Il foro di un proiettile esploso cento anni fa, nei giorni della grande insurrezione di Dublino della Pasqua 1916, è ancora oggi ben visibile su uno degli angeli alati che circondano il monumento bronzeo di Daniel O’Connell, nel cuore della capitale irlandese. Può sembrare quasi una tragica ironia della sorte, poiché nell’Ottocento colui che gli irlandesi hanno ribattezzato il “Liberatore” lottò per tutta la vita con metodi nonviolenti per raggiungere l’emancipazione dei cattolici del suo paese. Ma un secolo fa tutta l’Irlanda era ancora una colonia britannica soggetta alle leggi di Londra e priva di un proprio parlamento. I ribelli che insorsero contro l’Impero non avevano scelto a caso quei giorni. Volevano infatti compiere un gesto catartico capace di risvegliare la coscienza nazionale identificando la rivolta e la liberazione del paese con la Pasqua di Resurrezione. “Nel nome di Dio e delle generazioni scomparse dalle quali deriva la sua lunga tradizione nazionale, l’Irlanda per mezzo nostro chiama i suoi figli sotto la sua bandiera e lotta per la propria libertà”: così iniziava la storica proclamazione del governo provvisorio della Repubblica, letta da Patrick Pearse il Lunedì di Pasqua del 1916 davanti all’edificio delle Poste Centrali di Dublino, nell’odierna O’Connell Street. L’elemento spirituale della rivolta fu dunque scolpito nel documento su cui il moderno stato irlandese affonda le proprie radici. Per giorni, il New York Times dedicò all’insurrezione di Dublino articoli firmati da un reporter dal nome evocativo – Joyce Kilmer – che non mancò di sottolineare come gran parte dei leader degli insorti erano poeti, insegnanti e letterati che andarono in battaglia “con la pistola in una mano e un libro di Sofocle nell’altra”, mentre monsignor Michael O’Riordan, all’epoca rettore del Pontificio Collegio irlandese di Roma, raccontò in un famoso resoconto: “negli edifici occupati e difesi dagli insorti, si recitarono senza interruzione corone del rosario e altre devozioni. Nella domenica durante la sommossa, cercarono di avere un prete che celebrasse la messa per loro, onde compiere il precetto festivo”.
Eppure, la Easter Rising era stata organizzata e combattuta da un gruppo assai eterogeneo di ribelli. A Patrick Pearse, il rivoluzionario-poeta che nelle sue liriche aveva esaltato la necessità di un sacrificio di sangue per liberare il paese, aveva fatto da contraltare il marxismo di James Connolly; ai combattimenti presero parte esponenti della borghesia anglo-irlandese ma anche operai, sindacalisti, giovani e donne delle classe popolari. Nei sei giorni che seguirono la Settimana Santa di cento anni fa, i ribelli riuscirono a impadronirsi di postazioni strategiche in gran parte della città e a sfidare apertamente il potente esercito britannico, sebbene fossero soltanto una milizia male armata composta da poco meno di duemila effettivi. Alla fine furono costretti ad arrendersi, ma il loro eroismo cambiò per sempre la storia dell’Irlanda radicalizzando definitivamente l’opinione pubblica del paese, fino a quel momento riluttante a rivoltarsi contro gli inglesi. Ma dette anche il colpo di grazia al decadente Impero britannico e fu d’esempio per altri paesi in lotta per l’emancipazione – India, Australia e Sudafrica in primis – che riconobbero il valore universale della lotta irlandese. In pochi giorni, gli inglesi fucilarono i principali leader della rivolta trasformandoli in martiri agli occhi del popolo e in figure quasi leggendarie che avrebbero ispirato a lungo la letteratura contemporanea. Come il leader socialista James Connolly, che nelle sue ultime ore di vita si comunicò dopo essersi lasciato confessare in carcere e il diplomatico Roger Casement, originario di una famiglia protestante, che si convertì al cattolicesimo in punto di morte, chiedendo l’eucaristia prima di essere impiccato. Il primo a suggellare il simbolismo perfetto del loro sacrificio fu il premio Nobel William Butler Yeats nella sua famosa poesia Easter 1916. “Ora e nei tempi che verranno – scrisse con toni elegiaci – ovunque si indossi il verde / sono cambiati, cambiati completamente / è nata una terribile bellezza”. Cinquant’anni dopo, anche una grande scrittrice inglese come Iris Murdoch, nel suo romanzo Il rosso e il verde, riconobbe che i ribelli “erano rimasti giovani e perfetti per l’eternità perché si erano immolati in nome della giustizia, della libertà, dell’Irlanda”. Fino ad arrivare ai giorni nostri, quando un altro premio Nobel, il peruviano Mario Vargas Llosa, ha decantato la valenza mistica, oltre che civile, della libertà irlandese nel suo recente romanzo Il sogno del celta. Sono soltanto i casi letterari più noti – almeno in Italia – ma neanche il potere della letteratura basta per rendere giustizia al profondo significato politico e sociale che la Easter Rising continua ad avere per l’Irlanda. In questi giorni culmineranno in tutta l’isola le grandi celebrazioni del centenario che da mesi sta impegnando lo Stato, la società civile e il mondo accademico e culturale con l’obiettivo d’interpretare un evento-chiave della recente storia europea e trarne una spinta benefica per il futuro. Nel giorno di Pasqua il testo della storica Proclamazione sarà letto davanti all’edificio delle Poste centrali, poi il presidente della Repubblica Michael Higgins deporrà una corona di fiori alla memoria dei caduti, infine una grande parata militare attraverserà il centro di Dublino solcando i luoghi simbolo della rivolta di cento anni fa. Le celebrazioni proseguiranno per tutto l’anno e segneranno un momento storico per l’Irlanda, anche se purtroppo non saranno prive di malumori e polemiche a causa della ferita ancora aperta rappresentata dal Nord. Non pesano tanto le defezioni di qualche politico nordirlandese o i timori di possibili azioni eclatanti dei gruppi contrari al Processo di pace, quanto piuttosto l’ottuso revisionismo di chi continua a vedere nella rivolta di un secolo fa la genesi della violenza che ha insanguinato l’Irlanda del Nord in tempi più recenti. La speranza non può che arrivare dalle generazioni più giovani. Nelle settimane scorse tutte le classi delle scuole primarie del paese hanno ricevuto una copia della Proclamazione del 1916. Ai bambini è stato chiesto quali dovrebbero essere, oggi, le priorità per il futuro in un’ipotetica nuova proclamazione. Le risposte più frequenti? Porre fine alle ingiustizie economiche, offrire a tutti una corretta assistenza sanitaria e combattere ogni forma di discriminazione.
