Ruanda, aperto il processo contro il finanziatore del genocidio

Erano molti, ormai, a temere che questo processo non ci sarebbe mai stato. Invece nelle scorse settimane il Tribunale penale internazionale di Arusha ha aperto finalmente il procedimento a carico di Félicien Kabuga con molteplici accuse risalenti al genocidio del Ruanda. Ormai 86enne, latitante per oltre un quarto di secolo, Kabuga si è rifiutato di comparire in aula ma i giudici hanno ordinato che il procedimento andasse avanti. Negli anni in cui era stata chiamata a seguire il dossier sul genocidio in Ruanda, Carla Del Ponte non ha mai avuto dubbi sul ruolo di primissimo piano svolto da Kabuga. La sua leggendaria latitanza, durata oltre un quarto di secolo, si è conclusa il 16 maggio 2020 in un sobborgo di Parigi dove l’uomo si è infine arreso agli investigatori francesi dopo aver cambiato decine di residenze in tutto il mondo, avvalendosi di un numero imprecisato di identità e di passaporti. Dopo il genocidio aveva vissuto a lungo in Kenya, a Nairobi, protetto dal presidente keniota Moi, oltre che dalla sua straordinaria ricchezza.
Secondo il giudice Del Ponte, Félicien Kabuga non era stato semplicemente un “magnate dei media”, un imprenditore miliardario che aveva legato il suo nome alla famigerata Radio Mille colline, la cui propaganda incendiaria e l’incitamento all’odio etnico avevano contribuito a scatenare i massacri. Era stato uno dei principali pianificatori del massacro di circa un milione di ruandesi, un uomo che unitosi a una ristretta cerchia di “amici” si era reso responsabile di uno dei più gravi crimini di massa del XX secolo. E per questo motivo era diventato uno degli uomini più ricercati del mondo.
Aveva agito in modo razionale, sistematico, brutale. Aveva acquisito influenza politica facendo sposare una delle sue figlie con il figlio maggiore del dittatore-presidente e un’altra con il figlio del ministro della pianificazione (anch’egli futuro complice del genocidio). L’assetto garantiva, di fatto, l’omertà e l’insabbiamento reciproco. Nella primavera del 1993 Kabuga aveva acquistato con i propri soldi e fatto arrivare in Ruanda mezzo milione di machete e altri attrezzi agricoli, assai più economici delle armi da fuoco. Poi aveva finanziato la mobilitazione parziale degli hutu in una sorta di milizia non governativa denominata Interahamwe (letteralmente “coloro che lavorano insieme”), i cui membri erano stati da lui istruiti, assistiti e sollecitati. Nel linguaggio usato ai microfoni di Radio Mille colline “lavorare insieme” era il segnale in codice per far scattare le incursioni a colpi di machete e le stragi dei tutsi. Nell’estate del 1993 l’emittente – di cui Kabuga era sia il proprietario che il direttore generale – aveva iniziato una sistematica campagna di disumanizzazione nei confronti dei tutsi, definendoli scarafaggi e propagandando il loro sterminio come un atto di patriottismo e di difesa della democrazia. Quando il 6 aprile 1994 un missile terra-aria di origine ignota abbatté l’aereo sul quale viaggiava il presidente ruandese Habyarimana, i tutsi furono accusati della sua morte (sulla quale non si è mai indagato a fondo) e lo schianto fu il segnale dell’inizio del massacro. Per poco più di tre mesi il Ruanda si trasformò in un vero e proprio inferno: centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini di etnia tutsi furono massacrati a colpi di machete e di mazza, o bruciati vivi nelle scuole e nelle chiese. La furia omicida delle milizie Interahamwe non si fermò neanche di fronte ai luoghi sacri. Oltre a un gigantesco numero di vittime si contarono poi oltre un milione e mezzo di sfollati. Fu un’ecatombe di dimensioni epocali.
Figlio di contadini del nord del Ruanda, Félicien Kabuga aveva iniziato da giovanissimo a vendere vestiti usati e sigarette nel suo villaggio, facendo fortuna con l’acquisto di terreni sui quali aveva avviato piantagioni di tè. Si era dimostrato un abile uomo d’affari capace di accumulare in poco tempo una grande fortuna. Qualche anno dopo il genocidio, molti miliziani e civili hutu sono stati arrestati e condannati a pene severe. Ma i grandi ideologi e finanziatori sono riusciti scappare dalla giustizia. Tra questi c’era anche Felicién Kabuga, nonostante la taglia di cinque milioni di dollari sulla sua testa e le indagini dell’FBI. Adesso, a quasi trent’anni dal genocidio si trova finalmente di fronte al Tribunale penale internazionale per il Ruanda di Arusha, in Tanzania, dove il procuratore Rashid Rashid gli chiederà conto del suo “ruolo sostanziale e intenzionale” nella mattanza del 1994. La difesa di Kabuga ha cercato in tutti i modi, inutilmente, di bloccare il procedimento sostenendo che la sua fragilità fisica e mentale lo rende inadatto a essere processato.
Quello del Ruanda fu uno sterminio pianificato, basato su divisioni antiche causate da politiche che, finita l’epoca colonialista, non hanno mai smesso nei fatti di essere colonialiste, sostituendo il dominio territoriale con il controllo e lo sfruttamento economico. Il lutto sul genocidio del 1994 non è stato ancora rielaborato, manca ancora una condanna unanime nei confronti dei colpevoli e una lettura della storia non basata su un passato comune. Ma il processo a Félicien Kabuga può finalmente aprire una fase nuova, consentendo al piccolo martoriato paese africano di fare finalmente i conti con la propria memoria.
RM

