Irlanda, la rivoluzione di Higgins

Avvenire, 3.10.2018

Sono trascorsi molti anni da quando Norberto Bobbio denunciò per la prima volta il cortocircuito tra etica e politica. “Il senso comune sembra aver accettato che la politica ubbidisca a un codice di regole differente e in parte incompatibile con la condotta morale” affermò il grande filosofo, le cui parole suonano oggi profetiche di fronte alla deriva cui stiamo assistendo in Italia e in altre parti del mondo. Quando nel 2014 ci capitò di incontrare il presidente della Repubblica d’Irlanda Michael D. Higgins in occasione della lunga intervista che concesse ad Avvenire, la sensazione fu quella di trovarsi di fronte a un alieno. Un poeta, un personaggio dalla grande statura morale che spiccava come un gigante nell’attuale panorama politico internazionale. Ci colpì per la sua profonda cultura e per la sua semplicità d’altri tempi, la stessa che gli irlandesi hanno avuto modo di apprezzare in questi anni in cui, pur essendo il presidente, l’hanno visto comportarsi come un comune cittadino, passeggiare con i suoi cani, fare la fila al bancomat. “In politica la penso esattamente come papa Francesco – ci aveva detto in quell’intervista – per secoli il mondo occidentale si è battuto per raggiungere una forma compiuta di democrazia. Ma adesso è condizionato dalla gestione tecnocratica di un singolo modello economico che è incapace di affrontare una gigantesca bolla speculativa, e che sta di fatto rendendo schiavo il mondo”. Grande intellettuale ma al tempo stesso uomo profondamente impegnato nella sfera pubblica, Higgins incarna alla perfezione il rapporto simbiotico che la cultura e la politica hanno da sempre nel suo paese, è l’esempio tangibile di come la letteratura e i diritti civili, la poesia e la lotta pacifista possano dialogare fino a completarsi a vicenda. Negli anni la sua opera poetica ha dato forma alle grida dei poveri, degli emarginati e di tutti i senza voce, mentre il suo impegno politico è stato improntato con coerenza a una critica radicale nei confronti delle tendenze neoliberali e populiste. Della sua ricca produzione letteraria era già uscita in Italia la raccolta Il tradimento e altre poesie (Del Vecchio editore), ma il pubblico italiano non aveva finora avuto occasione di conoscere il profilo politico di “Michael D”, come viene chiamato affettuosamente dagli irlandesi. Per colmare questa lacuna viene adesso pubblicato per la prima volta in Italia un piccolo ma significativo libro che raccoglie alcuni suoi recenti discorsi sulla pace, la cooperazione internazionale, i diritti civili e l’emancipazione femminile. Si chiama Donne e uomini d’Irlanda. Discorsi sulla rivoluzione (Aguaplano editore, traduzione e introduzione di Enrico Terrinoni) ed evoca alcuni momenti decisivi del ‘900 irlandese testimoniando la volontà di un ritorno a principi basilari dell’umanità come l’uguaglianza, la pari dignità, il rifiuto della guerra e del razzismo, la forza di schierarsi dalla parte dei deboli e di respingere ogni pensiero dominante. Pur citando alcuni snodi cruciali della recente storia dell’Irlanda (in primo luogo l’insurrezione di Pasqua del 1916) è una lettura che assume ben presto un respiro universale. D’altra parte non è un caso che persino un grande storico del XX secolo come Eric Hobsbawm abbia affermato che la rivolta irlandese ‘16 favorì e accelerò il processo di decolonizzazione, e sia stata d’esempio per altri paesi in lotta per l’emancipazione come India, Australia e Sudafrica. Higgins si sofferma sulla visione politica lungimirante ed egalitaria del movimento indipendentista e del suo leader storico, il socialista James Connolly, e usa tutta la sua autorevolezza di poeta-presidente per correggere alcune ingiustizie promosse da una storiografia di parte che – al pari di quanto accaduto per la Resistenza italiana – ha messo ad esempio la sordina al ruolo svolto dalle donne in quella rivolta che segnò l’atto fondativo dell’Irlanda moderna. Finora la storia ha infatti ingiustamente trascurato il contributo fondamentale di figure come Leslie Price, Kathleen Browne, Margaret Skinnider e tante suore cattoliche che si prodigarono in un periodo in cui l’accesso all’istruzione e alle carriere professionali era quasi precluso alle donne. Ma appare soprattutto inspiegabile, fa notare Higgins, che sia caduto nell’oblio un personaggio straordinario come Eva Gore-Booth, pacifista, suffragetta e sindacalista che si batté per i diritti delle lavoratrici e difese l’obiezione coscienza contro la coscrizione obbligatoria durante una fase storica dominata dal militarismo, come quella della Prima guerra mondiale.
Dopo aver viaggiato a lungo in America Latina prima di diventare presidente, Higgins si dice ormai convinto – citando Eduardo Galeano – che il sistema capitalista abbia sacrificato la giustizia in nome della libertà mentre il cosiddetto “socialismo reale” abbia invece sacrificato la libertà in nome della giustizia. La sfida del nuovo millennio è dunque quella di cercare di farle camminare insieme, con pari dignità. “Ci siamo avvicinati a un punto di crisi politica, sociale, culturale ed ecologica – afferma in un discorso pronunciato a Cuba – che richiede l’articolazione di nuovi modelli di coesistenza, di sviluppo e di cooperazione internazionale. Da qui la necessità di imboccare la strada di uno sviluppo socialmente sostenibile, legato alla promozione della libertà politica e dei diritti civili, lontano da ogni forma di autoritarismo”. Ormai giunto al termine del suo primo mandato, Higgins cercherà di essere confermato alle elezioni del 26 ottobre prossimo, forte di una popolarità che l’ha fatto diventare uno dei presidenti più amati nella storia dell’Irlanda. Una figura, quella del presidente irlandese, che pur essendo eletta dal popolo ha un ruolo assai limitato di guardiano della Costituzione e di rappresentante dello Stato negli affari internazionali. Ma con il potere della parola, della cultura e con il suo esempio di moralità, Higgins è riuscito a dare una lezione di umanesimo che ha varcato i confini del suo paese e ha lanciato un segnale di speranza e ottimismo per il futuro.
RM