RM
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Pasqua 1916, cronaca di una rivolta
Avvenire, 5.2.2016
Esattamente cento anni fa, uno dei giganti della letteratura irlandese del XX secolo vide prendere forma sotto i suoi occhi la rivolta che avrebbe sconvolto Dublino nei giorni di Pasqua del 1916. Assistette ai combattimenti strada per strada tra i ribelli irlandesi e l’esercito britannico e raccontò con sguardo attonito i sette giorni che dettero il colpo di grazia al decadente Impero britannico e segnarono l’atto di nascita della moderna Repubblica d’Irlanda. Ancora oggi – a un secolo esatto di distanza –, quella che passerà alla storia come l’Easter Rising continua a rappresentare uno dei momenti più alti di resistenza contro il potere coloniale e di martirio per la libertà dell’epoca contemporanea. E James Stephens, scrittore raffinatissimo, coevo e amico di Joyce, noto per le sue riletture delle antiche leggende irlandesi ne fu un testimone d’eccezione. Come tutti gli abitanti di Dublino dell’epoca, anche Stephens non si aspettava di svegliarsi la mattina del Lunedì di Pasqua e di trovarsi la guerra in casa. Decise allora di calarsi nel ruolo di reporter della Storia e iniziò a raccogliere informazioni e sensazioni, trasformandole in un diario di quei giorni memorabili. Pubblicato per la prima volta poche settimane dopo la conclusione della rivolta, il suo The Insurrection in Dublin raccoglie una serie di cronache che descrivono con efficace immediatezza il terrore e lo smarrimento della popolazione, le reazioni dei passanti che assistono a improvvisi combattimenti nelle strade, la tensione e l’attesa di una città che diventa teatro di una ribellione che gran parte degli irlandesi dell’epoca ritenevano inopportuna. In occasione del Centenario della Easter Rising, questa opera dimenticata di James Stephens è stata riscoperta e tradotta per la prima volta in italiano col titolo L’Insurrezione di Dublino (Menthalia editore, 125 pagg. 12 euro, traduzione di Enrico Terrinoni). Lo sguardo col quale Stephens osserva i dublinesi è talmente acuto da consentirgli di cogliere i loro stati d’animo semplicemente guardandoli in faccia: “il sentimento che ho riscontrato era senza dubbio contrario ai Volunteers, ma a trovare il coraggio di parlare erano in pochi, e le persone non inclini a prendere posizione, così sorridenti, gentili, e pronte a discorrere, vengono guardate con curiosità, nella speranza di leggere nei loro occhi, nel comportamento, persino nel taglio dei vestiti quali possano essere i movimenti segreti dell’animo e le loro elucubrazioni”. Col trascorrere delle ore Stephens vede l’avversità della gente tramutarsi in disprezzo, talvolta in vero e proprio odio. Gli umori dell’opinione pubblica erano condizionati dalla partecipazione di migliaia di irlandesi nei reggimenti britannici impegnati in battaglia sui fronti della Prima guerra mondiale, oltre che dall’illusoria speranza di ottenere presto l’agognato autogoverno. Ma poco per volta l’ostilità si tramuta in rispetto, il dissenso in un’approvazione che cresce in modo esponenziale di fronte al coraggio e al valore che quei pochi insorti male armati stanno mostrando in uno scontro impari contro il potente invasore. E che diventerà infine aperto sostegno, quando il furore vendicativo degli inglesi porterà alla fucilazione dei ribelli. Lo straordinario valore documentario – prima ancora che letterario – di queste pagine sta proprio in questo: grazie alla sua sensibilità, Stephens comprende per primo che i sentimenti della popolazione nei confronti dei ribelli stanno cambiando già a partire dal terzo giorno della rivolta, e riesce a descrivere l’attimo preciso in cui si manifesta quella “terribile bellezza” che alcuni mesi dopo sarebbe stata cantata da William Butler Yeats nella sua celebre poesia Easter 1916. Quello che sembrava un gesto disperato, velleitario, quasi folle era stato in realtà un grandioso atto di coraggio e d’amore per la libertà. “I ribelli”, avrebbe scritto cinquant’anni dopo Iris Murdoch, “sarebbero rimasti giovani e perfetti per l’eternità perché erano morti in nome della giustizia, della libertà, dell’Irlanda”.
RM