3 pensieri riguardo “Ruanda, aperto il processo contro il finanziatore del genocidio”

  1. CURDI E PALESTINESI: VITTIME PREDESTINATE?

    Curdi e Palestinesi, Palestinesi e Curdi…popoli oppressi, talvolta strumentalizzati, vittime predestinate quasi intercambiabili.

    di Gianni Sartori

    Non passa giorno per questi due popoli senza che altri morti si aggiungano alla lista infinita. Nelle carceri, per le strade, sulle montagne… fucilati, massacrati, soffocati dai gas tossici, bombardati, spinti a immolarsi per la disperazione…

    E c’è ancora chi si ostina a sostenerne uno dimenticando l’altro (o anche peggio: ricordiamoci di quanto scrivevano sui curdi certi “campisti” non tanto tempo fa).

    3 NOVEMBRE: ALTRI SEI MORTI IN PALESTINA

    Nel pomeriggio del 3 novembre ingenti forze militari israeliane sono penetrate nel campo profughi di Jenin e posto sotto assedio un’abitazione innescando scontri con la popolazione. Alla manifestazione di protesta i soldati rispondevano sparando (“fuego real”) uccidendo sei persone.

    Il ventinovenne Farouk Jamil Salameh, poi deceduto, era stato trasportato all’ospedale gravemente ferito all’addome, al petto e alla testa. Così come spirava a causa delle ferite inferte da pallottole reali il quattordicenne Mohammed Samer Khlouf originario di Burqin.

    Nella stessa circostanza almeno quattro palestinesi sono stati ricoverati all’ospedale, mentre altri due (A’amer Bader Halabiyadi 20 anni e Daoud Rayyan di 42) venivano ammazzati nelle ore successive.

    Il giorno prima Abdul Hafiz Yousef Rayyan di 54 anni era stato ucciso nei pressi di un posto di blocco all’entrata di Beit Ur non lontano da Ramallah. Non si conoscono invece ancora le generalità di una sesta vittima palestinese.

    Naturalmente quando si calcola il numero dei morti, una macabra contabilità, si dovrebbe tener conto anche di coloro che muoiono in seguito, a diversi giorni di distanza.

    Per esempio il sedicenne Mohamed Nuri, rimasto ferito allo stomaco negli scontri diAl Bireh (periferia di Ramallah) era deceduto alla fine di ottobre dopo un mese di sofferenze.