Un centenario che ci riguarda

Intervista a Il Giornale, 8.4.2016

In Irlanda sono iniziate le commemorazioni per il centenario dell’Easter Rising, la Rivolta di Pasqua che nel 1916 diede il via al lungo processo verso la costituzione della Repubblica d’Irlanda. Ce ne parla Riccardo Michelucci, giornalista e studioso d’Irlanda, autore di Storia del conflitto anglo-irlandese. Otto secoli di persecuzione inglese (Odoya, 2009) e curatore dell’edizione italiana di The Insurrection in Dublin di James Stephens (Menthalia, 2015).

Ci può riassumere il conflitto storico nord-irlandese?
Il conflitto nordirlandese non è che l’ultima propaggine del plurisecolare conflitto anglo-irlandese, una delle guerre più lunghe della storia dell’umanità, le cui radici affondano nell’Alto Medioevo. Nel 1921, non potendo più mantenere il controllo dell’intera isola, Londra impose con la forza all’Irlanda una divisione del tutto arbitraria che ha dato vita a un’entità geopolitica artificiale – l’Irlanda del Nord – col solo obiettivo di costruire una maggioranza protestante all’interno di un paese a stragrande maggioranza cattolica per perpetuare quel dominio iniziato tanto tempo fa. Ma l’elemento religioso, almeno negli ultimi tre secoli, è stato sempre usato strumentalmente per far apparire il conflitto irlandese come uno scontro tra cattolici e protestanti. La realtà è assai più complessa e deriva le sue origini dal settarismo inculcato nei discendenti dei coloni inglesi e scozzesi che hanno sempre mantenuto il potere nella parte settentrionale dell’Irlanda, l’Ulster, peraltro l’unica parte dell’isola che ha visto uno sviluppo industriale. In Irlanda del Nord la minoranza cattolica è stata vessata per decenni, privata del lavoro, della casa, del diritto di voto. Quando negli anni ’60 ha cercato di alzare la testa per reclamare uguaglianza e parità di diritti è stata repressa senza pietà, facendo stragi di civili (vedi la “Bloody sunday” di Derry del 30 gennaio 1972), favorendo la rinascita dell’IRA e incancrenendo il problema fino ai giorni nostri.
La presunta contrapposizione di natura religiosa è una mistificazione alimentata dalla propaganda britannica, perché funzionale a far credere che l’esercito britannico abbia operato in qualità di forza d’interposizione tra due comunità in lotta. Invece i soldati e i servizi segreti di Sua Maestà hanno sempre agito in qualità di alleati di una parte – quella unionista protestante fedele alla Corona – come dimostrano gli innumerevoli casi di collusione tra i gruppi paramilitari unionisti, i servizi di Londra e la polizia britannica dell’Irlanda del Nord.
Cosa è successo nel 1916?
Un secolo fa tutta l’Irlanda era ancora una colonia britannica soggetta alle leggi di Londra e priva di un proprio parlamento. A Westminster era in corso da tempo un estenuante dibattito sulla Home Rule, l’autogoverno, che doveva garantire una prima forma di autonomia ma che secondo molti irlandesi rischiava di svilire per sempre l’identità nazionale. Tra il 24 e il 30 aprile 1916, nel breve volgere di una settimana, poco più di un migliaio di uomini e donne irlandesi dotati di coraggio e amore per la libertà, ma con scarsi mezzi militari, insorsero contro la Gran Bretagna per liberare il paese e ottenere finalmente quell’indipendenza che nei secoli precedenti si era tentato invano di raggiungere, attraverso una serie di rivolte fallite. Si cercò di sfruttare il momento di difficoltà nel quale si trovava Londra, che in quei mesi era impegnata nella Prima guerra mondiale, scegliendo il giorno di Pasqua per cercare d’identificare la rivolta e la liberazione del paese con la Pasqua di resurrezione. Per riuscirci non sarebbe stato necessario ottenere una vittoria militare sugli inglesi – cosa che nessuno credeva possibile – bensì compiere un atto di ribellione armata capace di risvegliare la coscienza nazionale. Sul piano strettamente militare la rivolta fallì e i principali leader degli insorti furono fucilati, ma il loro eroismo avrebbe cambiato per sempre la storia dell’Irlanda radicalizzando definitivamente l’opinione pubblica del paese, fino a quel momento riluttante a rivoltarsi contro gli inglesi, e dando il colpo di grazia al decadente Impero britannico.
Quali sono stati i passaggi che hanno portato alla nascita della Repubblica d’Irlanda nel 1922?
