La morte di Videla e la fine dell’impunità per i dittatori

Videla, Massera, Agosti: la trinità del Demonio, i vertici di un esercito genocida che ha sterminato il proprio popolo. Che non ebbe pietà di donne e bambini, di giovani e vecchi, di laici e religiosi. Tre brutali assassini che guidarono le forze armate argentine nel più grande crimine contro l’umanità mai compiuto recentemente in tempo di pace. La storia identificherà sempre l’immane tragedia dei 30.000 desaparecidos coi loro volti, come la Shoah resterà nella storia con lo sguardo assassino di Adolf Hitler. Jorge Rafael Videla, morto due giorni fa all’età di 87 anni, è l’ultimo dei tre a lasciare questo mondo – Agosti morì nel 1997, Massera appena tre anni fa – ma è anche l’unico a trovare la morte in carcere. “L’inferno è poco”, recitava un eloquente striscione comparso in queste ore nelle strade di Buenos Aires. Di certo questa è la prima volta che un tiranno sanguinario, annoverabile a pieno titolo tra i più grandi criminali della storia del XX secolo, muore in prigione, da ergastolano. Un caso simile, anch’esso legato all’attualità di questi giorni, è quello dell’ex dittatore guatemalteco Efraín Ríos Montt, condannato a ottant’anni di carcere per genocidio: è ancora vivo ma tutto lascia pensare che finirà i suoi giorni in carcere. La morte in carcere di Videla riporta invece alla memoria, non senza rimpianto, il fatto che un assassino della medesima stazza, Augusto Pinochet, sia invece morto a 91 anni nella sua villa di Santiago, agli arresti domiciliari ma circondato dall’affetto della sua famiglia. Il macellaio cileno fu salvato dal carcere anche grazie all’amichevole collaborazione del governo britannico, che negò l’estradizione in Spagna durante il procedimento aperto contro di lui dal giudice Baltazar Garzòn. Già, perché di solito i dittatori cadono di fronte ai plotoni d’esecuzione o al fuoco nemico (basti pensare a Ceausescu, a Saddam Hussein, a Mussolini, a Hitler, ma sempre e comunque in conseguenza di un evento bellico) oppure muoiono nei loro letti (Stalin, Mao, Pol Pot e, appunto, Pinochet). È invece assai raro che muoiano in carcere. La fine di Videla rappresenta in questo senso un’eccezione e un inequivocabile segno dei tempi capace di farci ben sperare perché forse, anche se il Tribunale Penale Internazionale stenta a prendere forma concreta, la Storia ha finalmente smesso di garantire l’impunità ai dittatori.
E ora più che mai risulta indispensabile ricordare, mandare a memoria e far conoscere nelle scuole il volto e il pensiero di Videla, un feroce criminale che non ha mai mostrato il più piccolo rimorso nei confronti del suo operato. Al contrario, ha continuato fino all’ultimo a giustificare la brutalità degli anni della dittatura, defininendola una “guerra giusta”. “Nel 1975 – affermò appena tre anni fa durante l’ultimo processo che lo vide imputato – il paese era immerso nel caos creato da una cospirazione internazionale contro la democrazia. Verso coloro che pretendevano di imporre una tirannia, era necessaria una persecuzione come nei confronti dei ratti, poiché non meritavano di vivere su questo suolo. Non si è trattato di una guerra sporca, ma di una guerra giusta combattuta contro i sovversivi marxisti che, per ordine dell’Unione Sovietica, e di Cuba, la sua succursale latinoamericana, volevano sottoporre il Paese al loro sistema ideologico”.
RM

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