    Ancora alla fine di ottobre cadeva sotto i colpi dell’esercito israeliano Udai Tamini ( 22 anni) proveniente dal campo profughi diShuafat (a Gerusalemme), in fuga da una decina di giorni e accusato della morte di un soldato israeliano in uno scontro a fuoco presso un posto di blocco. E sempre a Gerusalemme un altro sedicenne era stato gravemente ferito nel quartiere sotto occupazione israeliana di Sheikh Jarrah.

    Invece Rabi Arafah Rabi (32 anni), ferito alla testa a un posto di blocco nella città di Qalqilia in Cisgiordania, era deceduto dopo qualche ora all’ospedale di Darwish Nazzal.

    E ancora: i sei palestinesi uccisi sempre nell’ultima settimana di ottobre (cinque a Nablus e uno a Nabi Saleh) a seguito dell’operazione contro un laboratorio per la fabbricazione di ordigni controllato dal gruppo “La tana dei leoni”. Soltanto due delle vittime sarebbero stati membri del gruppo, fino ad allora semisconosciuto, mentre gli altri erano manifestanti che avevano incendiato pneumatici e lanciato pietre contro i soldati israeliani. Oltre una ventina i feriti accertati.

    26 OTTOBRE: 17 CURDI AMMAZZATI NEL ROJHILAT

    In base ai dati forniti da Hengaw (organizzazione iraniana per i diritti umani) almeno 17 giovani curdi sono caduti sotto i colpi della repressione di Teheran nel 40° giorno (26 ottobre) dalla morte di Jîna Mahsa Amini. Come avviene per tradizione, nel cimitero di Seqiz dove era stata sepolta si organizzava una cerimonia in sua memoria.

    Nonostante la ferrea presenza della polizia qui si radunavano migliaia di persone, ma la loro protesta veniva duramente repressa. Ugualmente la polizia interveniva a reprimere altre manifestazioni in ricordo della giovane curda in varie località sia del Rojhilat (il Kurdistan sotto amministrazione iraniana) che dell’Iran.

    Hengaw riportava il numero di sei vittime a Mahabad, cinque a Sanandaj, tre a Baneh e altre tre a Kasrişirin e Piranşehir.

    Tra di loro almeno tre donne e tre minorenni. Due sono morte asfissiate dai gas lacrimogeni, mentre una donna è deceduta per emorragia cerebrale a causa delle manganellate). Gli altri, si presume, uccisi da colpi di arma da fuoco.

    BASHUR: ANKARA CONTRO LA POPOLAZIONE YAZIDA

    Nel Bashur (il Kurdistan posto entro i confini iracheni) si regista l’ennesimo attacco (il quarto in una settimana) da parte della Turchia ai danni della popolazione yazida. Un drone ha colpito delle auto nella regione di Shengal (nord-est dell’Irak). Non sono ancora disponibili dati precisi, ma sicuramente vi sono stati diversi feriti. Prosegue quindi l’implacabile politica del governo turco che vorrebbe scacciare i curdi yazidi da questo territorio, praticamente l’ultimo rimasto a sua disposizione. In precedenza, il 1 novembre, un altro drone turco aveva sferrato un attacco contro la località di Qubeya Hesin Meman (sempre a Shengal), storicamentemeta di pellegrinaggi. Altri due attacchi venivano segnalati alla fine della scorsa settimana, uno contro un’abitazione della regione autonoma di Xanesor (Khanasor) e un altro ai danni di un’auto nel villaggio di Cidalê (Jaddala).

    Shengal viene sistematicamente colpita dagli aerei e dai droni turchi fin dal 20217 con il pretesto di eliminare la guerriglia curda del PKK. In realtà la maggior parte degli obiettivi sono esponenti e istituzioni del Consiglio autonomo democratico di Shengal (MXDŞ) e le milizie di autodifesa YBŞ/YJŞ.