In realtà, dopo la divisione imposta da Londra che citavo prima, nel 1922 nacque soltanto il cosiddetto Stato Libero d’Irlanda, che coincide con le ventisei dell’attuale Repubblica irlandese, ed ebbe una prima forma di autonomia all’interno del Commonwealth, quindi rimase sempre legata alla Corona britannica. L’Irlanda ha avuto la sua prima costituzione repubblicana nel 1937, anche se il legame con il re fu reciso definitivamente soltanto nel 1949, con la definitiva uscita dal Commonwealth. Quindi oltre 30 anni dopo la rivolta del 1916, che gettò comunque i semi decisivi di una svolta culturale, prima ancora che politico-costituzionale.
Che significato ha, oggi, dopo cento anni la Rivolta di Pasqua?
Al netto dell’inevitabile bagno di retorica che purtroppo in queste occasioni è sempre presente, il centenario della Easter Rising è un’occasione importante per riflettere sui grandi ideali che quegli uomini e quelle donne portarono avanti a costo della loro stessa vita. Non è un caso che la Rivolta irlandese del 1916 continui ancora oggi a rappresentare uno dei momenti più alti di resistenza contro il potere coloniale e di martirio per la libertà dell’epoca contemporanea. Secondo lo storico Eric Hobsbawm il processo di decolonizzazione è stato uno dei principali progressi del ‘Secolo breve’, un processo favorito e accelerato proprio dalla Rivolta irlandese del 1916, che dette anche il colpo di grazia al decadente Impero britannico e fu d’esempio per altri paesi in lotta per l’emancipazione, come India, Australia e Sudafrica.
I ribelli di cento anni fa non sono stati soltanto d’esempio e d’ispirazione per le generazioni che vennero dopo di loro, ma hanno lasciato anche un’importante eredità grazie ai principi formulati nella Proclamazione che fu letta in pubblico da Patrick Pearse il primo giorno della rivolta. Il documento delineava il sogno di un’Irlanda che in futuro avrebbe dovuto essere un paese inclusivo, senza alcuna discriminazione di classe, di religione, di genere. Era il progetto di una nazione ideale, forse irrealizzabile, ma che sarebbe rimasto un punto di riferimento fino ai giorni nostri, purtroppo in larga misura disatteso. L’Irlanda odierna sembra infatti molto più il risultato di una sorta ‘controrivoluzione’: un paese ancora profondamente settario nel Nord e caratterizzato da una forte emigrazione e grandi disuguaglianze al sud. La riunificazione appare lontana, ed è quasi uscita del tutto dalle agende politiche di quei partiti che un tempo la consideravano imprescindibile. È accaduto qualcosa di simile in molti paesi usciti da esperienze coloniali: alla liberazione nazionale è subentrato una sorta di tradimento nazionale. Il centenario rappresenta un’occasione per ricollegarsi a quegli ideali e a quel progetto di emancipazione e farne tesoro per il futuro.
Quali sono state le maggiori iniziative promosse nel nord e nel sud dell’isola verde?
Da mesi sono in corso in tutta l’Irlanda grandi celebrazioni che coinvolgono lo Stato, la società civile e il mondo accademico e culturale. L’elenco completo si trova sul sito www.ireland.it. Le celebrazioni proseguiranno per tutto l’anno e segneranno un momento storico per l’Irlanda, anche se purtroppo non mancano i revisionisti. Coloro cioè che continuano a vedere nella rivolta di un secolo fa la genesi della violenza che ha insanguinato l’Irlanda del Nord in tempi più recenti.
Nell’ultimo periodo alcuni gruppi hanno ripreso la lotta armata… Cosa ne pensa?
Che sono la conseguenza inevitabile del malcontento generato in molti settori della popolazione – specie quelli economicamente più deboli ed emarginati – dal mancato raggiungimento di quegli obiettivi di cui parlavo sopra. Nessuno mette in dubbio che la politica debba essere anche compromesso, ma è evidente che l’attuale mantenimento dello status quo costituisce agli occhi di molti il tradimento di un ideale, di un sogno, di una lotta che è costata decenni di dolore e sangue.
Che futuro prevede per i repubblicani irlandesi?
È sempre difficile fare previsioni perché la politica conosce spesso sorprese e sviluppi inaspettati. Credo sia impossibile che il suddetto malcontento e l’azione dei gruppi dissidenti possano favorire un ritorno al conflitto come talvolta qualcuno ancora sostiene. La dinamica socio-politica attuale è troppo diversa da quella di 30-40 anni fa. Purtroppo il problema dello scarso spessore dei leader politici odierni che l’Europa sta soffrendo un po’ ovunque tocca anche i repubblicani irlandesi. Mi riferisco al loro maggior partito, il Sinn Féin, che non riesce a trovare un ricambio dopo essere stato guidato dalla stessa persona per oltre tre decenni. Sarà interessante capire chi succederà a Gerry Adams, e con quali obiettivi.

