Ruanda, aperto il processo contro il finanziatore del genocidio

Erano molti, ormai, a temere che questo processo non ci sarebbe mai stato. Invece nelle scorse settimane il Tribunale penale internazionale di Arusha ha aperto finalmente il procedimento a carico di Félicien Kabuga con molteplici accuse risalenti al genocidio del Ruanda. Ormai 86enne, latitante per oltre un quarto di secolo, Kabuga si è rifiutato di comparire in aula ma i giudici hanno ordinato che il procedimento andasse avanti. Negli anni in cui era stata chiamata a seguire il dossier sul genocidio in Ruanda, Carla Del Ponte non ha mai avuto dubbi sul ruolo di primissimo piano svolto da Kabuga. La sua leggendaria latitanza, durata oltre un quarto di secolo, si è conclusa il 16 maggio 2020 in un sobborgo di Parigi dove l’uomo si è infine arreso agli investigatori francesi dopo aver cambiato decine di residenze in tutto il mondo, avvalendosi di un numero imprecisato di identità e di passaporti. Continua a leggere “Ruanda, aperto il processo contro il finanziatore del genocidio”

Il diario di Jean Paul, un tutsi 26 anni dopo

Avvenire, 17 settembre 2020

“Iye tubatsembatsembe!, Iye tubatsembatsembe!”(“Uccidiamoli tutti!, Uccidiamoli tutti!). Dopo tanti anni quelle grida terribili risuonano ancora nella mente di Jean Paul Habimana. In quel giorno di fine aprile del 1994 la parrocchia di Shangi, nella diocesi ruandese di Cyangugu dove aveva trovato rifugio insieme alla sua famiglia e ad altre persone di etnia tutsi, furono assediate dalla milizia paramilitare hutu degli Interahamwe. Erano armati fino ai denti con fucili, granate, mazze, machete e la loro furia omicida non si fermava neanche di fronte ai luoghi sacri. All’epoca Jean Paul aveva solo dieci anni e quel giorno la sua vita cambiò per sempre. “Iniziai a correre per salvarmi ma fui travolto dalla folla in fuga e inciampai. Mi ritrovai faccia a terra, mi caddero addosso i corpi dei fuggiaschi colpiti. Rimasi immobile, sotterrato dai cadaveri per un tempo che mi parve infinito. Chi chiedeva aiuto veniva freddato all’istante”. Continua a leggere “Il diario di Jean Paul, un tutsi 26 anni dopo”

Aleppo. Dove è morta l’umanità

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di Cecilia Dalla Negra e Fouad Roueiha

Il 13 dicembre, dopo quasi 4 anni e mezzo dalla divisione della città, la parte est di Aleppo si avvia a tornare sotto il controllo del regime di Damasco. Cade l’Aleppo dell’Università della rivoluzione, quella del Consiglio Locale e degli esperimenti di democrazia, quella di emittenti libere come Radio Hara o Nasaem Souria.
Cade l’Aleppo eroica che ad agosto aveva rotto il primo assedio che le era stato imposto grazie ai civili che avevano creato una no fly zone dal basso, prodotta dalla coltre nera di centinaia di pneumatici bruciati per oscurare il cielo ed impedire i bombardamenti.
La battaglia per quella che era la più popolosa città della Siria e una tra le più antiche ancora abitate al mondo, si è conclusa con 4 mesi d’assedio e 3 settimane di martellanti bombardamenti da parte dell’aviazione siriana e russa, mentre sul terreno avanzavano le truppe governative affiancate dal libanese Hezbollah e decine di milizie irregolari siriane, irachene ed altre sostenute dall’Iran. Nessuna arma, a eccezione dell’atomica, è stata risparmiata: dai missili balistici a quelli anti-bunker, dalle armi chimiche a quelle incendiarie e termobariche, fino ai barili bomba e alle munizioni a grappolo. Continua a leggere “Aleppo. Dove è morta l’umanità”

