“Ho i documenti, papa Francesco collaborò con i dittatori”

Lo scrittore e giornalista argentino Horacio Verbitsky conferma le responsabilità del nuovo pontefice negli anni del regime dei generali: “Le carte che ho trovato non lasciano dubbi. Da parte sua nessuna richiesta di perdono, solo ambiguità. La sua elezione è una disgrazia per l’Argentina e il Sudamerica”

Intervista di Giampiero Calapà uscita su Il Fatto Quotidiano di oggi

“Una disgrazia, per l’Argentina e per il Sudamerica”. È feroce il giudizio di Horacio Verbitsky, intellettuale, scrittore e giornalista di Buenos Aires, su Jorge Mario Bergoglio eletto papa della Chiesa cattolica. Verbitsky – autore di venti libri tra cui Il Volo (che riporta la confessione del capitano Scilingo sui voli della morte) – è il principale accusatore di Bergoglio: il neo pontefice, per lo scrittore – come ricostruito e documentato nel capitolo “Le due guance del cardinale” del suo libro L’isola del silenzio – “è stato collaborazionista della dittatura argentina dei generali”.
Verbitsky, Bergoglio papa è “una disgrazia per l’Argentina e il Sudamerica”. Perché?
Perché il suo populismo di destra è l’unico che può competere con il populismo di sinistra. Immagino che il suo ruolo nei confronti del nostro continente sarà simile a quello di Wojtyla verso il blocco sovietico del suo tempo, sebbene ci siano differenze fra le due epoche e i due uomini. Bergoglio combina il tocco populista di Giovanni Paolo II con la sottigliezza intellettuale di Ratzinger. Ed è più politico di entrambi.
Che cosa facevano i due gesuiti Yorio e Jalics nella baraccopoli di Bajo Flores?
I gesuiti vivevano in comunità ed evangelizzavano gli abitanti dei quartieri marginali, come parte dell’impegno “terzomondista” della Compagnia di Gesù.
Per quale motivo Bergoglio avrebbe dovuto denunciarli?
Con l’avvicinarsi del golpe, Bergoglio chiese loro di andarsene, a quanto racconta lui allo scopo di proteggerli. Secondo loro, per smantellare quell’impegno sociale che disapprovava. Venne nominato superiore provinciale della Compagnia all’inusuale età di 36 anni e da quando arrivò, iniziò a svolgere un compito di sottomissione alla disciplina, a uno spiritualismo astratto. Un documento di un servizio di intelligence che ho trovato nell’archivio della Cancelleria si intitola “Nuovo esproprio dei gesuiti argentini” e afferma che, “nonostante la buona volontà di padre Bergoglio, la compagnia in Argentina non si è ripulita. I gesuiti di sinistra, dopo un breve periodo, con grande appoggio dell’estero e di certi vescovi terzomondisti, hanno intrapreso subito una nuova fase”. Si tratta della Nota-Culto, cassa 9, bibliorato b2b, Arcivescovado di Buenos Aires, documento 9. Continua a leggere ““Ho i documenti, papa Francesco collaborò con i dittatori””

Papa Francesco e i golpisti argentini

Nel suo libro “L’isola del Silenzio” pubblicato alcuni anni fa, Horacio Verbitsky, il più prestigioso giornalista politico argentino accusa il nuovo Papa di aver avuto un atteggiamento molto ambiguo con la giunta militare. Bergoglio ha sempre respinto le accuse, finché non è stato smentito dai documenti ufficiali.