Irlanda 1916: Pasqua di libertà

Avvenire, 24.3.2016

Easter1916460Il foro di un proiettile esploso cento anni fa, nei giorni della grande insurrezione di Dublino della Pasqua 1916, è ancora oggi ben visibile su uno degli angeli alati che circondano il monumento bronzeo di Daniel O’Connell, nel cuore della capitale irlandese. Può sembrare quasi una tragica ironia della sorte, poiché nell’Ottocento colui che gli irlandesi hanno ribattezzato il “Liberatore” lottò per tutta la vita con metodi nonviolenti per raggiungere l’emancipazione dei cattolici del suo paese. Ma un secolo fa tutta l’Irlanda era ancora una colonia britannica soggetta alle leggi di Londra e priva di un proprio parlamento. I ribelli che insorsero contro l’Impero non avevano scelto a caso quei giorni. Volevano infatti compiere un gesto catartico capace di risvegliare la coscienza nazionale identificando la rivolta e la liberazione del paese con la Pasqua di Resurrezione. “Nel nome di Dio e delle generazioni scomparse dalle quali deriva la sua lunga tradizione nazionale, l’Irlanda per mezzo nostro chiama i suoi figli sotto la sua bandiera e lotta per la propria libertà”: così iniziava la storica proclamazione del governo provvisorio della Repubblica, letta da Patrick Pearse il Lunedì di Pasqua del 1916 davanti all’edificio delle Poste Centrali di Dublino, nell’odierna O’Connell Street. L’elemento spirituale della rivolta fu dunque scolpito nel documento su cui il moderno stato irlandese affonda le proprie radici. Per giorni, il New York Times dedicò all’insurrezione di Dublino articoli firmati da un reporter dal nome evocativo – Joyce Kilmer – che non mancò di sottolineare come gran parte dei leader degli insorti erano poeti, insegnanti e letterati che andarono in battaglia “con la pistola in una mano e un libro di Sofocle nell’altra”, mentre monsignor Michael O’Riordan, all’epoca rettore del Pontificio Collegio irlandese di Roma, raccontò in un famoso resoconto: “negli edifici occupati e difesi dagli insorti, si recitarono senza interruzione corone del rosario e altre devozioni. Nella domenica durante la sommossa, cercarono di avere un prete che celebrasse la messa per loro, onde compiere il precetto festivo”.
Eppure, la Easter Rising era stata organizzata e combattuta da un gruppo assai eterogeneo di ribelli. A Patrick Pearse, il rivoluzionario-poeta che nelle sue liriche aveva esaltato la necessità di un sacrificio di sangue per liberare il paese, aveva fatto da contraltare il marxismo di James Connolly; ai combattimenti presero parte esponenti della borghesia anglo-irlandese ma anche operai, sindacalisti, giovani e donne delle classe popolari. Nei sei giorni che seguirono la Settimana Santa di cento anni fa, i ribelli riuscirono a impadronirsi di postazioni strategiche in gran parte della città e a sfidare apertamente il potente esercito britannico, sebbene fossero soltanto una milizia male armata composta da poco meno di duemila effettivi. Alla fine furono costretti ad arrendersi, ma il loro eroismo cambiò per sempre la storia dell’Irlanda radicalizzando definitivamente l’opinione pubblica del paese, fino a quel momento riluttante a rivoltarsi contro gli inglesi. Ma dette anche il colpo di grazia al decadente Impero britannico e fu d’esempio per altri paesi in lotta per l’emancipazione – India, Australia e Sudafrica in primis – che riconobbero il valore universale della lotta irlandese. In pochi giorni, gli inglesi fucilarono i principali leader della rivolta trasformandoli in martiri agli occhi del popolo e in figure quasi leggendarie che avrebbero ispirato a lungo la letteratura contemporanea. Come il leader socialista James Connolly, che nelle sue ultime ore di vita si comunicò dopo essersi lasciato confessare in carcere e il diplomatico Roger Casement, originario di una famiglia protestante, che si convertì al cattolicesimo in punto di morte, chiedendo l’eucaristia prima di essere impiccato. Il primo a suggellare il simbolismo perfetto del loro sacrificio fu il premio Nobel William Butler Yeats nella sua famosa poesia Easter 1916. “Ora e nei tempi che verranno – scrisse con toni elegiaci – ovunque si indossi il verde / sono cambiati, cambiati completamente / è nata una terribile bellezza”. Cinquant’anni dopo, anche una grande scrittrice inglese come Iris Murdoch, nel suo romanzo Il rosso e il verde, riconobbe che i ribelli “erano rimasti giovani e perfetti per l’eternità perché si erano immolati in nome della giustizia, della libertà, dell’Irlanda”. Fino ad arrivare ai giorni nostri, quando un altro premio Nobel, il peruviano Mario Vargas Llosa, ha decantato la valenza mistica, oltre che civile, della libertà irlandese nel suo recente romanzo Il sogno del celta. Sono soltanto i casi letterari più noti – almeno in Italia – ma neanche il potere della letteratura basta per rendere giustizia al profondo significato politico e sociale che la Easter Rising continua ad avere per l’Irlanda. In questi giorni culmineranno in tutta l’isola le grandi celebrazioni del centenario che da mesi sta impegnando lo Stato, la società civile e il mondo accademico e culturale con l’obiettivo d’interpretare un evento-chiave della recente storia europea e trarne una spinta benefica per il futuro. Nel giorno di Pasqua il testo della storica Proclamazione sarà letto davanti all’edificio delle Poste centrali, poi il presidente della Repubblica Michael Higgins deporrà una corona di fiori alla memoria dei caduti, infine una grande parata militare attraverserà il centro di Dublino solcando i luoghi simbolo della rivolta di cento anni fa. Le celebrazioni proseguiranno per tutto l’anno e segneranno un momento storico per l’Irlanda, anche se purtroppo non saranno prive di malumori e polemiche a causa della ferita ancora aperta rappresentata dal Nord. Non pesano tanto le defezioni di qualche politico nordirlandese o i timori di possibili azioni eclatanti dei gruppi contrari al Processo di pace, quanto piuttosto l’ottuso revisionismo di chi continua a vedere nella rivolta di un secolo fa la genesi della violenza che ha insanguinato l’Irlanda del Nord in tempi più recenti. La speranza non può che arrivare dalle generazioni più giovani. Nelle settimane scorse tutte le classi delle scuole primarie del paese hanno ricevuto una copia della Proclamazione del 1916. Ai bambini è stato chiesto quali dovrebbero essere, oggi, le priorità per il futuro in un’ipotetica nuova proclamazione. Le risposte più frequenti? Porre fine alle ingiustizie economiche, offrire a tutti una corretta assistenza sanitaria e combattere ogni forma di discriminazione.
RM

