Focus Storia n. 128, giugno 2017
C’è chi la chiama Great Famine (Grande Carestia), chi invece ritiene più corretto definirla Great Hunger (Grande Fame). Quella che a prima vista può apparire solo una piccola sfumatura lessicale, rivela in realtà una differenza di fondo capace di riaccendere rancori antichi e persino di innescare possibili richieste di risarcimenti a distanza di tanto tempo. Ma comunque la si voglia chiamare, quella che si verificò in Irlanda tra il 1845 e il 1850 fu la più immane tragedia avvenuta in epoca moderna nel Vecchio Continente prima dell’Olocausto. In poco meno di cinque anni, circa un milione di irlandesi furono uccisi dalla fame, dal tifo e dal colera, e altri due milioni furono costretti all’emigrazione. Le dimensioni epocali di quell’ecatombe, peraltro enormemente aggravate da un indubbio cinismo politico, avrebbero segnato per sempre i futuri rapporti con l’Inghilterra.
All’inizio del XIX secolo l’Irlanda era stata privata del proprio parlamento e costretta all’unione politica con l’isola vicina. Era dunque diventata parte integrante del potente Impero britannico e gli irlandesi erano a tutti gli effetti sudditi della regina Vittoria. All’epoca l’Irlanda era anche il paese più sovrappopolato d’Europa – oltre otto milioni e mezzo di abitanti, la più consistente densità media per chilometro quadrato di tutto il continente – e aveva enormi squilibri sociali. Non più del 20% della popolazione era composto infatti da ricche famiglie immigrate protestanti di origine inglese o scozzese mentre il restante 80% era costituito da autoctoni di religione cattolica divisi in due categorie, gli affittuari e gli operai agricoli. Al fine di favorire gli interessi dell’Impero, da almeno un secolo l’Irlanda era stata trasformata in un’enorme fattoria che riforniva di prodotti alimentari a basso costo le classi industriali britanniche attraverso un modello di sfruttamento economico studiato appositamente per impedire ai contadini di elevare il loro tenore di vita.
La patata era l’unico alimento che garantiva la sussistenza di gran parte della popolazione ma nell’estate del 1845 la rapida diffusione della Phytophtora infestans, un fungo proveniente dall’America del nord, causò la completa distruzione del raccolto e creò le premesse di una delle più gravi carestie dell’Europa contemporanea. Quando la gente cominciò a morire per le strade, i grandi latifondisti inglesi si preoccuparono soltanto di salvare i loro averi facendo espellere migliaia di contadini dalle loro terre e innescando un gigantesco esodo dal paese. In assenza di stime ufficiali è praticamente impossibile calcolare con precisione quante persone morirono di fame e malattie in quegli anni, ma gran parte degli storici e dei demografi considera attendibile la cifra di almeno un milione di morti. Quanto agli emigrati, si calcola che nello stesso quinquennio circa tre quarti delle persone che lasciarono l’Irlanda siano sbarcate negli Stati Uniti e in Canada effettuando viaggi transoceanici in condizioni disumane nelle cosiddette “navi bara” (coffin ships), dando vita alla grande diaspora irlandese. Nell’arco di una sola generazione l’isola conobbe un declino demografico senza paragoni in Europa e perse circa un terzo della sua popolazione. Anche in quegli anni l’Irlanda continuò a essere un’importante produttrice di grano e di altre materie prime che sarebbero state più che sufficienti per sfamare la popolazione, se non fossero state sistematicamente esportate in Inghilterra per pagare i debiti fondiari ai proprietari terrieri. Per questo motivo sono in molti, ancora oggi, a considerare quantomeno riduttivo sostenere che tutto ciò avvenne soltanto a causa della malattia delle patate. Le catastrofiche conseguenze della perdita dei raccolti dipesero dal contesto socio-economico di stampo coloniale e dall’atteggiamento del governo inglese, che decise di non intervenire per salvare coloro che da quasi mezzo secolo erano ormai a tutti gli effetti cittadini britannici. Per sottrarli alla morte sarebbe stato sufficiente interrompere le massicce esportazioni di generi alimentari che negli anni della Carestia proseguirono come se niente fosse dai porti irlandesi, conseguenza degli esosi affitti imposti a milioni di fittavoli poverissimi. Solo durante il cosiddetto Black ’47, l’anno più nero della Carestia, circa quattromila navi cariche di generi alimentari lasciarono l’isola con direzione Bristol, Glasgow, Liverpool e Londra.
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