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Jorge Mario Bergoglio e la dittatura argentina. Una polemica che ha accompagnato il nuovo Papa negli ultimi anni, soprattutto dopo la pubblicazione del libro “L’isola del Silenzio” scritto dal giornalista argentino Horacio Verbitsky, che per anni ha studiato e indagato sul periodo più tragico del Paese sudamericano.
Verbitsky racconta che nei primi anni ’70 Bergoglio divenne il più giovane Superiore provinciale della Compagnia di Gesù in Argentina. Entrando a capo della congregazione, ereditò molta influenza e molto potere, dato che in quel periodo l’istituzione religiosa ricopriva un ruolo determinante in tutte le comunità ecclesiastiche di base, attive nelle baraccopoli di Buenos Aires. Tutti i gesuiti che operavano nell’area erano sotto le sue dipendenze. Fu così che nel febbraio del ’76, un mese prima del golpe, Bergoglio chiese a due dei gesuiti impegnati nelle comunità di abbandonare il loro lavoro nelle baraccopoli e di andarsene. Erano Orlando Yorio e Francisco Jalics, che non se la sentirono di abbandonare tutta quella gente povera che faceva affidamento su di loro.
Verbitsky ha racconta nel suo libro che Bergoglio escluse i due dalla Compagnia di Gesù, poi fece pressioni all’allora arcivescovo di Buenos Aires per toglier loro l’autorizzazione a dir messa. Pochi giorni dopo il golpe, i due furono rapiti. Secondo quanto sostenuto dai due sacerdoti, quella revoca fu il segnale per i militari, il via libera ad agire: la protezione della Chiesa era ormai venuta meno. E la colpa fu proprio di Bergoglio, accusato di aver segnalato i due padri alla dittatura come sovversivi. Con l’accezione “sovversivo”, nell’Argentina di quegli anni, venivano qualificate persone di ogni ordine e grado: dai professori universitari simpatizzanti del peronismo a chi cantava canzoni di protesta, dalle donne che osavano indossare le minigonne a chi viaggiava armato fino ai denti, fino ad arrivare a chi era impegnato nel sociale ed educava la gente umile a prendere coscienza di diritti e libertà. Dopo sei mesi di sevizie nella famigerata Scuola di meccanica della marina (Esma), i due religiosi furono rilasciati, grazie alle pressioni del Vaticano. Continua a leggere “Papa Francesco e i golpisti argentini”

Plan Condor, entri la corte

Filippo Fiorini da Buenos Aires

Generali e colonnelli dell’ultima dittatura militare affrontano il giudizio per la rete spionistica internazionale con cui davano la caccia ai militanti delle sinistre, in combutta con gli altri golpisti sudamericani e sotto l’ala degli Stati uniti.
Non sono bastate le 5 ore di udienza con cui si è aperta questa settimana la «Causa Operacion Condor» ad elencare tutti i crimini che vengono attribuiti ai suoi 25 imputati. Ci vorrà molto tempo per farlo, ma gli esperti dicono che non ci sia fretta, perché un primo record è già stato raggiunto: dopo più di vent’anni di peripezie giudiziarie, il processo è partito ed ora la Corte non si limiterà a giudicare i resti geriatrici di qualche dittatore reso patetico dalla vecchiaia o inimputabile dalla morte, ma metterà davanti al codice penale la storia di un intero continente chiamato America, le cui mani menavano a Buenos Aires, Santiago, Rio e Montevideo, ma la cui testa pensava a Washington.plan-condor Il Piano Condor, l’Operazione Condor, o la «Superstruttura Condor», come l’ha chiamata il pm in aula, fu «un’apparato sovranazionale che – negli anni Settanta – univa reti di spionaggio, scambio d’informazioni e protocolli comuni di azione» in diversi paesi del Sudamerica, «formando squadre speciali che operavano all’interno degli stessi o venivano inviate a paesi terzi dell’area e finanche in Francia, Spagna e Svizzera». Nell’ambito di una guerra ai partiti di sinistra (poi passati alla lotta armata) questi «gruppi di para-polizia avevano il compito di localizzare e catturare gli obiettivi (leggasi «persone»), trasferendoli poi nel paese d’origine oppure eliminandoli sul posto». Una responsabilità a cui adempirono con una serie lunghissima di sparatorie in strada, autobombe in centro, avvelenamenti di mattina, rapimenti notturni e torture in sordidi seminterrati, che arrivarono ad un’efficacia quasi genocida.
Nessuna delle 103 vittime a cui il Tribunale Orale Federale Numero 1 di Buenos Aires pretende di rendere giustizia, su un totale generale di oltre 30 mila, è sopravvissuta al canto stridulo del condor. Di un’infima minoranza si sono ritrovate le spoglie, mentre la maggior parte di questo eterogeneo gruppo di sindacalisti argentini, utopisti uruguaiani, muratori paraguaiani ed ingegneri cileni «non sono né morti, né vivi. Sono desaparecidos». Lo disse tanti anni fa il più celebre degli imputati di questo giudizio: l’ex presidente de facto (un eufemismo per dire che si era dato il titolo da solo) Jorge Rafael Videla. Senza aver dismesso i baffi alla moda nazi, quest’uomo che già deve al sistema giudiziario argentino due delle sue deprecabili vite ed altri 50 anni della prossima, oggi se ne gioca un’altra con lo sguardo di chi ha perso l’arroganza ed ora invidia triste il collega cileno Pinochet o il paraguaiano Stroessner, quando sente leggere i loro nomi nella lista degli imputati ingiudicabili, poiché morti. Continua a leggere “Plan Condor, entri la corte”