Pasqua 1916, cronaca di una rivolta

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Avvenire, 5.2.2016

Esattamente cento anni fa, uno dei giganti della letteratura irlandese del XX secolo vide prendere forma sotto i suoi occhi la rivolta che avrebbe sconvolto Dublino nei giorni di Pasqua del 1916. Assistette ai combattimenti strada per strada tra i ribelli irlandesi e l’esercito britannico e raccontò con sguardo attonito i sette giorni che dettero il colpo di grazia al decadente Impero britannico e segnarono l’atto di nascita della moderna Repubblica d’Irlanda. Ancora oggi – a un secolo esatto di distanza –, quella che passerà alla storia come l’Easter Rising continua a rappresentare uno dei momenti più alti di resistenza contro il potere coloniale e di martirio per la libertà dell’epoca contemporanea. E James Stephens, scrittore raffinatissimo, coevo e amico di Joyce, noto per le sue riletture delle antiche leggende irlandesi ne fu un testimone d’eccezione. Come tutti gli abitanti di Dublino dell’epoca, anche Stephens non si aspettava di svegliarsi la mattina del Lunedì di Pasqua e di trovarsi la guerra in casa. Decise allora di calarsi nel ruolo di reporter della Storia e iniziò a raccogliere informazioni e sensazioni, trasformandole in un diario di quei giorni memorabili. Pubblicato per la prima volta poche settimane dopo la conclusione della rivolta, il suo The Insurrection in Dublin raccoglie una serie di cronache che descrivono con efficace immediatezza il terrore e lo smarrimento della popolazione, le reazioni dei passanti che assistono a improvvisi combattimenti nelle strade, la tensione e l’attesa di una città che diventa teatro di una ribellione che gran parte degli irlandesi dell’epoca ritenevano inopportuna. In occasione del Centenario della Easter Rising, questa opera dimenticata di James Stephens è stata riscoperta e tradotta per la prima volta in italiano col titolo L’Insurrezione di Dublino (Menthalia editore, 125 pagg. 12 euro, traduzione di Enrico Terrinoni). Lo sguardo col quale Stephens osserva i dublinesi è talmente acuto da consentirgli di cogliere i loro stati d’animo semplicemente guardandoli in faccia: “il sentimento che ho riscontrato era senza dubbio contrario ai Volunteers, ma a trovare il coraggio di parlare erano in pochi, e le persone non inclini a prendere posizione, così sorridenti, gentili, e pronte a discorrere, vengono guardate con curiosità, nella speranza di leggere nei loro occhi, nel comportamento, persino nel taglio dei vestiti quali possano essere i movimenti segreti dell’animo e le loro elucubrazioni”. Col trascorrere delle ore Stephens vede l’avversità della gente tramutarsi in disprezzo, talvolta in vero e proprio odio. Gli umori dell’opinione pubblica erano condizionati dalla partecipazione di migliaia di irlandesi nei reggimenti britannici impegnati in battaglia sui fronti della Prima guerra mondiale, oltre che dall’illusoria speranza di ottenere presto l’agognato autogoverno. Ma poco per volta l’ostilità si tramuta in rispetto, il dissenso in un’approvazione che cresce in modo esponenziale di fronte al coraggio e al valore che quei pochi insorti male armati stanno mostrando in uno scontro impari contro il potente invasore. E che diventerà infine aperto sostegno, quando il furore vendicativo degli inglesi porterà alla fucilazione dei ribelli. Lo straordinario valore documentario – prima ancora che letterario – di queste pagine sta proprio in questo: grazie alla sua sensibilità, Stephens comprende per primo che i sentimenti della popolazione nei confronti dei ribelli stanno cambiando già a partire dal terzo giorno della rivolta, e riesce a descrivere l’attimo preciso in cui si manifesta quella “terribile bellezza” che alcuni mesi dopo sarebbe stata cantata da William Butler Yeats nella sua celebre poesia Easter 1916. Quello che sembrava un gesto disperato, velleitario, quasi folle era stato in realtà un grandioso atto di coraggio e d’amore per la libertà. “I ribelli”, avrebbe scritto cinquant’anni dopo Iris Murdoch, “sarebbero rimasti giovani e perfetti per l’eternità perché erano morti in nome della giustizia, della libertà, dell’Irlanda”.
RM

La memoria vivente della rivolta di Pasqua

FATHERMALLIN-600x300Il gesuita irlandese Joseph Mallin è l’unico figlio tuttora rimasto in vita dei martiri della rivolta di Pasqua del 1916. Nei giorni scorsi ha compiuto 102 anni e ha confermato che le sue condizioni di salute gli impediranno di partecipare alle grandi commemorazioni che si terranno in Irlanda per il centenario di quell’epica rivolta. Vive tuttora a Hong Kong, dove si è trasferito come missionario nel lontano 1948. Gran parte della sua lunghissima esistenza l’ha trascorsa al Wah Yan College, una scuola superiore cattolica di quella che fino al 1997 è stata l’ultima colonia britannica in Oriente.

Il comandante Michael Mallin (1874-1916)
Il comandante Michael Mallin (1874-1916)

Suo padre era il comandante Michael Mallin, vice di James Connolly alla guida dell’Irish Citizen Army. Durante la settimana di Pasqua del 1916 guidò insieme alla contessa Markievicz le operazioni dei ribelli dal presidio di St. Stephen’s Green. Padre Joseph non ha alcun ricordo di suo padre in vita. Non potrebbe averlo. Aveva infatti appena due anni quando suo padre fu mandato al patibolo nella prigione dublinese di Kilmainham, pochi giorni dopo la conclusione della rivolta. Il 7 maggio del 1916, la notte prima dell’esecuzione di suo padre, il piccolo Joseph fu portato nel carcere di Kilmainham dalla madre, che all’epoca aspettava il suo quinto figlio, per dare l’ultimo saluto a un padre che non ha mai conosciuto. Quel padre che pure avrebbe avuto il tempo di tracciare il percorso della sua vita. “Joseph, piccolo uomo, fatti prete se puoi”, scrisse il comandante Mallin nella sua lettera di commiato.
Di professione tessitore, d’idee socialiste e con un passato nell’esercito britannico, Michael Mallin aveva appena 41 anni quando fu abbattuto dal plotone d’esecuzione britannico nel cortile del carcere noto come Stonebreaker’s Yard. Suo figlio Joseph avrebbe preso i voti giovanissimo e nell’estate del 1948 si sarebbe imbarcato alla volta dell’Estremo Oriente, in un viaggio che durò un mese e avrebbe cambiato per sempre la sua vita. A Hong Kong padre Joseph ha trascorso un’esistenza devota alla religione cattolica e alla ricerca della giustizia sociale. Quella stessa giustizia sociale per la quale suo padre aveva combattuto fino alla morte.
RM

