Sarajevo rischia di riaprire le ferite. Il separatista serbo Dodik alza il tiro

Avvenire, 28 novembre 2021

A Sarajevo hanno cominciato a chiamarla la sindrome del “giorno della marmotta”, in cui tutto si ripresenta esattamente come prima: si organizzano negoziati, si firmano accordi, si tengono elezioni e si creano nuove istituzioni ma poi tutto viene rimesso in discussione. Stavolta però l’allarme lanciato alcune settimane fa dall’Alto Rappresentante per la Bosnia-Erzegovina, Christian Schmidt, ha risvegliato fantasmi che si credevano ormai consegnati alla storia. Entrato in carica pochi mesi fa, dopo i dodici anni di mandato dell’austriaco Valentin Inzko, nel suo primo rapporto inviato al segretario generale dell’ONU, Schmidt ha denunciato molto chiaramente il rischio di un nuovo conflitto militare nel paese, definendo le iniziative del leader serbo-bosniaco separatista Milorad Dodik “una secessione non dichiarata che mette a rischio la pace e la stabilità della Bosnia e della regione” e ha precisato che “in assenza di una reazione da parte della comunità internazionale ciò potrebbe portare alla disgregazione degli accordi di pace”. Dodik è il leader indiscusso della Republika Srpska, una delle due entità che formano lo Stato della Bosnia ed Erzegovina, e da anni boicotta il governo centrale di Sarajevo avanzando rivendicazioni nazionaliste che spesso non vengono prese troppo sul serio. Ma da alcune settimane ha alzato decisamente il livello dello scontro intraprendendo iniziative pericolose e annunciando l’imminente creazione di un sistema giudiziario, fiscale, doganale e sanitario separato, nonché un esercito autonomo che replicherebbe di fatto le funzioni dell’Armata della Republika Srpska (VRS), responsabile di numerosi crimini di guerra nei primi anni ‘90. Nel settembre scorso lo stesso Dodik aveva mandato la polizia serbo-bosniaca a effettuare una minacciosa esercitazione “antiterrorismo” sul monte Jahorina (da dove le forze serbe bombardarono Sarajevo durante l’assedio del 1992-96), poi ha affermato che costringerà l’esercito bosniaco a ritirarsi dalla Republika Srpska e che, se necessario, dispone di “amici” in grado di sostenerlo. Un riferimento non troppo velato a Mosca.
Quella bosniaca è una crisi dalle radici antiche, alla quale la comunità internazionale non è riuscita mai a trovare una soluzione politica definitiva. Il recente casus belli risale all’estate scorsa, quando l’ex Alto Rappresentante ONU Valentin Inzko varò una legge che introduceva il reato di negazionismo per i crimini di guerra e genocidio scatenando il boicottaggio delle istituzioni statali da parte dei serbo-bosniaci. La Bosnia sembra scivolare lentamente su un piano inclinato che rischia di condurla in un abisso dalle conseguenze imprevedibili. Secondo molti osservatori potrebbe persino riaccendersi un conflitto che è stato spento senza portare a una vera pacificazione, lasciando il Paese profondamente diviso sul piano politico e economico. Il diplomatico serbo Ivan Vejvoda, che negli anni ‘90 fu una figura di spicco dell’opposizione democratica a Milosevic la pensa in modo diverso: “a Dodik piace molto giocare con il fuoco ma dubito fortemente che si arriverà alla secessione – ci ha detto – perché gli investimenti politici, strategici e in sicurezza fatti dall’Occidente a Dayton per far terminare la guerra in Bosnia impediranno una svolta simile”. Ma resta il fatto che se dalle minacce passerà ai fatti, violerà chiaramente quanto stabilito dall’accordo di pace sottoscritto ventisei anni fa a Dayton. Peraltro il fragile equilibrio raggiunto dal Paese nel 1995 non appare messo a rischio soltanto dalle iniziative di Dodik. Anche la riforma elettorale chiesta a gran voce da Dragan Čović, leader nazionalista dei croati di Bosnia, al fine di consentire un voto su base etnica per la presidenza tripartita bosniaca violerebbe l’intesa di Dayton dando implicitamente il via libera alla formazione di una regione autonoma croata all’interno del Paese. I tentativi di destabilizzazione messi in atto dai leader nazionalisti sono anche una diretta conseguenza del graduale disimpegno degli Stati Uniti dalla regione. A partire dal 2010, per concentrarsi sulle operazioni in Afghanistan e in Iraq, Washington ha lasciato infatti la risoluzione della crisi nelle mani di Bruxelles, che avrebbe dovuto garantire la stabilità a lungo termine dell’area facendo entrare in blocco i paesi balcanici nell’Unione Europea.

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