Desaparecidos, i figli in Italia?

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Le Madri de Plaza de Mayo cercano anche nel nostro Paese i bambini che furono sottratti ai perseguitati dal regime argentino e adottati sotto falso nome. I casi (uomini e donne nati tra il ’75 e l’83) potrebbero essere un’ottantina. E l’inchiesta riporta alla luce le complicità dell’epoca tra la nostra ambasciata a Buenos Aires e la dittatura militare.

Se sei nato tra il 1975 e il 1983, hai origini argentine e qualcosa nella tua identità non ti convince, contattaci per favore: 06 48073300, dirittiumani@ambasciatargentina.it». L’appello è firmato dall’ambasciata di Buenos Aires a Roma e segnala ufficialmente che potrebbero essere arrivati anche nel nostro Paese bambini sottratti alle vittime della dittatura militare argentina (1976-1983). Le Madri de plaza de mayo, i cui figli per lo più giovanissimi furono sequestrati e fatti sparire in quei tragici anni, hanno ragione di credere che alcuni dei bambini sottratti a prigioniere incinte, uccise subito dopo il parto, possano essere in Italia. E li stanno cercando.
Sono almeno 500 i figli di desaparecidas iscritti con cognomi falsi all’anagrafe da persone che li hanno poi fatti crescere come figli propri senza mai rivelare loro la verità. Spesso si tratta di famiglie di militari, o vicine al regime, considerate allora ideologicamente adatte a educare un bambino lontano dal possibile contagio della sovversione. Di quei 500 ne sono stati ritrovati finora 107. Quasi tutti in Argentina, ma alcuni anche in Perù e in Uruguay.
In Italia finora i casi in esame sono tre, due uomini e una donna (ma i sospetti delle Madri riguardano un’ottantina di casi). Impossibile trovare una conferma di ciò all’ambasciata argentina, che mantiene su questo un assoluto rispetto della privacy. A occuparsi delle segnalazioni c’è un diplomatico spedito apposta da Buenos Aires, il ministro per i diritti umani Carlos Cherniak. Che spiega: «E’ stato firmato da tempo un accordo, tra l’ex ministro Frattini e il ministero degli Esteri argentino, perché la commissione istituzionale argentina che si occupa di queste indagini, la Conadi, possa avere accesso con la garanzia del rispetto della privacy agli archivi dell’ambasciata e del consolato italiani negli anni della dittatura. Quei documenti si trovano alla Farnesina e sono preziosi». La sottosegretaria agli esteri del governo Monti, Marta Dassù, è andata a Buenos Aires e ha consegnato una cinquantina di fascicoli. Un atto simbolico. I documenti sono più di 6 mila. Lì dentro ci sono nomi, date e dettagli fondamentali per scoprire la verità. In un’inchiesta difficile come questa trovare in un registro una minuscola coincidenza può essere determinante. L’ambasciata italiana ebbe complicità gravissime con il regime militare. Enrico Calamai, allora giovane console a Buenos Aires, dovette lavorare da solo e in gran segreto per consentire a perseguitati di sfuggire al sequestro. Salvò un centinaio di persone. Ma lo fece di nascosto dai suoi superiori, a suo rischio, e fu trasferito di sede in un batter d’occhio.
(da “L’Espresso” del 19 febbraio 2013)