Easter 1916, cronaca di una rivolta

E’ stato finalmente tradotto anche in italiano, per la prima volta, un libro leggendario sulla rivolta irlandese della Pasqua 1916: The Insurrection in Dublin di James Stephens, uno dei massimi esponenti della letteratura Irish del XX secolo. Stephens fu un testimone d’eccezione di quella rivolta che era destinata a cambiare per sempre le sorti del suo paese. Vi assistette attonito e raccontò poi sotto forma di diario i sette giorni di combattimenti che segnarono l’atto di nascita della moderna Repubblica d’Irlanda e dettero il colpo di grazia al decadente Impero britannico.Stephens
Pubblicato per la prima volta poche settimane dopo la conclusione della rivolta, L’Insurrezione di Dublino descrive con efficace immediatezza la paura e lo smarrimento della popolazione, la tensione e l’attesa di una città che diventa teatro di una rivolta improvvisa e memorabile. Una cronaca dei fatti che, anche un secolo dopo, mantiene intatta la sua freschezza e racconta una Dublino inedita, dal fascino straordinario. La prima edizione italiana, tradotta da Enrico Terrinoni e curata da Riccardo Michelucci, arriva finalmente nelle librerie del nostro paese grazie all’editore Menthalia, in concomitanza con le imminenti celebrazioni del centenario della Rivolta di Pasqua.

Il presidente della Repubblica d'Irlanda, Michael D. Higgins, con la prima copia del libro
Il presidente della Repubblica d’Irlanda, Michael D. Higgins, con la prima copia del libro

Ancora oggi – a cento anni di distanza – la Easter Rising rappresenta uno straordinario atto di martirio per la libertà, uno dei momenti più alti di resistenza al potere coloniale.

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Pasqua 1916: fu vera rivolta?

