Quando le basi capitaliste fondano sull’agricoltura

Avvenire, 15 febbraio 2020

“Anche le patate sono immigrate”: durante la campagna elettorale per il referendum sulla Brexit questo slogan apparve sui manifesti di molti Fish&chips della Gran Bretagna. Era una risposta provocatoria ai sostenitori del “Leave”, che cercava di contrastare un voto condizionato dalla forte paura nei confronti degli immigrati. “Quel messaggio conteneva una grande verità”, spiega Rebecca Earle, docente di storia all’università di Warwick. “Ovvero che le patate, coltivate già diecimila anni fa in America Latina nella regione delle Ande, furono portate nel Vecchio Continente dai colonizzatori spagnoli solo nella seconda metà del XVI secolo. E come tutti gli immigrati, anch’esse rimasero vittime della retorica anti-immigrazione”. Inizialmente le classi agiate rifiutarono la patata preferendole un altro prodotto del Nuovo mondo, il tabacco, senza sapere ancora quanto fosse nocivo. Il tubero non era citato nella Bibbia e, secondo molti religiosi, ciò dimostrava che Dio non voleva che gli uomini se ne cibassero. La “globalizzazione della patata” – dal Perù alla Spagna, dalla Gran Bretagna al resto dell’Europa e del mondo – fu tutt’altro che un percorso semplice e lineare. Redcliffe Salaman, famoso botanico britannico del XIX secolo, la definì “lo strumento perfetto per mantenere la povertà e la degradazione”. Gli irlandesi furono gli unici ad accogliere la patata come una benedizione, come un dono di Dio che sfamava e univa le famiglie, almeno fino a quando la terribile carestia del 1845 – causata da un micidiale fungo delle patate – non li decimò e li costrinse a un esodo di massa negli Stati Uniti e in Australia. Ma di lì a poco la diffusione dell’umile tubero era destinata ad avere addirittura un impatto decisivo sullo sviluppo della civiltà umana nell’era moderna, favorendo la nascita dello stato liberale. È quanto sostiene la stessa Earle nel suo libro Potato (edito in lingua inglese da Bloomsbury), in cui quel curioso “immigrato” diventa una metafora della modernità con tutte le sue contraddizioni. “Quando la patata mise finalmente radici in Europa cominciò a non essere più tanto disprezzata e divenne anzi uno strumento fondamentale per l’affermazione del capitalismo”, spiega la studiosa. “Le classi dirigenti individuarono in essa nuove opportunità, iniziando a considerarlo il cibo migliore per quegli operai di cui l’economia industriale aveva disperato bisogno”. E pensare che in precedenza era stata ritenuta addirittura un ostacolo allo sviluppo: i colonizzatori del XVII secolo come Oliver Cromwell sostenevano che incoraggiava l’indolenza della popolazione e che i ceti più poveri accettavano di vivere in condizioni miserabili proprio perché sapevano di poter contare sulla patata per sfamarsi. Ancora ai tempi della Grande carestia irlandese il ministro del Tesoro britannico Charles Trevelyan ribadì che il male dell’Irlanda era il “sistema della patata”. Continua a leggere “Quando le basi capitaliste fondano sull’agricoltura”

