I crimini del colonialismo fascista in Etiopia

Avvenire, 20 settembre 2019

Primavera 1936: l’esercito italiano marcia su Addis Abeba e spazza via in pochi giorni il derelitto esercito del Negus etiopico Hailé Selassié. Il 9 maggio Mussolini annuncia trionfalmente la nascita dell’Africa orientale italiana, con l’Etiopia unita alla Somalia e all’Eritrea. La retorica del regime fascista voleva vendicare a tutti i costi la sconfitta di Adua, risalente a quarant’anni prima, e reclamare la conquista di un piccolo e anacronistico “posto al sole” tra le grandi potenze europee. Considerato il divario tra le forze in campo la vittoria italiana era certa fin dall’inizio, eppure Mussolini autorizzò ugualmente l’uso di armi chimiche con effetti devastanti sulle truppe nemiche e sui civili. I crimini compiuti dal colonialismo italiano in Africa restano una pagina poco nota della nostra storia recente, peraltro a lungo ammantata dai confortanti stereotipi degli “Italiani brava gente”. Così si intitolava anche un importante libro di Angelo Del Boca, uscito alcuni anni fa, nel quale il grande storico del colonialismo italiano confutò quel mito una volta per tutte dimostrando – documenti d’archivio alla mano – che la conquista dell’Etiopia fu un’inutile aggressione macchiata anche dall’uso di armi chimiche. Ma certe convinzioni sono dure a morire, se è vero che ancora oggi c’è chi continua a considerare la campagna d’Africa un’impresa eroica. Appare quindi assai utile e opportuna l’uscita di un libro come Cronache dalla polvere (Bompiani), un progetto sperimentale a più mani che racconta in forma inedita l’avventura coloniale del fascismo in Africa. Dietro la firma della fantomatica autrice Zoya Barontini si cela in realtà un gruppo di narratrici e narratori italiani il cui nome collettivo è un omaggio a Ilio Barontini, il partigiano che addestrò e organizzò la resistenza in Etiopia, mentre Zoya è un tipico nome femminile etiope che significa “alba” o “aurora”. I loro racconti non si focalizzano sulla guerra coloniale ma affrontano il periodo immediatamente successivo alla conquista e all’occupazione militare, ricostruendo un ritratto ben poco glorioso del nostro passato recente. Come hanno dimostrato inequivocabilmente anche altri storici, l’impero fascista in Africa fu tanto sgangherato quanto crudele, con villaggi rasi al suolo, stragi insensate e l’uso di gas micidiali come l’iprite. Negli stessi anni in cui il regime di Benito Mussolini propagandava con successo la teoria della “supremazia razziale” dei bianchi. Un momento di svolta si ebbe dopo l’attentato del 19 febbraio 1937 al viceré Rodolfo Graziani: la feroce rappresaglia scatenata dal nostro esercito sfociò nel massacro del monastero di Debra Libanos, costato la vita a migliaia di civili e a centinaia di religiosi. Cronache dalla polvere contiene undici racconti intrecciati tra loro che compongono una narrazione a più facce curata da Jadel Andreetto, che diventa quasi un graphic novel con le illustrazioni di Alberto Merlin. Da un racconto all’altro si susseguono gli stessi personaggi, dando un senso di coesione alla raccolta. Nel gruppo di autori e autrici figurano, tra gli altri, Igiaba Scego, Gaia Manzini, Davide Morosinotto e Lorenza Ghinelli.
RM

Wole Soyinka: “liberare la libertà”

Intervista al premio Nobel per la letteratura Wole Soyinka
(Avvenire, 23.5.2018)

