Ergastolo per Mladic, il “boia dei Balcani”

Avvenire, 23.11.2017

Quando il giudice olandese Alphons Orie legge la sentenza che lo condanna all’ergastolo, Ratko Mladic non è più nell’aula del tribunale. Si è fatto cacciare un’ora prima, dopo essersi messo a inveire contro la corte, in piedi, con il viso paonazzo. “Questa è tutta una menzogna”, aveva gridato rivolto ai giudici dell’Aja. Eppure contro di lui esistono persino prove autografe schiaccianti, come i diciotto quaderni di appunti scritti di suo pugno durante gli anni della guerra nell’ex Jugoslavia, che confermano il suo ruolo di primissimo piano in un conflitto che causò oltre centomila morti e circa due milioni di profughi. Il “boia dei Balcani”, l’uomo che con le sue truppe assediò Sarajevo per oltre quattro anni e poi orchestrò il genocidio a Srebrenica era entrato in aula alle 10 in giacca scura, camicia bianca e cravatta rossa, sorridendo alle telecamere e iniziando ad ascoltare attentamente gli orrori elencati dal giudice. Per poco meno di un’ora si è limitato a fissare la corte con uno sguardo sprezzante, annuendo in segno di sfida, o scuotendo la testa. Poi ha chiesto un’interruzione della seduta per andare in bagno, accusando un calo di pressione, mentre il suo legale cercava inutilmente di rinviare l’udienza lamentando ancora una volta i problemi di salute dell’imputato. Al rientro in aula, Mladic ha cominciato a dare in escandescenze, insultando i giudici e costringendoli ad allontanarlo definitivamente. Pochi minuti prima di mezzogiorno il giudice Orie ha letto la sentenza, che condanna l’ex generale serbo-bosniaco 74enne al massimo della pena prevista – l’ergastolo – dichiarandolo colpevole di ben dieci degli undici capi d’imputazione che gli erano stati contestati. Tra questi figurano il genocidio, la persecuzione per motivi etnici e religiosi ai danni di musulmani bosniaci e croato bosniaci, lo sterminio, la deportazione, la cattura di ostaggi e gli attacchi contro i civili. Mladic è stato invece assolto dal reato di genocidio per gli atti compiuti dalle truppe serbo-bosniache a Prijedor e in altre cinque municipalità della Bosnia, all’inizio della guerra.
Il Tribunale penale dell’Aja l’aveva incriminato per la prima volta nel 1995, quattro mesi prima che la pace di Dayton sancisse la conclusione del conflitto bosniaco. Dopo la guerra divenne uno degli uomini più ricercati del mondo ma continuò per anni a vivere a Belgrado da uomo libero, protetto dal governo e dall’establishment militare serbo. Fu costretto a nascondersi soltanto a partire dal 2003, quando il governo serbo iniziò a collaborare con il tribunale. Ma per arrivare al suo arresto, nel piccolo villaggio di Lazarevo, è stato necessario attendere il 26 maggio 2011. La sua latitanza è durata quasi sedici anni, più di quella di Adolf Eichmann, e quello a suo carico è stato il più importante processo per crimini di guerra svolto in Europa dai tempi del tribunale di Norimberga contro i gerarchi nazisti. È durato complessivamente oltre quattro anni, durante i quali sono stati ascoltati quasi seicento testimoni ed esaminati circa diecimila elementi di prova. Nel corso dei dibattimenti Mladic ha sempre proclamato la sua innocenza, ripetendo di aver agito per difendere il popolo serbo, nonostante le prove schiaccianti prodotte contro di lui, a cominciare dalle intercettazioni radio dell’assedio di Sarajevo, nelle quali l’ex generale ordinava di aprire il fuoco sui quartieri dove abitava un maggior numero di musulmani e di privare la popolazione di acqua, luce e aiuti umanitari per ridurla alla fame. Nel corso delle sedute ha più volte provocato le vittime e i familiari presenti in aula, ha ripetutamente contestato l’autorità della corte rifiutandosi di eseguire gli ordini dei giudici, e fino alla fine ha chiesto rinvii ostentando le sue precarie condizioni di salute.
Condannandolo all’ergastolo, il Tribunale dell’Aja ha riconosciuto le sue responsabilità individuali in quanto comandante dell’esercito serbo-bosniaco e ha lanciato un segnale importante contro l’impunità che è stata accolto con soddisfazione dalle Madri di Srebrenica e da Amnesty International. “Mladic è l’incarnazione del male ma non è sfuggito alla giustizia. questa è una vittoria epocale”, ha dichiarato il responsabile dei diritti umani delle Nazioni Unite, Zeid Raad al-Hussein, subito dopo la lettura della sentenza. Monsignor Ivo Tomasevic, segretario generale della Conferenza episcopale della Bosnia-Erzegovina, ha invece sottolineato con tristezza che dopo molti anni non è emerso in lui alcun desiderio di ammettere le proprie colpe. La condanna di Mladic in primo grado – dopo quella di Radovan Karadzic pronunciata nel marzo 2016 – è di fatto l’ultima grande sentenza del tribunale per l’ex Jugoslavia che chiuderà i battenti alla fine dell’anno, dopo oltre vent’anni di attività. È però improbabile che riesca a lenire le divisioni ancora presenti nell’ex Jugoslavia, dove Mladic è ritenuto un feroce criminale di guerra dai croati e dai bosniaci musulmani mentre molti serbi continuano a considerarlo un eroe e negano il genocidio di Srebrenica. I suoi avvocati hanno già annunciato ricorso contro una sentenza che il figlio di Mladic, Darko, non ha esitato a definire “propaganda di guerra”.
RM