Shoah-Ruanda: orrori a confronto

Ci sono tanti, troppi punti in comune tra il genocidio del Ruanda – di cui ricorre adesso il ventennale – e l’Olocausto, che fino a non molto tempo fa veniva considerato un evento unico e quindi incomparabile nella storia recente dell’umanità. Evidenziare le analogie e le somiglianze tra questi due orrori non è un esercizio accademico né una sterile comparazione tra contabilità delle vittime e atti di brutalità. È piuttosto un’esigenza dettata dalla memoria e dal bisogno di comprendere le responsabilità e le cause di due eventi che risultano assai meno distanti del mezzo secolo di storia che li separa. In un saggio breve ma intenso, Shoah, Ruanda. Due lezioni parallele (Giuntina), Niccolò Rinaldi declina in modo efficace l’inevitabile parallelismo tra i due maggiori orrori del XX secolo, senza scordare le inevitabili differenze. Shoah RuandaLa prima e più eloquente di queste sta nella modalità: le vittime dell’Olocausto morirono nelle camere a gas, nei forni crematori e nei campi di concentramento; in Ruanda fu invece distrutto circa un milione di vite umane a colpi di machete, oppure bruciando gruppi di persone chiusi in chiese o scuole, o ancora seppellendo i vivi e i morti insieme. Differente è stata anche la presa di coscienza post-genocidio, poiché nel caso del Ruanda non c’è ancora stata una condanna unanime, al contrario di quanto è accaduto invece per l’Olocausto. Rinaldi – esperto di “memorie” e già autore di altri libri importanti su Afghanistan e Africa – delinea invece il parallelismo Shoah-Ruanda attraverso un caleidoscopio di parole attorno alle quali fa ruotare una narrazione che non scade mai nella retorica. Parole che hanno in alcuni casi un significato opposto (crudeltà e pietà, oblio e memoria, revisionismo e riconoscimento, rassegnazione e resistenza) e che rappresentano i punti di partenza di un percorso di approfondimento che risulta assai utile per fugare una volta per tutte l’equivoco più pericoloso: considerare ciò che è accaduto in Ruanda vent’anni fa uno “scontro tribale”, come a lungo l’Occidente  ha volu­to credere. Fu invece anch’esso, al pari della Shoah, uno sterminio pianificato basato su divisioni antiche e causate da politiche che, finita l’epoca colonialista, non hanno mai smesso nei fatti d’essere colo­nialiste, sostituendo il dominio territoriale con il con­trollo e lo sfruttamento economico. Dagli anni ’50 in poi il Ruanda è stato violentato per decenni da studiosi e da antropologi che hanno raccontato la storia del paese in termini di guerra tra razze, e a lungo le tradizioni del piccolo paese africano sono state demonizzate e occultate dagli hutu che le attribuivano solo alla cultura tutsi. È quindi confortante che in questi ultimi anni sia apparsa una nuova generazione di storici capace di fornire un’altra lettura della storia antica ruandese, non basata su pregiudizi razzisti ma su un passato comune. La tragedia del Ruanda conferma purtroppo che affermare “mai più” non basta per evitare gli orrori del passato. “C’è poco da stare tranquilli – conclude Rinaldi – ma se conosciamo siamo tutti più forti”.
RM

Bastano poche pagine per raccontare l’orrore più grande

Si chiama “Piccola anatomia di un genocidio – Auschwitz e oltre” l’ultimo libro di Niccolò Rinaldi, scrittore dalla penna e dalla sensibilità non comuni, che ci ha già regalato pagine importanti sull’Islam, sull’Afghanistan e sull’Africa. È un racconto emotivo che si legge in un soffio, ma che lascia qualcosa dentro e riesce, in meno di un centinaio di pagine, a scavare dentro l’anima dell’Olocausto attraverso un lungo viaggio a tappe che arriva fino ai giorni nostri. Una lettura che personalmente consigliamo a tutti, giovani e vecchi, esperti e disinformati, perché lascia il segno nella già vasta letteratura sull’argomento. L’autore, insieme a Renzo Bandinelli e a Daniel Vogelmann, lo presenterà domenica 25 gennaio alle 10,45 presso la Sala Servi della Comunità Ebraica di Firenze (via Farini 4) in occasione delle celebrazioni organizzate per il Giorno della Memoria 2009.