Due anni fa Wole Soyinka strappò il suo permesso di soggiorno e decise di abbandonare per sempre gli Stati Uniti dopo l’elezione di Donald Trump, in segno di protesta per le sue politiche anti-immigrati. Dopo aver lottato tutta la vita per la libertà – spiegò – non sopportava di vedere un presidente statunitense che erigeva muri “non solo nelle menti degli americani, ma in tutto il mondo”. Si interruppe così, con un gesto plateale, un esilio durato due decenni che aveva visto il più famoso intellettuale africano contemporaneo insegnare in un numero imprecisato di università e istituzioni statunitensi. Soyinka si è sempre battuto con coraggio in difesa delle proprie idee, denunciando apertamente gli orrori del suo paese, dal genocidio del Biafra al terrorismo odierno di Boko Haram. Dagli anni ‘60 è protagonista delle lotte contro i soprusi e le violenze delle dittature africane: durante la guerra civile nigeriana fu accusato di cospirazione con i ribelli del Biafra per aver pubblicato un articolo che invitava a cessare il fuoco e finì in cella di isolamento per 22 mesi. Negli anni ‘90 venne a lungo perseguitato e infine condannato a morte e costretto all’esilio dalla dittatura militare di Sani Abacha. Nigeriano di etnia Yoruba ma da sempre pervaso da un profondo senso di appartenenza all’intero continente africano, Soyinka è un intellettuale estremamente poliedrico – drammaturgo, romanziere, poeta, saggista – che nel 1986 divenne anche il primo africano insignito del premio Nobel per la letteratura. Da quando ha lasciato gli Stati Uniti è tornato a trascorrere gran parte della sua vita in Nigeria, dividendosi tra Abeokuta, la città che gli ha dato i natali nel 1934, e la capitale Lagos, dove l’abbiamo raggiunto al telefono per questa intervista, rilasciata in occasione del suo nuovo arrivo in Italia. Sabato 26 maggio Soyinka riceverà infatti il premio internazionale “Dialoghi sull’uomo” all’omonimo festival di antropologia del contemporaneo che si svolge a Pistoia.
Da sempre lei sostiene la necessità di un dialogo tra l’Africa e l’Europa. Come mai finora non è stato possibile?
Perché per adesso più che un dialogo abbiamo avuto piuttosto un monologo, dove a parlare era soltanto l’Europa, o comunque il mondo occidentale. Purtroppo non c’è mai stato uno scambio o un riconoscimento reciproco che prendesse atto delle condizioni economiche profondamente cambiate negli ultimi tempi, bensì un confronto mono-direzionale. Lo vediamo con la risposta che l’Europa dà alle istanze che arrivano dall’Africa, e che rappresentano criticità in tutti i campi, dal commercio, alla cultura, alle questioni umanitarie. Ovviamente anche i leader africani hanno le loro responsabilità. È un peccato, perché un dialogo tra pari favorirebbe non poco lo sviluppo delle relazioni umane.
In che modo è cambiato il concetto di libertà in un mondo sempre più connesso come quello nel quale stiamo vivendo?
Senza dubbio la crescente connessione, non solo in tempi recenti, ma direi a partire dall’epoca post-coloniale, ha definitivamente approfondito e favorito la causa della libertà. Lo dimostra il proliferare di studiosi, scrittori e intellettuali, e anche di politici progressisti, provenienti dal continente africano nell’ultimo mezzo secolo. Dopo la decolonizzazione, una volta raggiunta l’indipendenza, le singole nazioni africane hanno dovuto affrontare il cosiddetto colonialismo interno, nelle relazioni tra i leader africani e le rispettive popolazioni. Gli attivisti politici e le forze progressiste hanno potuto però ispirarsi all’esempio degli ex colonizzatori e dire ai tiranni, ‘perché non offrite anche a noi quei modelli di partecipazione che contemplano una maggiore libertà di espressione e associazione?’. Tuttavia le grandi opportunità offerte da Internet non sono esenti da rischi.
Ovvero?
Prendiamo per esempio quanto accadde con le cosiddette “Primavere arabe”. È chiaro che gran parte di esse sono state favorite proprio da internet e dalla connettività. In molti casi si è riusciti a cacciare i dittatori, a scoprire e a denunciare i loro crimini e le loro ruberie in un modo che in passato non sarebbe stato possibile. Molti di essi si erano limitati a sostituire i vecchi imperi coloniali con imperi personali. Non dobbiamo però illuderci che il potere ci consenta sempre di usare il massimo della tecnologia, poiché ci saranno sempre delle limitazioni. Inoltre Internet ha favorito anche il proliferare di notizie false o distorte, e purtroppo a volte la democratizzazione della tecnologia ha fatto finire il potere nelle mani delle persone sbagliate, aumentando quindi i rischi in termini di oppressione politica.
Nel suo saggio “Smurare la libertà”, lei sostiene che la religione rappresenta uno spazio di libertà. Come spiega che oggi le persone siano sempre più spesso impaurite dalla religione?
Innanzitutto ci tengo a fare una distinzione tra la religione e la spiritualità, talvolta innata, delle persone. Quando questa spiritualità, qualunque forma essa abbia assunto, è costretta in uno strumento di controllo degli esseri umani, prima o poi si sviluppano forme di fondamentalismo estremamente pericolose, che sono capaci di distruggere la società e il dono individuale della scelta. E di conseguenza, tutti quelli che dissentono diventano automaticamente nemici da perseguitare, torturare, decapitare. Mi riferisco ovviamente al fondamentalismo dilagante di gruppi come Isis (anzi Daesh, questo è il nome che preferisco di gran lunga), Al-Shabaab, Al Qaeda, Boko Haram. Quando la religione è usata come uno strumento per soffocare, diventa un’espressione di tirannia.
Qual è la radice dell’intolleranza religiosa nel suo paese?
È stata portata dall’esterno. Non esiste alcuna forma di fanatismo nella tradizione religiosa degli Orisha, le divinità dell’Africa occidentale, che è tipica degli Yoruba, il mio popolo. È una religione ecumenica, del tutto priva di fanatismo, al cui interno non c’è nessuno spazio per l’estremismo. Quelli di Boko Haram sono barbari che vogliono islamizzare la nazione, il cui fondamentalismo religioso si unisce a una sete smisurata di risorse petrolifere. Poi ci sono anche molti politici corrotti che cercano di manipolarlo, quell’estremismo religioso.
In luglio cadrà il centenario della nascita di Nelson Mandela, al quale lei dedicò il suo discorso del Nobel, denunciando la segregazione razziale in Sudafrica. La sua lotta è stata una fonte di ispirazione anche per lei?
Proprio la settimana scorsa sono stato a Johannesburg e ho partecipato a un’iniziativa per il centenario di Mandela. In un certo senso è stato il mio fratello maggiore, ma forse io ero già troppo vecchio perché potessi trarre ispirazione da lui. Penso che in primo luogo Mandela sia stato – e sia ancora – un modello di possibilità, una giudiziosa combinazione di combattività e di compassione umana che ha reso possibile il progresso dell’umanità verso una società nonviolenta, da raggiungere attraverso la libertà e la dignità umana. Era assolutamente privo della sete di potere che è invece una delle piaghe di molti leader africani.
RM

