Nikola Tesla, il conio della discordia

Il venerdì di Repubblica, 20 agosto 2021

È bastato che la banca centrale di Zagabria annunciasse l’intenzione di stampare il volto di Nikola Tesla sulle future monete in euro per riaccendere l’antica diatriba con Belgrado sulla ‘paternità’ di uno dei più geniali inventori del ventesimo secolo. Un tempo a contenderselo erano i nazionalisti serbi e croati a suon di azioni dimostrative e statue abbattute. Oggi – segno dei tempi – sono invece i governi e le rispettive banche centrali. La Croazia si sta preparando a entrare nell’eurozona nel 2023 e circa 50mila cittadini croati hanno partecipato a un sondaggio online per scegliere i simboli da inserire sulle monete che in futuro sostituiranno la kuna, la vecchia divisa nazionale. Poiché uno dei simboli più votati è risultato proprio quello che riproduce il volto baffuto di Nikola Tesla, la banca centrale croata ha annunciato che lo scienziato comparirà sulle monete da 50, da 20 e da 10 centesimi. Ma i media e gli ambienti filo-governativi serbi hanno gridato allo scandalo, accusando Zagabria di voler usurpare un loro eroe nazionale. Un’altra banca centrale – quella di Belgrado – ha annunciato che per impedirlo intraprenderà “ogni azione opportuna” a Bruxelles. Senza specificare quali. Continua a leggere “Nikola Tesla, il conio della discordia”

La lista di Diana

Avvenire, 12.11.2017

Un nome, un volto di donna su una foto ingiallita dal tempo, le pagine consunte di un vecchio diario. Non ci resta molto di più, oggi, di una delle più grandi operazioni umanitarie compiute in Europa durante la Seconda guerra mondiale. Quella donna si chiamava Diana Budisavljević e rischiò la vita per salvare migliaia di bambini dallo sterminio nazista ma il suo eroismo è rimasto sepolto nell’oblio fino a poco tempo fa, vittima di un corto circuito della storia innescato da veti e convenienze politiche. Secondo i calcoli più attendibili, in circa tre anni e mezzo, mentre la popolazione civile serba dello stato indipendente croato fu sottoposta allo sterminio di massa dal regime ustascia alleato con Hitler, l’Aktion, l’organizzazione fondata a Zagabria da questa donna di origini austriache, sottrasse circa dodicimila bambini ai campi di concentramento. Purtroppo non tutti riuscirono a salvarsi, poiché in molti casi morirono non appena prelevati, durante il trasporto o nei luoghi in cui vennero accolti ma la sua preoccupazione quasi ossessiva per i bambini, soprattutto per i neonati, rappresentò la salvezza per migliaia di loro. Il diario di Diana, che copre il periodo dal 1941 al 1947, è stato ritrovato solo in tempi recenti da sua nipote, Silvija Szabo. Finalmente pubblicato in Croazia nel 2003 ha consentito, dopo un’attenta ricerca sulle fonti documentarie, di ricostruire la straordinaria vicenda della sua “Azione” ma non è riuscito a rendere finalmente giustizia alla sua memoria. È quanto si propone di fare Wilhelm Kuehs, scrittore austriaco che ha appena pubblicato Dianas Liste (“La lista di Diana”), un romanzo biografico ispirato alla sua storia sullo stile di quanto fece molti anni fa l’australiano Thomas Keneally sulla vicenda di Oskar Schindler, che poi avrebbe ottenuto fama planetaria grazie al film di Steven Spielberg.