I miei compagni gettati in mare dall’aereo e lo sguardo dei loro aguzzini 30 anni dopo

Si è aperto in Argentina il maxi processo sui crimini della giunta militare di Videla

(di Marco Bechis)

Jorge Rafael Videla, capo della giunta militare argentina dal 1976 al 1981 ha compiuto 87 anni. Sconta l’ergastolo in carcere, niente domiciliari. La sua vita si consuma dietro le sbarre, un letto singolo, il crocifisso al muro. Qualche mese fa ha confessato ad un giornalista off the record di essere il responsabile dell’uccisione di almeno 7.000 oppositori, ha riconosciuto il furto di molti neonati strappati alle madri dopo il parto, ed ha accusato la classe imprenditoriale di averlo incitato al massacro. «Abbiamo preso la decisione di farli scomparire per non provocare proteste dentro e fuori dal Paese. Ogni scomparsa può essere intesa come un mascheramento, la dissimulazione di una morte». Ma non dice altro. Nessun ex militare ha dato informazioni concrete: luoghi di sepoltura, liste di vittime e di neonati oramai trentenni che le Nonne di Plaza de Mayo stanno ancora cercando. Dopo 35 anni la violenza di quel silenzio si è fatta assordante. Ma Videla è in carcere mentre Pinochet morì nel letto di casa sua. Il fenomeno argentino dei processi e delle condanne per i crimini della dittatura è unico in Sudamerica. Continua a leggere “I miei compagni gettati in mare dall’aereo e lo sguardo dei loro aguzzini 30 anni dopo”

Mezzo secolo di carcere per Videla

L’ex dittatore argentino ha ricevuto finalmente una sentenza di condanna esemplare per il rapimento dei figli dei desaparecidos durante la dittatura.

L’ex dittatore argentino Jorge Rafael Videla è stato condannato a 50 anni di carcere per il sequestro dei figli dei desaparecidos durante l’ultimo regime militare (1976-1983). Videla, 87 anni fra meno di un mese, già condannato all’ergastolo due anni fa, è detenuto nella prigione militare di Campo de Mayo alla periferia della capitale argentina.
Insieme a Videla sono stati condannati, per lo stesso reato, altri esponenti della giunta fra i quali il generale Reynaldo Brignone, ultimo capo del regime militare, a 15 anni; e Jorge Acosta, “el Tigre”, che diresse il campo di concentramento dell’Esma, la scuola tecnica della Marina, a 30 anni. La sentenza conclude una lunghissima battaglia giudiziaria iniziata sedici anni fa dall’associazione delle Abuelas de Plaza de Mayo, le nonne dei bambini rubati ai genitori assassinati e consegnati segretamente in affidamento a famiglie di militari. Condannando Videla al massimo della pena prevista, i giudici del Tribunale hanno riconosciuto la tesi sostenuta dalle “Abuelas” e cioè che nel corso della dittutura i militari misero in atto un programma sistematico di sequestro dei bambini. Continua a leggere “Mezzo secolo di carcere per Videla”