Auschwitz in Africa

da “Avvenire” di oggi

C’è un “cuore di tenebra” alle radici delle ideologie che portarono allo sterminio nazista, una vicenda coloniale di conradiana memoria che ha insanguinato l’Africa tra la fine del XIX e gli albori del XX secolo e ha spianato la strada all’Olocausto sia sul piano teorico che su quello pratico. È quanto sostengono David Olusoga e Casper Erichsen, autori di “Kaiser’s Holocaust”, il libro che ricostruisce in modo dettagliato e aggiornato la storia e le implicazioni del genocidio dei popoli indigeni dell’attuale Namibia – gli Herero e i Nama – da parte della Germania guglielmina. Il materiale inedito reperito negli archivi nazionali namibiani consente ai due storici di confermare che molte delle idee criminali di Hitler affondano le proprie radici nel colonialismo africano del Secondo Reich. E che analogamente, esistono diversi punti in comune tra le tecniche di genocidio usate in Africa dagli eserciti del Kaiser e i ben più noti metodi impiegati dai nazisti. Tra il 1904 e il 1909 le truppe di Gugliemo II spazzarono via decine di migliaia di indigeni delle tribù Herero e Nama per offrire nuovo “spazio vitale” alla Germania. Uno sterminio di massa che fu favorito e giustificato sul piano morale dalle teorie del razzismo scientifico e dalle letture più distorte del Darwinismo sociale di fine ‘800. Fu proprio così, sostengono i due storici, che i colonizzatori tedeschi riuscirono a mettere da parte la morale cristiano-giudaica della compassione per i più deboli e a considerare le tribù africane come esseri inferiori e subumani. “I fucili e la forca sono armi accettabili perché distruggendo razze inferiori si offriranno nuove terre e nuovi beni alle razze più forti”, sentenziava l’accademico Friedrich Ratzel, uno dei primi a parlare del Lebensraum, lo spazio vitale, e ad auspicare che i tedeschi l’ampliassero con qualsiasi mezzo. Continua a leggere “Auschwitz in Africa”

Bastano poche pagine per raccontare l’orrore più grande

Si chiama “Piccola anatomia di un genocidio – Auschwitz e oltre” l’ultimo libro di Niccolò Rinaldi, scrittore dalla penna e dalla sensibilità non comuni, che ci ha già regalato pagine importanti sull’Islam, sull’Afghanistan e sull’Africa. È un racconto emotivo che si legge in un soffio, ma che lascia qualcosa dentro e riesce, in meno di un centinaio di pagine, a scavare dentro l’anima dell’Olocausto attraverso un lungo viaggio a tappe che arriva fino ai giorni nostri. Una lettura che personalmente consigliamo a tutti, giovani e vecchi, esperti e disinformati, perché lascia il segno nella già vasta letteratura sull’argomento. L’autore, insieme a Renzo Bandinelli e a Daniel Vogelmann, lo presenterà domenica 25 gennaio alle 10,45 presso la Sala Servi della Comunità Ebraica di Firenze (via Farini 4) in occasione delle celebrazioni organizzate per il Giorno della Memoria 2009.