La rinascita del Ruanda

(Articolo uscito su “Avvenire” di oggi)

Chi la conosce bene l’ha definita un “Primo Levi africano”: uno dei testimoni principali del più grave crimine contro l’umanità commesso dopo la seconda guerra mondiale. Yolande Mukagasana è scampata per miracolo al genocidio del 1994 in Ruanda, nel quale ha perso tre figli e il resto della sua famiglia, sopravvivendo alla mattanza che in appena cento giorni ha spazzato via circa un milione di vite. Da allora, l’impegno per mantenere viva la memoria e dare un futuro alle giovani generazioni del suo paese è diventato la sua ragione di vita, l’unica cosa che le consente di andare avanti. Rifugiata a Bruxelles, da anni gira il mondo per raccontare il suo calvario e parlare di riconciliazione nei luoghi di conflitto. Dell’attuale tragedia in Congo dice: “è l’ideologia del genocidio che ha oltrepassato le frontiere del Ruanda. Il valore della vita umana non esiste più di fronte agli interessi delle grandi potenze. Non è normale che i paesi africani più ricchi siano al tempo stesso quelli che hanno la popolazione più povera e quelli dove si concentra il maggior numero di conflitti”.
Nei giorni scorsi è stata in Italia, dove in un incontro pubblico a Sesto Fiorentino ha illustrato il suo sogno: creare in Ruanda una scuola per centinaia di bambini, che insegni i valori della condivisione e della solidarietà, consentendo loro di riappropriarsi della cultura ruandese. “Sarà una scuola che ospiterà i miei ventuno figli, tutti orfani del genocidio, e molti altri ragazzi che troveranno un tetto sotto il quale mangiare, dormire e diventare adulti. Per un futuro migliore è necessario occuparsi dell’educazione dei bambini, visto che è stato proprio il precedente sistema educativo a formare i carnefici”. Un progetto che costerà circa due milioni di euro e sul quale si stanno già impegnando enti locali italiani e organismi internazionali. Da tempo, per raccontare il genocidio “fantasma” del Ruanda, Yolande ha cominciato anche un’intensa attività di scrittrice. Dopo “La morte non mi ha voluta” e “Ruanda 1994”, è da poco uscito “Le ferite del silenzio”, un bel volume fotografico in bianco e nero che cerca di spiegare la follia collettiva scoppiata nella primavera di 14 anni fa. Il libro ritrae i volti e riporta le testimonianze delle vittime ma anche dei carnefici, gli estremisti Hutu, intervistati dall’autrice nelle affollate carceri di Kigali. “La ricostruzione – spiega – è possibile soltanto attraverso la verità e la giustizia, ma non grazie all’operato del Tribunale penale internazionale per il Ruanda, che ad oggi ha prodotto solo trenta condanne e cinque assoluzioni, e soprattutto non riconosce le vittime, che non possono costituirsi parte civile e devono limitarsi al ruolo di testimoni. Né prevede per loro alcun genere di riparazione. Basti pensare che le donne violentate non hanno accesso ai farmaci anti-Aids, mentre i violentatori ricevono assistenza medica nel carcere del tribunale”. Ben più importanti, a suo avviso, sono gli undicimila tribunali tradizionali “Gacaca” creati alcuni anni fa e basati sul concetto di giustizia “riconciliatrice”. “Bisogna partire dal presupposto che sia le vittime che i carnefici sono stati disumanizzati, che tutto il paese è stato privato della sua umanità. Gli assassini non sono nati assassini: lo sono diventati in seguito, a causa di una certa educazione. Dunque il modo migliore per fare giustizia è quello di riconoscere il male che è stato compiuto e punirlo, facendo sì che la gente possa riprendere a vivere insieme”. È anche grazie all’efficacia di questo tipo di giustizia che il Ruanda uscito dal genocidio appare adesso un paese moderno, uno dei pochi in Africa ad aver abolito la pena di morte, ad attrarre da anni importanti investimenti esteri e a proporsi anche come laboratorio di democrazia, grazie a un parlamento composto da una maggioranza di donne. Nei mesi scorsi il governo ruandese, con un coraggio assolutamente inedito per un paese africano, ha accusato ufficialmente alti funzionari militari e politici francesi dell’epoca di aver svolto un ruolo attivo nel genocidio, proteggendo gli assassini e ostacolando la giustizia. “Parigi ha più colpe del governo ruandese – conclude Mukagasana – e i militari francesi sono direttamente colpevoli del genocidio del 1994. La Francia ha il dovere di riconoscere le proprie responsabilità”.
RM