Quando gli ex SS erano alleati della CIA

Da “Avvenire” di oggi

Se venisse raccontata al cinema, questa storia potrebbe cominciare nel salotto di un elegante appartamento del centro di Zurigo, nel marzo del 1945. Seduti davanti al camino come vecchi amici, con un bicchiere di whisky in mano, ci sono Allen Dulles, ambiziosa spia statunitense di stanza in Europa, e Karl Wolff, ex braccio destro del capo delle SS Heinrich Himmler. L’America è ancora in guerra contro Hitler, e gli ultimi colpi della battaglia di Berlino saranno sparati soltanto due mesi più tardi ma i due uomini – l’uno, futuro direttore della CIA, l’altro, generale delle famigerate Waffen-SS – hanno interessi comuni di cui parlare. Il generale Wolff ha capito che la guerra è perduta, e vuole proteggersi dalle accuse che di lì a poco gli pioveranno addosso. Dulles vuole invece convincere Wolff a diventare suo alleato in chiave anti-sovietica. Poco importa che Wolff sia un uomo vicinissimo a Hitler, un nazista convinto definito il “burocrate della morte” per la gelida precisione con la quale ha contribuito a organizzare i vagoni merci diretti ai campi di sterminio, abbia assistito agli esperimenti medici eseguiti sui prigionieri di Dachau e guidato le truppe delle SS responsabili dell’uccisione di migliaia di donne e bambini in Italia. È uno dei massimi esponenti del regime nazista rimasti in vita dopo la guerra ma grazie all’appoggio di Dulles il suo nome sarà cancellato dal gruppo dei principali criminali di guerra che a breve finiranno davanti ai giudici del processo di Norimberga. Condannato soltanto per reati minori, Wolff tornerà in libertà nel 1949 e con l’aiuto dei servizi segreti statunitensi continuerà a vivere in un paesino della Baviera. Uomini come lui erano considerati un’imprescindibile fonte di informazioni contro la Russia di Stalin, e dunque andavano protetti. Nel 1962 finì sotto processo per aver preso parte alla deportazione degli ebrei italiani ad Auschwitz, venne condannato a quindici anni fu ma ne scontò appena sei. Massimo rappresentante delle SS in Italia durante la Seconda guerra mondiale, il generale Karl Friedrich Wolff rivelò nel 1974 di essere stato incaricato da Hitler in persona di eseguire l’Operazione Rabat, che dopo la caduta di Mussolini prevedeva il rapimento di papa Pio XII. Le truppe delle SS al suo comando avrebbero dovuto occupare il Vaticano e deportare papa Pacelli in Germania. Ma Wolff, d’accordo con l’Ambasciatore tedesco presso la Santa Sede Ernst von Weizsacker, avrebbe disobbedito agli ordini del fuhrer informando di persona Pio XII in un colloquio avvenuto il 10 maggio 1944. Gli storici dibattono tuttora sulla veridicità delle rivelazioni di Wolff.
Altrettanto emblematica è la storia di un altro ufficiale SS di spicco: Otto von Boschwing. Tra i primi teorizzatori della “Soluzione finale”, durante la guerra von Boschwing lavorò a stretto contatto con Adolf Eichmann impegnandosi per mettere in pratica i piani di sterminio degli ebrei. Anch’egli fu assoldato dalla CIA come informatore per stanare i comunisti, nuovi nemici d’America, e per oltre vent’anni visse indisturbato a New York con la sua famiglia. I casi di Wolff e von Bolschwing sono soltanto la punta dell’iceberg dell’imbarazzante vicenda raccontata dal giornalista premio Pulitzer Erich Lichtblau in un libro appena uscito anche in edizione italiana (I nazisti della porta accanto. Come l’America divenne un porto sicuro per gli uomini di Hitler, Bollati Boringhieri, traduzione di Susanna Bourlot).
index “L’Occidente – scrisse nel 1953 un alto funzionario della CIA citato nel libro – sta combattendo una battaglia disperata contro i sovietici e noi sceglieremo chiunque ci aiuterà a sconfiggerli. Chiunque, non importa se ha un passato da nazista”. Secondo quanto rivelato da Lichtblau, nel corso degli anni Cinquanta sia l’FBI di J. Edgar Hoover che la CIA di Allen Dulles misero in atto piani di reclutamento senza scrupoli, assoldando gli ex nazisti in funzione anti-sovietica, garantendo loro libero accesso negli Stati Uniti oltre a una protezione totale, che arrivò persino ad ostacolare le indagini che negli anni vennero aperte nei loro confronti. Il libro, basato su anni di ricerche su materiale d’archivio finora inedito e corredato da una mole imponente di dati, aggiunge numeri e prove inquietanti su una vicenda in parte nota, ma della quale finora si ignoravano i particolari, oltre al coinvolgimento diretto di molti elementi di primissimo piano del Terzo Reich. Sulla base dei documenti citati dal giornalista del New York Times, “le spie naziste d’America” furono almeno un migliaio e nella gran parte dei casi non si trattava di semplici simpatizzanti del regime di Hitler bensì di alti ufficiali delle SS, alcuni dei quali veri e propri criminali di guerra, il cui passato fu coperto al punto da consentire loro di ricostruirsi una vita come rispettabili cittadini americani. Al danno, racconta inoltre Lichtblau, si sarebbe poi aggiunta anche la beffa, poiché il lavoro svolto dagli ex nazisti per la CIA e l’FBI fu nella maggior parte dei casi anche inutile. Le informazioni che rifilarono al governo statunitense si rivelarono infatti del tutto errate, se non addirittura false.
RM