Desaparecidos, le rivelazioni di Videla: “8000 morti? Potevamo fare di più”

di Leonardo Sacchetti

«Sette od ottomila, sì. Ma potevamo fare di più». La voce è sempre quella, anche con 86 primavere sulle spalle e in attesa di una quasi certa terza condanna all’ergastolo. Sembra un anziano come tanti altri, ma è l’ex dittatore argentino Jorge Videla a raccontare – per la prima volta – quel che la storia già sapeva e che in molti, per un verso o per un altro, fanno fatica a credere.
«Sette od ottomila» sono i numeri delle persone che lo stesso Videla conferma siano state fatte sparire tra il 1976 (l’anno del golpe militare in Argentina) e il 1983 (il ritorno, parziale, alla democrazia). Desaparecidos. «Potevamo fare di più», è l’atroce conclusione che lo stesso Videla dà del proprio operato, nella lunga conversazione raccolta dallo scrittore e giornalista argentino Ceferino Reato nel suo libro Disposizione Finale.
La confessione di Videla sui desaparecidos e che ieri ha visto un prologo con la diffusione di un video con le parole dell’ex dittatore. «Purtroppo, questo è il prezzo che il popolo argentino ha dovuto pagare per continuare ad essere una repubblica», si autoassolve l’ex militare. La «confessione» piomba sull’Argentina che continua a non dimenticare ma che la presidente Cristina de Kirchner cerca di portare sempre più avanti, sempre più lontano da quelli orrori. Anche a costo di mettere da parte la memoria, in cambio di crescita, sviluppo e lavoro.
«È difficile guardare una persona così e pensare che si tratta di un essere umano», ha detto Estela de Carlotto, presidente delle «Nonne di Plaza de Mayo», l’associazione che più sta appoggiando la politica della Kirchner. «Per di più – ha concluso la Carlotto – quest’uomo mente: dice che ci fu una guerra quando in questo Paese ci fu solo terrorismo di Stato».
Sì, perché le parole di Videla, tirate fuori dalla cella numero 5, unità 34, del carcere di massima sicurezza dentro alla caserma «Campo de Mayo» (appena fuori Buenos Aires), certificano la responsabilità dei militari e di una grossa fetta dell’imprenditorialità argentina degli anni ’70. Gente terrorizzata più dalle opposizioni di sinistra e peroniste dalla bontà dei loro prodotti.
«Fate quel che dovete fare», furono le parole dette dagli imprenditori, come ricorda Videla. Di cui, per inciso, si rifiuta di fare i nomi. «Ma subito dopo, se ne lavarono le mani». Quel «subito dopo» sono i primi desaparecidos. I primi di quei «sette od ottomila» che, per le ricostruzioni storiche e le associazioni in difesa dei diritti umani, sono quasi 30mila. Quel «subito dopo» è la politica repressiva di chi faceva sparire oppositori, politici, sindacalisti, vicini di casa, docenti e studenti «per non provocare proteste dentro e fuori il Paese», ringhia Videla nel video in cui sembra un anziano qualsiasi che, davanti a una telecamera, in polo a mezze maniche e con un chiacchiericcio da ospizio alle spalle, racconta la storiella della sua vita. E in effetti lo è: un anziano. Che ha però guidato una delle repressioni più selvagge degli ultimi 40 anni. Continua a leggere “Desaparecidos, le rivelazioni di Videla: “8000 morti? Potevamo fare di più””

Argentina, ergastolo per l’Angelo della morte

Lo chiamano “l’angelo biondo della morte”, ma di certo sarebbe più corretto definirlo “diavolo”. Riconosciuto finalmente responsabile di crimini contro l’umanità, l’ex capitano di vascello della Marina argentina Alfredo Astiz è stato condannato all’ergastolo insieme ad altri ex alti ufficiali della polizia argentina. Astiz, Jorge “Tigre” Acosta e altri dieci imputati erano sotto processo a Buenos Aires per il dramma dei “desaparecidos” durante la dittatura militare tra il 1976 e il 1983. I reati per cui sono stati condannati sono rapimento, tortura e omicidio di dissidenti nel più grande centro di detenzione e tortura di Buenos Aires, la Escuela mecanica de la armada (Esma).