    BAKUR: ANCORA VITTIME NELLE CARCERI

    Le informazioni sono ancora incomplete, ma quello che è certo è che un altro prigioniero politico curdo si è immolato nel carcere di massima sicurezza di Ereğli (provincia di Konya, Anatolia centrale). Originario del Kurdistan “iraniano”, Yakup Brukanli (in isolamento totale dal 23 agosto) intendeva protestare contro le disumane condizioni in cui versava.

    Gravemente ferito (secondo quanto riportato da un altro detenuto, Ibrahim Sütcü, con una telefonata alla famiglia) al momento Yakup sarebbe stato trasportato in ospedale.

    Da circa dieci giorni una quarantina di prigionieri politici rinchiusi nelle celle di isolamento del carcere di Ereğli sono in sciopero della fame per protesta.

  2. LA PALESTINA NON E’ UN PAESE PER RAGAZZI

    Gianni Sartori

    All’alba del 18 ottobre il sedicenne palestinese Shadi Khoury veniva arrestato e stando – a quanto hanno dichiarato i suoi parenti – anche picchiato da una dozzina di soldati nell’abitazione della sua famiglia a Beit Hanina. Bendato, come d’uso, è stato trasportato in un centro di detenzione per essere interrogato. Senza la presenza di un avvocato o di un parente.

    Sua nonna Samia Khoury ha scritto che “Shadi è uno tra i tanti ragazzi palestinesi che vengono arrestati, torturati e imprigionati solo in quanto palestinesi, giovani palestinesi che cercano di vivere con dignità e nella libertà per il loro paese”.

    Rinchiuso in un primo tempo nel carcere di Ramleh, successivamente in quello di Damon, nell’ultima udienza in  tribunale la sua detenzione è stata prolungata fino al 14 novembre.

    Due anni fa, nel luglio 2020, la medesima sorte era toccata ai suoi genitori, Rania Elias e Suhail Khoury, conosciuti come esponenti di importanti istituzioni culturali palestinesi. Il padre è il direttore del dell’Istituto nazionale di musica, la madre del Centro culturale Yabous di Gerusalemme. Il Centro è specializzato in iniziative culturali (spettacoli teatrali, proiezione di film, festival letterari…) e opera per conservare e celebrare l’eredità palestinese e araba di Gerusalemme.

    In quella circostanza il Centro venne, stando alle testimonianze, letteralmente saccheggiato.

    Nello stesso giorno veniva arrestato anche Daoud al-Ghoul, direttore del Jerusalem Arts Network, Shafaq, sempre con sede a Gerusalemme.

    Per alcune associazioni palestinesi appariva evidente come l’intenzione delle forze di sicurezza israeliane fosse quella di “sradicare non solo la cultura, ma anche la presenza palestinese da Gerusalemme”. Parallelamente a  “demolizione di abitazioni, confisca delle terre, esecuzioni extragiudiziali e revoca della residenza per i palestinesi”.

    L’arresto di Shadi Khoury ha suscitato indignazione e il ragazzo è diventato un simbolo dell’arbitrarietà della politica israeliana, della repressione che colpisce anche i più giovani tra i palestinesi.

    Secondo “Defense for Children – Palestine” sono tra i 500 e i 700 i minori arrestati ogni anno da Israele.

    Da parte di molte associazioni solidali con la causa del popolo palestinese è partita la richiesta dell’immediata scarcerazione non solamente di Shadi, ma di tutti minori attualmente imprigionati (circa 190 su un totale di oltre 4700 prigionieri palestinesi).

    E’ invece andata ancora peggio per altri due giovani palestinesi rimasti, rispettivamente, il primo ucciso e l’altro gravemente ferito il 5 novembre a Ramallah (Cisgiordania) durante uno scontro con i soldati. Gli israeliani avevano aperto il fuoco sui due giovani intenti a lanciare pietre sui veicoli militari in transito e il diciottenne Mos’ab Nadal, originario del villaggio di Sinjil, è deceduto dopo essere stato colpito al petto da una pallottola.