Anche la vicenda della Budisavljević potrebbe prestarsi molto bene a un adattamento cinematografico. In uno dei primi passaggi del suo diario, Diana racconta che un giorno la sua sarta di religione ebraica le parlò del campo di concentramento allestito a Loborgrad, in un’antico castello a poca distanza dalla capitale croata, dov’erano rinchiusi soprattutto bambini e donne serbe ed ebree, e dove le condizioni igieniche e sanitarie erano già al collasso. Decise allora di creare un comitato clandestino per l’organizzazione degli aiuti, iniziando a raccogliere denaro, abiti, scarpe e materassi, a cucire cappotti, coperte, lenzuola, nascondendo tutto nel garage di casa. In poco tempo riuscì a mobilitare decine di donatori e a consegnare i primi pacchi di aiuti alla comunità ebraica. Ma fu solo l’inizio. Ben presto riuscì a ottenere dalle autorità croate il permesso di recarsi nel campo per rendersi conto di persona delle condizioni delle internate e dei loro figli. Facendo leva sulla sua nazionalità austriaca, sulle sue amicizie e sulla fama del marito – all’epoca considerato uno dei migliori chirurghi del paese -, cominciò a fare pressione sulle autorità politiche e religiose, e all’inizio del 1942 ottenne dalla polizia il primo permesso scritto che le concedeva di raccogliere e inviare cibo e vestiti agli internati di fede ortodossa. Quando le autorità ustascia decisero di istituire per scopi propagandistici una serie di “orfanotrofi” per i piccoli profughi, l’“Azione” iniziò a occuparsi dei primi bambini rilasciati dai campi di Loborgrad e Gornja Rijeka che non avevano dove andare poiché le loro madri erano state trasferite ai lavori forzati in Germania. Prima convinse il governo croato a regolamentare il trasferimento dei bambini presso famiglie disposte ad accoglierli, poi organizzò i trasporti, a condizione che dopo la guerra sarebbero stati fatti tornare alle loro famiglie. Fu una corsa contro il tempo, per cercare di salvarli dalla fame, dalle malattie e dalle camere a gas. La consapevolezza dei gravissimi rischi che correva non impedì alla Budisavljevic di entrare più volte nel campo di sterminio di Jasenovac affrontando a viso aperto il suo comandante, Vjekoslav Luburic, considerato uno dei più crudeli criminali di guerra ustascia. In un altro significativo passaggio del suo diario racconta proprio la sua visita al più famigerato lager dei Balcani per prelevare i bambini: “le scene dolorose che ho visto sono indescrivibili. Quanto coraggio in quelle donne. Alcuni bambini piccoli non si volevano separare dalle loro madri, e allora loro disperate dicevano ai loro adorati: ‘Ti piacerà, non aver paura, presto verrò a prenderti’. E poi la solita domanda fatta a bassa voce – se avrebbero mai rivisto i loro figli”. In appena due giorni riuscì a farne uscire dal campo oltre un migliaio. L’affidamento alle famiglie adottive sarebbe stato soltanto una sistemazione temporanea: l’obiettivo era infatti quello di restituire i bambini ai loro parenti subito dopo la guerra. A questo scopo, a partire dalla seconda metà del 1942 l’“Azione” organizzò un dettagliatissimo schedario con i dati e le fotografie di tutti i bambini per consentire il ricongiungimento a guerra finita. Ma pochi giorni dopo la liberazione, avvenuta l’8 maggio 1945, la “lista di Diana” fu sequestrata dal nuovo governo comunista jugoslavo che – pur riuscendo a individuare molti genitori dei bambini salvati – si appropriò letteralmente del suo operato oscurando la grande operazione di salvataggio che aveva messa in atto, per raccontarla come un trionfo delle forze partigiane di Zagabria. Diana Budisavljević non vide mai riconosciuto il suo ruolo perché dopo la guerra non volle avere niente a che fare con il regime jugoslavo, che non tollerava la sua neutralità politica. Sarebbe rimasta in disparte per il resto della sua vita, continuando a vivere a Zagabria con il marito fino al 1972, quando fece ritorno a Innsbruck, sua città natale, dove morì nel 1978, all’età di 87 anni. Il suo eroismo è stato riconosciuto dalle autorità serbe soltanto nel 2012, quando il presidente della Repubblica Boris Tadic le ha conferito la medaglia d’oro alla memoria. A oggi nessun riconoscimento ufficiale è arrivato invece dalla Croazia, che per ora si è limitata a intitolarle un parco cittadino a Zagabria.
RM