Da “Avvenire” di oggi

In Irlanda si accende il dibattito storiografico in vista dell’attesissimo “anno del centenario”, quando tutto il paese celebrerà i cento anni della rivolta di Pasqua del 1916, l’atto di nascita della Repubblica e il momento più alto della resistenza contro il potere coloniale inglese in epoca moderna. Un anniversario che stavolta – contrariamente a quanto accadde nel 1966 per il cinquantesimo – non dovrà più fare i conti con la guerra in Irlanda del Nord e potrà quindi onorare gli eroi della Easter Rising senza rischiare di giustificare al contempo le azioni dell’IRA. Per molti studiosi il 2016 rappresenta già un terreno di scontro intellettuale dove non mancano prese di posizione provocatorie. Lo dimostra il tempismo dell’uscita dell’ultimo libro di Roy Foster, il prestigioso storico dell’Hertford College di Oxford, che ha battuto tutti sul tempo dando alle stampe il suo controverso Vivid Faces: the Revolutionary Generation in Ireland 1890-1923.
Capofila della corrente degli storici revisionisti, biografo ufficiale di W.B. Yeats e già autore di un monumentale saggio sugli ultimi quattro secoli di storia irlandese, Foster riprende la tesi dell’esistenza di una “generazione” di rivoluzionari, già lanciata alcuni decenni fa da un altro studioso irlandese assai discusso, Conor Cruise O’Brien. Lo fa attingendo a una gigantesca mole di materiale privato e a documenti d’archivio in parte inediti, cercando di evidenziare più il lato umano che quello politico dei protagonisti di quella stagione, per mettere in risalto le loro debolezze con un chiaro intento iconoclasta. “Ho voluto cercare di restituire loro un’immagine di giovani laici e moderni – ci ha spiegato – che avevano le loro vite sentimentali e iniziavano a mettere in discussione i tradizionali ruoli di genere, oltre al puritanesimo nella sfera sessuale, come emerge chiaramente dai loro diari e dalle loro lettere. In seguito sono stati invece ricordati in modo agiografico, come stinchi di santo, ma sono stati invece figure assai più interessanti”. Quei rivoluzionari – sostiene Foster – erano un gruppo di giovani radicali, insegnanti, artisti, poeti, femministe e socialisti che appartenevano a una generazione desiderosa di esplorare forme di liberazione che andavano oltre la sfera politica in un mondo che stava cambiando. “La rivoluzione scoppiò nelle loro menti e nei loro cuori, portandoli a ribellarsi non tanto contro il governo britannico, come affermano da sempre gli storici nazionalisti, ma piuttosto contro le generazioni che li avevano preceduti, cioè contro le aspirazioni, i valori e gli stili di vita dei loro genitori”.
Dublin A sostegno di una tesi a dir poco singolare, che descrive una sorta di ’68 ante litteram con epicentro a Dublino, lo storico analizza nel dettaglio le vite di alcuni dei principali protagonisti, soffermandosi sulle presunte relazioni proibite della contessa Constance Markievicz, sulle (note) avventure extraconiugali di Maud Gonne, la pasionaria musa di Yeats e sulla gravidanza segreta di una Grace Gifford non ancora sposata. Arrivando infine, basandosi solo sull’interpretazione del verso di una sua poesia, a insinuare l’omosessualità di uno dei simboli di quella rivolta, Patrick Pearse, il rivoluzionario-poeta teorico di un nazionalismo mistico intriso di elementi romantici.
