di Guido Rampoldi
Figlio dello spirito del tempo, avanza a grandi passi un revisionismo traversale per il quale i musulmani di Bosnia profittarono della guerra (1992-1995) per far entrare in Europa legioni di jihadisti: e perciò sarebbero responsabili della penetrazione islamista nei Balcani, tuttora in corso. Questo singolare rovesciamento, per il quale le vittime diventano i colpevoli, era già stato abbozzato a suo tempo da La Stampa di Torino, che definiva ‘hezbollah’ i soldati bosniaci, intesi come sanguinari fondamentalisti. Rilanciato da un analista militare apprezzato dai neocons, John Schindler, adesso ispira un intervento del generale Mario Arpino, ex capo di stato maggiore, pubblicato dal prestigioso Istituto affari internazionali.
La tesi è la seguente: il presidente bosniaco Alija Izetbegović (autore, ricorda Arpino, della ‘Dichiarazione islamica’) avrebbe offerto “ai propri amici mujaheddin internazionali un campo di battaglia dove continuare ad esercitarsi alla jihad. In definitiva, è lui che avrebbe importato e consapevolmente sviluppato, contagiando anche una parte della gioventù bosniaca, l’estremismo integralista musulmano nell’Europa balcanica”. Di torme di jihadisti accorse in Bosnia narra anche uno storico, di solito rigoroso, come Sergio Romano, secondo il quale Izetbegovic voleva “islamizzare i musulmani”, ragione per cui in Bosnia convennero guerrieri provenienti “da tutte le jihad che si stavano predicando o combattendo in Africa e in Medio Oriente”. Quanti jihadisti? Duemila, azzarda un reportage de Il Corriere della Sera. In ogni caso la tesi che attribuisce alla Bosnia in guerra “una leadership fondamentalista islamica” (così il filosofo marxista Alberto Burgio su Il Manifesto) sembra ormai traversare l’intera geografia destra-sinistra, ripristinando la trasversalità di quel ‘partito dell’inazione’ che durante la guerra saldò destre e sinistre.
Il secondo elemento cui si affida il revisionismo è l’odio etnico, un impulso spontaneo che, a quanto scrivevano i giornali già durante la guerra, divorava da secoli serbi, croati e musulmani. Il problema è che in una società spaccata dall’odio etnico non avvengono matrimoni misti, mentre nelle maggiori città bosniache prima della guerra erano una percentuale altissima, in media il 10%, quante oggi le coppie ‘multi-etniche’ in Gran Bretagna, Paese che non pare sull’orlo della guerra civile. In realtà l’odio – un odio così antico e generalizzato che nessun intervento esterno avrebbe potuto placare – era il pretesto che occorreva ai governi europei. Ammettere che il conflitto avesse natura politica, che opponesse un aggressore, il nazionalismo etnico, e un aggredito, la Bosnia pluri-etnica, comportava per l’Europa l’obbligo di assumersi responsabilità e rischi per difendere i Musulmani, una prospettiva impopolare nel continente. La tesi dell’odio toglieva i governi dagli impacci. Perfino la Bbc finse di non capire che la guerra era organizzata e ispirata da Belgrado e da Zagabria, come più tardi confermarono le sentenze del Tribunale dell’Aja (sul ruolo del presidente croato Tudjman, sottratto alla giustizia internazionale da una morte tempestiva, parla a sufficienza la motivazione della sentenza contro il suo sodale Jadranko Prlic).
Quanto poi alla tesi di Arpino, posso offrire la mia testimonianza di inviato speciale. In quei tre anni e mezzo il mitissimo islam bosniaco non emise una sola fatwa per incitare alla guerra santa contro gli aggressori ‘cristiani’. Non si palesarono predicatori salafiti (e quando ne apparve uno, nel 2006, fu invitato a sloggiare con un manifesto letto in tutte le moschee bosniache). Gli ‘hezbollah’ spacciati dalla Stampa erano i laicissimi soldatini del V corpo. Gli eserciti di guerrieri jihadisti assommavano a una cinquantina di assassini acquartierati nell’ex fabbrica dei fiammiferi di Travnik, detestati dalla popolazione musulmana e indipendenti dalle Forze armate bosniache, il cui capo, il generale Jovan Diviak, era uno jugoslavista serbo. La ‘Dichiarazione islamica’ di Izetbegovic precede di 22 anni la guerra, e vi si leggono affermazioni come: “Al posto di odiare l’Occidente, dobbiamo proclamare la necessità della cooperazione”. Il governo di Sarajevo fece il possibile perché la Repubblica mantenesse un carattere pluri-etnico, indispensabile ai Musulmani per evitare la sorte cui li candidavano i nazionalismi serbo e croato, essere ridotta ad un Bantustan islamico. Dunque il revisionismo spartisce poco con la storia e molto con la cattiva coscienza.
In realtà la Bosnia progettata a Sarajevo era una versione liberale della Jugoslavia, federazione multietnica anch’essa smantellata dai nazionalismi serbo e croato (con un aiuto europeo indiretto, ma sostanziale). All’inizio del conflitto bosniaco le Nazioni unite vararono, anche su impulso di governi europei, un embargo sulle armi che colpiva unicamente gli aggrediti. In Italia non si tenne neppure una manifestazione contro le pulizie etniche serbe e croate, che pure avvenivano sotto i nostri balconi. Quasi tutta l’informazione e la politica si attennero alla rappresentazione del ‘conflitto etnico’ per il quale tutti erano colpevoli (e nascosero il ruolo della Croazia di Tudjman, in precedenza celebrato come il campione della cristianità e del liberalismo opposto all’Oriente ‘serbo-comunista’); virarono all’improvviso quando gli americani decisero di intervenire; e infine preferirono non vedere la violenta espulsione di duecentomila serbi dalla Kraijna, il prezzo per il quale la Croazia mollò la presa sul pezzo di Bosnia che di fatto aveva annesso. Beninteso, l’intervento Nato obbediva innanzitutto a una priorità geopolitica, affermare sul campo il diritto dell’Alleanza di estroflettersi fuori dai propri confini. Ma pose fine ad una guerra che aveva prodotto centomila morti, per i due terzi Musulmani o jugoslavisti. Ora il revisionismo suggerisce implicitamente che l’intervento fu un errore, sarebbe stato meglio se la Nato avesse lasciato il conflitto al suo decorso “naturale” e si fosse combattuto fino all’ultimo Musulmano. Un tempo era la tesi di vari orecchianti, oggi pare annunciare il nuovo ‘realismo’ politically correct.
(da “Il Fatto Quotidiano”)