delle vittime. L’obiettivo dichiarato dal progetto, cioè quello di costruire una narrativa comune sulla caduta dell’enclave, rischia viceversa di aprire la strada a un’improvvida e inopportuna riabilitazione postuma del ruolo dei caschi blu. D’altra parte, il pessimo operato delle truppe giunte in Bosnia dai Paesi Bassi ebbe fin da subito conseguenze catastrofiche sulla politica e sull’opinione pubblica: nel 2002 il governo olandese fu costretto alle dimissioni da un’inchiesta che provò le responsabilità del proprio battaglione durante il conflitto; subito dopo si dimise anche il comandante delle forze armate, mentre molti veterani erano già da tempo finiti in cura dagli psicologi a causa dei traumi e dei sensi di colpa dovuti alle conseguenze della caduta dell’enclave. Fino alla sentenza del luglio scorso, con la quale il Tribunale dell’Aja ha riconosciuto “civilmente responsabile” lo stato olandese di quel massacro, condannandolo al risarcimento materiale dei danni nei confronti dei congiunti delle vittime. Era dunque inevitabile che alcune settimane fa, in occasione della presentazione ufficiale del progetto di ampliamento del memoriale(che prevede anche il restauro di due delle torri di controllo dell’ex fabbrica di Potočari), i familiari ribadissero che non ci sarà mai spazio per altre interpretazioni su quanto accadde diciannove anni fa, mentre il conflitto in Bosnia si avviava a una difficile conclusione. Munira Subasic, storica portavoce delle Madri di Srebrenica, ha fatto sapere che non sarà ammessa alcuna rilettura, neanche parziale, del ruolo svolto dai caschi blu e dal governo olandese e che i familiari delle vittime rivendicheranno sempre il diritto di essere gli unici supervisori del progetto. Il fatto che l’ennesima fossa comune della zona sia stata scoperta proprio all’interno del quartier generale del Dutchbat, di certo, non aiuta.
RM