Così l’Irlanda trasformò il teologo puritano

Avvenire, 30.1.2018

Dublino, 14 agosto 1649. Una folla entusiasta accoglie il comandante inglese Oliver Cromwell al suo sbarco in Irlanda con ventimila soldati al seguito. Il futuro Lord protettore del Commonwealth annuncia di essere stato incaricato dalla Divina Provvidenza di portare a termine la repressione dei “selvaggi irlandesi” che alcuni anni prima avevano osato rivoltarsi contro i coloni anglo-scozzesi. Pochi giorni prima del suo arrivo, le forze parlamentariste britanniche di stanza nell’isola avevano vinto la decisiva battaglia di Rathmines ed erano riuscite a cacciare tutti i cattolici da quella che era all’epoca la seconda città dell’Impero. Dublino era ormai una roccaforte protestante, mentre il resto del paese risultava ancora lacerato da anni di rivolte e tumulti. In appena nove mesi, la feroce campagna militare dell’esercito cromwelliano sarebbe riuscita a sottomettere l’isola al potere inglese estendendo la religione protestante in tutta l’Irlanda. Oliver Cromwell era un calvinista ortodosso, visceralmente anticattolico, e col pretesto di schiacciare una volta per tutte la ribellione degli irlandesi, cancellò in breve tempo tutti i negoziati che in passato avevano garantito qualche forma di tolleranza nei confronti del cattolicesimo, ne vietò il culto e infine bandì sacerdoti e vescovi dall’isola sotto la minaccia della pena capitale. Dette il via a una vera e propria pulizia etnica che ridusse di circa un terzo la popolazione autoctona e sottrasse ai cattolici gran parte delle loro terre, suggellando il dominio dei nuovi coloni protestanti. Quella ridistribuzione fondiaria ottenuta con il terrore e la devastazione dette vita a una classe di proprietari terrieri fedeli alla chiesa anglicana che avrebbe garantito lealtà duratura all’Inghilterra. Ancora oggi, in Irlanda, la memoria popolare ricorda la straordinaria crudeltà delle truppe di Cromwell e associa il suo nome a una delle fasi più cruente della conquista coloniale inglese. Le cronache dell’epoca raccontano che il suo esercito, il cosiddetto New Model Army, combatteva “in preda a un furore omicida”. I suoi uomini, fanaticamente ostili al cattolicesimo, consideravano la propria opera una sorta di missione religiosa tesa a estirpare con ogni mezzo la Chiesa di Roma dall’Irlanda. Prima di salpare dall’Inghilterra erano stati indottrinati dalle prediche di John Owen, un teologo puritano che li incitò a vendicare senza pietà i protestanti dell’Ulster morti nella rivolta cattolica del 1641.

Il teologo John Owen

Definito il “Calvino d’Inghilterra”, Owen aveva studiato a Oxford finché non era stato costretto a lasciare gli studi teologici a causa della sua opposizione agli statuti dell’arcivescovo Laud. Durante la guerra civile inglese si era schierato dalla parte del parlamento fino a diventare il consigliere di Cromwell nelle questioni religiose, accompagnandolo in qualità di cappellano nella campagna contro i cattolici irlandesi. Proprio quei mesi che trascorse in Irlanda sono stati analizzati sotto una luce inedita da un recente saggio di Crawford Gibben (John Owen and English Puritanism: Experiences of Defeat, Oxford University Press), che ricostruisce nel dettaglio una delle figure più importanti del puritanesimo inglese del Seicento. L’esperienza di Owen al seguito di quella brutale invasione si sarebbe rivelata talmente scioccante da spingerlo a mettere in discussione le sue stesse convinzioni, portandolo infine a rigettare ogni giustificazione religiosa della guerra. Quei mesi – racconta Gibben, che è docente di storia alla Queen’s University di Belfast – non furono uno spartiacque solo per le vittime ma anche per lui: la sua coscienza gli impedì di restare indifferente di fronte alle devastazioni, ai massacri, al caos. Nei suoi resoconti descrive “i poveri orfani dediti all’accattonaggio che soffrivano la fame in mezzo ai rifiuti nelle strade, gli uomini e le donne alla disperata ricerca di un pezzo di pane”. Mentre i soldati di Cromwell marciavano alla conquista delle città di Drogheda, di Wexford e di altri obiettivi strategici sottoponendo le popolazioni civili a terrificanti assedi, Owen cominciò a occuparsi dei sopravvissuti, nel tentativo di offrir loro una speranza nel futuro, predicò nelle chiese e scrisse trattati teologici dal taglio completamente diverso rispetto a quelli redatti anni prima. Quello che vide lo portò a riconsiderare anche il linguaggio con il quale un tempo aveva incoraggiato quella campagna. E mentre Cromwell, in preda a una sorta di delirio mistico, affermava che anche le azioni più efferate erano uno strumento della giustizia divina, Owen iniziò a domandarsi quale fosse il modo migliore per tener fede al Vangelo di Giovanni, secondo il quale “Dio non ha mandato il proprio Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma affinché il mondo sia salvato per mezzo di lui”. Fino a presentarsi davanti al parlamento di Westminster chiedere eloquentemente, “perché Gesù Cristo è in Irlanda soltanto come un leone dagli indumenti macchiati con il sangue dei propri nemici e non come un agnello cosparso con il sangue dei suoi amici?”. Sopraffatto dall’orrore di fronte a ciò che vide in Irlanda, John Owen cadde in disgrazia agli occhi di Cromwell, ma a partire dalla seconda metà del ‘600 sarebbe diventato uno dei principali teorici della tolleranza religiosa.
RM