Gli obiettivi dell’autore sono chiariti nell’ultimo capitolo del libro, che descrive la tragica eredità di quella rivolta, e cioè la “disillusione” dei rivoltosi nei confronti del futuro, dovuta in gran parte al trauma della Guerra civile che lacerò il paese tra il 1922 e il 1923, ma anche alla soppressione degli ideali laici, del libero pensiero, del femminismo e del socialismo progressista che la ‘generazione rivoluzionaria’ auspicava di far prevalere spezzando il legame con l’Impero britannico. “Certamente – conclude Foster – l’Irlanda odierna, come abbiamo potuto vedere con il recente referendum sui matrimoni senza distinzione di sesso, si è liberata dal potere politico e sociale della Chiesa cattolica, che ha dominato a lungo il paese dopo l’indipendenza. E ciò mi sembra sia in piena sintonia con gli ideali dei principali esponenti di quella generazione rivoluzionaria”.
Ma il curriculum accademico e le grandi doti di narratore dello storico di Oxford non devono trarre in inganno: questo libro cerca in modo assai velleitario di relativizzare l’esperienza del 1916 e di decostruire una volta per tutte l’epos della Rivolta di Pasqua, sminuendo il momento culminante della lotta per la libertà dell’Irlanda proprio in occasione del suo centenario. Foster ci aveva già provato nel suo monumentale Modern Ireland 1600-1972, affermando che il 1916 era stato un atto irrazionale, che aveva gettato le basi della violenza che mezzo secolo più tardi sarebbe scoppiata in Irlanda del Nord. Una tesi che aveva scatenato un acceso dibattito e diviso a lungo sia il mondo accademico che l’opinione pubblica irlandese.
Vivid Faces appare un tentativo ancora più goffo di riscrivere la storia irlandese. Innanzitutto perché non racconta la “generazione rivoluzionaria” nella sua interezza, ma si limita alla sua élite, a quella parte cioè che proveniva dalla media borghesia anglo-irlandese, istruita e abituata a scrivere lettere, memorie, diari e poesie. Al dramma di quegli anni Foster non fa partecipare le masse popolari, i tanti protagonisti anonimi di una storia che senza il loro fondamentale contributo avrebbe avuto un esito assai diverso. Inoltre, ben più di una singola generazione prese parte a quella storica rivolta e rivoluzionari come Pearse – come testimoniano le parole della dichiarazione d’indipendenza letta nei giorni della rivolta – erano in realtà ossessionati dal desiderio non di emanciparsi dalle generazioni precedenti, bensì di ristabilire una continuità con i martiri del passato, a cominciare dai padri del repubblicanesimo, Theobald Wolfe Tone e Robert Emmet. Più anime confluirono in quegli anni all’interno della galassia separatista irlandese: quella cattolica, rurale e conservatrice, il nazionalismo culturale che era espressione del Gaelic Revival e infine la tradizione socialista. Tutte furono unite però dal desiderio di rompere per sempre il giogo coloniale inglese.
È difficile che questo libro, nonostante il prestigio dell’autore, riesca a sminuire il potere dei simboli creati nel 1916, che costituiscono le fondamenta dell’identità repubblicana dell’Irlanda moderna. Ancora oggi, un secolo dopo, risuonano forti le grida di Patrick Boyle, un giovane volontario impegnato nei combattimenti nel cuore di Dublino: “non è questo un grande giorno per l’Irlanda? Non dovremmo essere tutti grati a Dio che ci ha permesso di prendere parte ad una battaglia come questa?”
RM