Bosnia, il revisionismo trasversale dei media italiani

di Guido Rampoldi

Figlio dello spirito del tempo, avanza a grandi passi un revisionismo traversale per il quale i musulmani di Bosnia profittarono della guerra (1992-1995) per far entrare in Europa legioni di jihadisti: e perciò sarebbero responsabili della penetrazione islamista nei Balcani, tuttora in corso. Questo singolare rovesciamento, per il quale le vittime diventano i colpevoli, era già stato abbozzato a suo tempo da La Stampa di Torino, che definiva ‘hezbollah’ i soldati bosniaci, intesi come sanguinari fondamentalisti. Rilanciato da un analista militare apprezzato dai neocons, John Schindler, adesso ispira un intervento del generale Mario Arpino, ex capo di stato maggiore, pubblicato dal prestigioso Istituto affari internazionali.
La tesi è la seguente: il presidente bosniaco Alija Izetbegović (autore, ricorda Arpino, della ‘Dichiarazione islamica’) avrebbe offerto “ai propri amici mujaheddin internazionali un campo di battaglia dove continuare ad esercitarsi alla jihad. In definitiva, è lui che avrebbe importato e consapevolmente sviluppato, contagiando anche una parte della gioventù bosniaca, l’estremismo integralista musulmano nell’Europa balcanica”. Di torme di jihadisti accorse in Bosnia narra anche uno storico, di solito rigoroso, come Sergio Romano, secondo il quale Izetbegovic voleva “islamizzare i musulmani”, ragione per cui in Bosnia convennero guerrieri provenienti “da tutte le jihad che si stavano predicando o combattendo in Africa e in Medio Oriente”. Quanti jihadisti? Duemila, azzarda un reportage de Il Corriere della Sera. In ogni caso la tesi che attribuisce alla Bosnia in guerra “una leadership fondamentalista islamica” (così il filosofo marxista Alberto Burgio su Il Manifesto) sembra ormai traversare l’intera geografia destra-sinistra, ripristinando la trasversalità di quel ‘partito dell’inazione’ che durante la guerra saldò destre e sinistre.
Il secondo elemento cui si affida il revisionismo è l’odio etnico, un impulso spontaneo che, a quanto scrivevano i giornali già durante la guerra, divorava da secoli serbi, croati e musulmani. Il problema è che in una società spaccata dall’odio etnico non avvengono matrimoni misti, mentre nelle maggiori città bosniache prima della guerra erano una percentuale altissima, in media il 10%, quante oggi le coppie ‘multi-etniche’ in Gran Bretagna, Paese che non pare sull’orlo della guerra civile. In realtà l’odio – un odio così antico e generalizzato che nessun intervento esterno avrebbe potuto placare – era il pretesto che occorreva ai governi europei. Ammettere che il conflitto avesse natura politica, che opponesse un aggressore, il nazionalismo etnico, e un aggredito, la Bosnia pluri-etnica, comportava per l’Europa l’obbligo di assumersi responsabilità e rischi per difendere i Musulmani, una prospettiva impopolare nel continente. La tesi dell’odio toglieva i governi dagli impacci. Perfino la Bbc finse di non capire che la guerra era organizzata e ispirata da Belgrado e da Zagabria, come più tardi confermarono le sentenze del Tribunale dell’Aja (sul ruolo del presidente croato Tudjman, sottratto alla giustizia internazionale da una morte tempestiva, parla a sufficienza la motivazione della sentenza contro il suo sodale Jadranko Prlic).
Quanto poi alla tesi di Arpino, posso offrire la mia testimonianza di inviato speciale. In quei tre anni e mezzo il mitissimo islam bosniaco non emise una sola fatwa per incitare alla guerra santa contro gli aggressori ‘cristiani’. Non si palesarono predicatori salafiti (e quando ne apparve uno, nel 2006, fu invitato a sloggiare con un manifesto letto in tutte le moschee bosniache). Gli ‘hezbollah’ spacciati dalla Stampa erano i laicissimi soldatini del V corpo. Gli eserciti di guerrieri jihadisti assommavano a una cinquantina di assassini acquartierati nell’ex fabbrica dei fiammiferi di Travnik, detestati dalla popolazione musulmana e indipendenti dalle Forze armate bosniache, il cui capo, il generale Jovan Diviak, era uno jugoslavista serbo. La ‘Dichiarazione islamica’ di Izetbegovic precede di 22 anni la guerra, e vi si leggono affermazioni come: “Al posto di odiare l’Occidente, dobbiamo proclamare la necessità della cooperazione”. Il governo di Sarajevo fece il possibile perché la Repubblica mantenesse un carattere pluri-etnico, indispensabile ai Musulmani per evitare la sorte cui li candidavano i nazionalismi serbo e croato, essere ridotta ad un Bantustan islamico. Dunque il revisionismo spartisce poco con la storia e molto con la cattiva coscienza.
In realtà la Bosnia progettata a Sarajevo era una versione liberale della Jugoslavia, federazione multietnica anch’essa smantellata dai nazionalismi serbo e croato (con un aiuto europeo indiretto, ma sostanziale). All’inizio del conflitto bosniaco le Nazioni unite vararono, anche su impulso di governi europei, un embargo sulle armi che colpiva unicamente gli aggrediti. In Italia non si tenne neppure una manifestazione contro le pulizie etniche serbe e croate, che pure avvenivano sotto i nostri balconi. Quasi tutta l’informazione e la politica si attennero alla rappresentazione del ‘conflitto etnico’ per il quale tutti erano colpevoli (e nascosero il ruolo della Croazia di Tudjman, in precedenza celebrato come il campione della cristianità e del liberalismo opposto all’Oriente ‘serbo-comunista’); virarono all’improvviso quando gli americani decisero di intervenire; e infine preferirono non vedere la violenta espulsione di duecentomila serbi dalla Kraijna, il prezzo per il quale la Croazia mollò la presa sul pezzo di Bosnia che di fatto aveva annesso. Beninteso, l’intervento Nato obbediva innanzitutto a una priorità geopolitica, affermare sul campo il diritto dell’Alleanza di estroflettersi fuori dai propri confini. Ma pose fine ad una guerra che aveva prodotto centomila morti, per i due terzi Musulmani o jugoslavisti. Ora il revisionismo suggerisce implicitamente che l’intervento fu un errore, sarebbe stato meglio se la Nato avesse lasciato il conflitto al suo decorso “naturale” e si fosse combattuto fino all’ultimo Musulmano. Un tempo era la tesi di vari orecchianti, oggi pare annunciare il nuovo ‘realismo’ politically correct.

(da “Il Fatto Quotidiano”)