Il museo della “Grande fame”

Per conoscere la più terribile tragedia che il Vecchio Continente abbia vissuto nell’era moderna prima dell’Olocausto basta spingersi un centinaio di chilometri a nord Dublino, nell’entroterra irlandese. Nel villaggio di Strokestown, nascosto tra i meravigliosi boschi della contea di Roscommon, all’interno di una delle più belle ville neopalladiane di tutta l’Irlanda, si trova il museo che meglio di ogni altro racconta la storia di quei terribili cinque anni che videro un milione di persone uccise dalla fame, dal tifo e dal colera, e gli altri due milioni di irlandesi costretti all’emigrazione a bordo delle “coffin-ship”, le navi bara che li trasportarono nei centri di quarantena del Canada o degli Stati Uniti. Tra il 1845 e il 1850 quello che era all’epoca il paese più sovrappopolato d’Europa fu colpito da un’ecatombe di dimensioni epocali, nota da allora come la Great Famine (Grande Carestia). Il museo che esattamente vent’anni fa è stato allestito qui per raccontarla, si trova in un luogo la cui bellezza contrasta apertamente con la drammaticità di quella storia, e col cupo dolore che evocano i documenti e gli oggetti d’epoca conservati al suo interno. La sua collocazione non è stata scelta a caso perché i giardini, i viali e gli immensi terreni circostanti alla villa sono stati uno degli epicentri di quell’immane tragedia della nostra storia recente. Alcune delle sue austere stanze, tra cui l’immensa cucina, sono state lasciate com’erano alla metà del XIX secolo, quand’erano di proprietà del maggiore Denis Mahon, un ricco latifondista inglese discendente di un avventuriero giunto in Irlanda due secoli prima, al seguito degli eserciti di Oliver Cromwell. Era lui il proprietario di tutto qui, quando un fungo sconosciuto in Europa fece marcire i raccolti di patate nell’intera isola scatenando la carestia. Continua a leggere “Il museo della “Grande fame””

Viaggio a Strokestown, alle radici della ‘Grande Carestia’