Ex spia della Marina, l’ormai 59enne Astiz si guadagnò il suo soprannome “angelico” per i tratti gentili del viso, e la spietata capacità di insinuarsi tra i contestatori del regime per poi farli arrestare. È stato ritenuto responsabile, tra l’altro, di complicità nella scomparsa, tortura e uccisione delle due suore francesi Alice Domon e Leonie Duquet, e di Azucena Villaflor, fondatrice del gruppo Madri di Plaza de Majo. Astiz si era infiltrato nel gruppo che si riuniva nella Chiesa di Santa Cruz a Buenos Aires, spacciandosi per fratello di una desaparecida. In pochi mesi fece sequestrare, torturare e assassinare dodici donne che avevano l’unico torto di aver chiesto notizia dei propri familiari scomparsi.
Astiz è stato anche giudicato colpevole della sparizione di Rodolfo Walsh, che insieme allo scrittore Gabriel Garcia Maquez fondò l’agenzia Prensa Latina e che diede voce al dissenso durante la dittatura. I crimini riguardanti tutti gli imputati includono 86 casi di tortura e omicidio di desaparecidos commessi all’Esma, ora museo aperto al pubblico. Si stima che nella struttura furono detenute circa 5mila persone e che meno della metà di loro sopravvisse. Il processo, iniziato a dicembre 2009, ha visto la condanna di altri quattro imputati al carcere per periodi di pena tra 18 e 25 anni e l’assoluzione di altri due.
Alla lettura delle sentenze centinaia di attivisti, parenti dei desaparecidos e gente comune in attesa in strada ha festeggiato, applaudendo e piangendo. “Olé olé, avranno il destino dei nazisti. Dovunque andranno, li troveremo”, cantavano, definendo quello di oggi un “giorno storico per l’Argentina”. Intanto, prosegue il processo sul rapimento sistematico dei figli delle detenute nel centro, che era utilizzato anche per far partorire le donne incinte. I neonati venivano fatti scomparire e affidati in segreto ad altre famiglie.

Desaparecidos, per Massera reato estinto e condanna morale

Non si può procedere nel processo per le torture e l’uccisione di tre italiani – Angela Aieta, Giovanni Pegoraro e Susanna Pegoraro – avvenuta durante la dittatura militare in Argentina perché l’ex comandante della Marina militare argentina Emilio Eduardo Massera nel novembre scorso è morto, colpito da un ictus mentre si trovava nell’Ospedale navale di Buenos Aires. Ma per i giudici fu lui uno dei principali ideatori ed esecutori del piano di eliminazione di oppositori al regime dittatoriale che ci fu nel Paese sudamericano a metà anni settanta. L’ha deciso giorni fa la I Corte d’assise della capitale davanti alla quale Massera era sotto processo per omicidio plurimo aggravato dalle sevizie e dalle torture in relazione alle morti dei tre cittadini italiani. I giudici hanno osservato che processualmente “sono emersi molteplici, obiettivi ed univoci elementi di riscontro dell’ipotesi accusatoria – si legge nella sentenza – che individuano in Massera “uno dei principali ideatori di quel piano di eliminazione dei potenziali oppositori al regime dittatoriale instauratosi in seguito al colpo di Stato avvenuto il 24 marzo 1976, noto come “Processo di riorganizzazione nazionale”, ma anche uno dei più attivi esecutori di quel medesimo piano”.
Riconosciuto, poi, il fatto che il piano fu attuato da Massera “unitamente ad altri ufficiali della marina, facenti parte del “Grupo de Tarea 3.3.2”, mediante la costituzione presso la Escuela Superior de Mecanica de la Armada (ESMA), di un centro di detenzione clandestina, nel quale sono stati condotti, tra gli altri, i cittadini italiani Angela Aieta, Giovanni Pegoraro e Susanna Pegoraro che, sequestrati da gruppi armati, hanno lì trascorso un periodo di detenzione e, dopo essere stati sottoposti a torture, sono stati uccisi con modalità particolarmente odiose, che non hanno neppure consentito di rinvenirne le spoglie mortali”. Nonostante questa convinzione, la Corte ha dovuto pronunciare una sentenza di proscioglimento per l’Ammiraglio Massera perché i reati «sono estinti per intervenuta morte dell’imputato».