    Gianni Sartori

  3. SEGNALI PROMETTENTI PER LA COOPERAZIONE TRA AMBIENTALISTI E DIFENSORI DEL DIRITTO DEI POPOLI

    Gianni Sartori

    Recita un antico proverbio, a volte citato come basco o bretone, altre come gallese o tirolese (insomma: universale): “Il pessimista è un ottimista che si è informato”.

    Oggi come oggi aver perso le speranze mi pare legittimo.

    Perlomeno da parte di chi sognava “terre nuove, mondi nuovi”. Con un percorso (a volte contorto e non privo di contraddizioni) iniziato magari nel 1966 (vedi l’alluvione di Firenze, ma confesso che scoprendo la mia giovane età venni rispedito a casa dagli scout a cui abusivamente mi ero aggregato) e proseguendo tra alti e bassi a fino a Genova 2001 (ah! L’odore dei gas CS al mattino…) e oltre…

    E tuttavia qualcosa, un briciolo di speranza, rimane. Magari pensando a persone come Greta Thunberg che – se pur giovanissime – danno l’impressione di aver preso ben più che “coscienza” dei problemi planetari.

    Un raggio di luce nelle tenebre.

    Quanto a quella parte di “sinistra” che storce la bocca direi soltanto di prendere esempio dalla attivista svedese su due questioni fondamentali: la scelta vegetariana e il boicottaggio degli aerei. Sarebbe comunque un buon inizio.

    Il mese scorso, insieme con altri ambientalisti, Greta aveva partecipato a Stoccolma a una manifestazione di protesta per l’assassinio di Nagihan Akarsel, la giornalista e femminista curda uccisa il 4 ottobre nel Kurdistan del Sud da una squadra della morte.

    Dichiarando apertamente che “le nostre lotte non sono scollegate”.

    Mi pareva cosa buona e giusta voler coniugare le questioni ambientali, drammaticamente incombenti, con quelle dei diritti dei popoli.

    Altro segnale confortante è venuto con la manifestazione di Vienna “per la Pace e la Giustizia climatica” contro la dipendenza dai combustibili fossili (26 novembre) nel quadro della marcia per il clima (climate strike).

    Vi hanno partecipato – insieme a diverse centinaia di attivisti per il clima e organizzazioni della sinistra austriaca – anche Feykom (associazione dei curdi che vivono in Austria) e movimenti solidali con lotta di liberazione curda.

    Tra cui gli attivisti viennesi della campagna internazionale “Rise Up 4 Rojava” che promuove la costituzione di un ampio fronte di solidarietà con il Kurdistan. Sostenendo che “il movimento per la giustizia climatica e quello di solidarietà con le lotte in Iran e in Kurdistan devono operare congiuntamente”.

    Nel suo intervento un portavoce di Rise Up 4 Rojava ha spiegato che “i regimi turco e iraniano si approfittano della dipendenza dell’Europa dal petrolio e dal gas”. Per questo vengono non solo tollerati, ma addirittura “corteggiati” anche dall’Austria. Recentemente una delegazione iraniana sarebbe giunta a Vienna per negoziare in merito al programma nucleare.

    Quanto alla Turchia, il sindaco di Vienna (Michael Ludwig) si è appena recato ad Ankara per garantire il mantenimento degli accordi di cooperazione. Così come solo qualche mese fa il cancelliere federale austriaco (Karl Nehammer) e il presidente del Consiglio(Wolfgang Sobotka) avevano incontrato Erdogan e altri esponenti del governo turco.

    Per Rise Up 4 Rojava è evidente che “per far cessare la cooperazione di Vienna con i regimi di Teheran e Ankara occorre uscire dalla dipendenza all’energia fossile”.

    Si è addirittura spinto oltre un portavoce di “System Change Not Climate Change” invocando l’espropriazione delle società per l’estrazione e la commercializzazione dell’energia fossile
    (vedi “Der Fachverband der Mineralölindustrie – FVMI”, l’Associazione dell’industria dell’olio minerale).

    Ma allora c’è ancora qualche speranza? Forse…

    Gianni Sartori

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