Per conoscere la più terribile tragedia che il Vecchio Continente abbia vissuto nell’era moderna prima dell’Olocausto basta spingersi un centinaio di chilometri a nord Dublino, nell’entroterra irlandese. Nel villaggio di Strokestown, nascosto tra i meravigliosi boschi della contea di Roscommon, all’interno di una delle più belle ville neopalladiane di tutta l’Irlanda, si trova il museo che meglio di ogni altro racconta la storia di quei terribili cinque anni che videro un milione di persone uccise dalla fame, dal tifo e dal colera, e gli altri due milioni di irlandesi costretti all’emigrazione a bordo delle “coffin-ship”, le navi bara che li trasportarono nei centri di quarantena del Canada o degli Stati Uniti. 20140817_155828Tra il 1845 e il 1850 quello che era all’epoca il paese più sovrappopolato d’Europa fu colpito da un’ecatombe di dimensioni epocali, nota da allora come la Great Famine (Grande Carestia). Il museo che esattamente vent’anni fa è stato allestito qui per raccontarla, si trova in un luogo la cui bellezza contrasta apertamente con la drammaticità di quella storia, e col cupo dolore che evocano i documenti e gli oggetti d’epoca conservati al suo interno. La sua collocazione non è stata scelta a caso perché i giardini, i viali e gli immensi terreni circostanti alla villa sono stati uno degli epicentri di quell’immane tragedia della nostra storia recente. Alcune delle sue austere stanze, tra cui l’immensa cucina, sono state lasciate com’erano alla metà del XIX secolo, quand’erano di proprietà del maggiore Denis Mahon, un ricco latifondista inglese discendente di un avventuriero giunto in Irlanda due secoli prima, al seguito degli eserciti di Oliver Cromwell. Era lui il proprietario di tutto qui, quando un fungo sconosciuto in Europa fece marcire i raccolti di patate nell’intera isola scatenando la carestia. Lo stesso fungo si era già diffuso in America ma senza conseguenze devastanti, per la semplice ragione che l’Irlanda era all’epoca l’unico luogo civilizzato dove oltre tre milioni di persone si cibavano soltanto di patate.
20140817_155758Quando la gente cominciò a morire, i proprietari terrieri come Mahon si preoccuparono soltanto di salvare i loro averi e fecero espellere migliaia di contadini dalle loro terre. Gli elenchi conservati nel museo riportano che dalle sue tenute furono cacciati circa undicimila disperati. Alcuni di loro ottennero almeno un posto pagato su una nave che faceva rotta verso l’America, tra epidemie di tifo e di colera che li decimarono prima ancora dello sbarco. Ma una sera d’estate del 1847, l’anno più nero della Carestia, la rabbia dei contadini si tramutò in vendetta, e uno di loro sparò a Mahon mentre tornava nella sua tenuta. La pistola che uccise il ricco latifondista è ancora conservata in una vetrina del museo di Strokestown, ed è diventata un simbolo della fine dell’economia rurale basata sulla divisione del latifondo. Come viene spiegato molto chiaramente dal percorso museale della villa, la Great Famine favorì infatti anche l’ascesa di una nuova leva di proprietari che sbarcarono da Londra e dalla Scozia prendendo il posto dei vecchi padroni. Una visita a questo museo è assai utile per rendersi conto del paradosso di crudeltà cui l’opulenta Inghilterra Vittoriana sottopose gli irlandesi, all’epoca sudditi della Corona a tutti gli effetti in seguito all’Unione dei due parlamenti. Ispirandosi ai principi del liberismo ortodosso della scuola di Manchester, i governanti inglesi si rifiutarono infatti di mandare aiuti e considerarono la carestia come un’occasione fornita dalla Provvidenza per mettere fine alla sovrappopolazione e all’arcaico sistema agrario dell’Irlanda. L’eloquenza dei numeri riportati dal materiale in mostra a Strokestown fanno capire bene il dato più terribile di tutti, e cioè che mentre centinaia di migliaia di persone morivano di fame, l’Irlanda esportava tonnellate di generi alimentari verso l’Inghilterra e la Scozia. Spulciando i registri si apprende per esempio che durante il Black ‘47, l’anno peggiore della Carestia, oltre quattromila navi cariche di grano, farina, cereali, uova e carne lasciarono l’isola con direzione Bristol, Glasgow, Liverpool e Londra.
Già dotato di voluminosi archivi costantemente aggiornati, il museo è stato recentemente allargato e arricchito con nuovi documenti, in parte digitalizzati e messi a disposizione delle scuole e dei centri di ricerca. L’esposizione è fatta invece perlopiù di libri, opuscoli, giornali e mappe d’epoca, ma anche di atti pubblici, elenchi di famiglie espulse e alcune rarissime fotografie. Impressionante, per quantità e contenuto, è poi la corrispondenza risalente a quei tragici anni: le suppliche dei contadini disperati che stanno morendo di fame e chiedono di non essere cacciati dalle loro terre e le risposte, spietate e inappellabili, dei latifondisti. In modo assai opportuno, il museo della Grande Carestia non manca di sottolineare un legame tra il passato e il presente, cercando di rafforzare la consapevolezza del pubblico nei confronti delle tragedie simili che si svolgono ai giorni nostri.
RM