La complessità del male

eichmannUn gerarca nazista mosso da furore ideologico oppure un freddo burocrate che si limitò a eseguire il più mostruoso degli ordini? Da quando finì impiccato in un carcere israeliano nel 1962, Adolf Eichmann non ha mai smesso di suscitare l’interesse degli studiosi, che a lungo si sono divisi sul ruolo svolto dall’“architetto dell’Olocausto” nella Soluzione finale. Sfuggito al processo di Norimberga e giudicato da un tribunale israeliano solo molti anni più tardi, Eichmann divenne oggetto di studio per Hannah Arendt, che raccontò il processo di Gerusalemme sul New Yorker e fece poi confluire il suo lavoro nel famoso libro La banalità del male. La filosofa tedesca fu la prima a sostenere che il male assoluto potesse non essere radicale, affermando che Eichmann non era né uno psicopatico né un fervente antisemita, ma solo un uomo mediocre, “incapace di pensare” e intenzionato a fare carriera a qualsiasi costo. La controversa tesi della Arendt, risalente ormai a oltre 50 anni fa, è stata più volte messa in discussione dagli studiosi, a partire dal suo contemporaneo Gershom Sholem – che definì la banalità del male “uno slogan” – fino a Deborah Lipstadt, la storica statunitense che in un recente libro ha accusato la Arendt di aver voluto assolvere la cultura europea dalla colpa di antisemitismo.
Una disputa intellettuale che potrebbe concludersi definitivamente grazie al lavoro di un’altra filosofa tedesca, Bettina Stangneth, che in un libro da poco uscito anche negli Stati Uniti – Eichmann Before Jerusalem. The Unexamined Life of a Mass Murderer – ricostruisce la personalità del gerarca SS utilizzando molti documenti, lettere e testimonianze inedite. Arrivando alla conclusione che sia la Arendt che molti storici sono stati in realtà ingannati dal comportamento di Eichmann al processo, la cui analisi è di per sé insufficiente a far comprendere la sua vera natura: non un grigio e taciturno criminale di guerra in fuga, bensì un lucido ideologo che odiava profondamente gli ebrei e fu un convinto e fanatico esecutore dello sterminio. La chiave di lettura della Stangneth è incentrata sull’analisi dettagliata dei movimenti di Eichmann dopo la guerra, dalla sua fuga dalla Germania fino all’arresto da parte del Mossad nel 1960. Anni che trascorse in Argentina, senza curarsi neanche di nascondere la sua vera identità, dicendosi orgoglioso di quanto aveva fatto durante la Seconda guerra mondiale. Nel libro, che le è costato una decina d’anni di ricerche negli archivi di tutto il mondo, Stangneth esamina migliaia di documenti, memorie manoscritte e trascrizioni di interviste segrete rilasciate dallo stesso Eichmann. Emergono particolari clamorosi, come la lettera che scrisse nel 1956 al cancelliere Adenauer proponendogli un suo ritorno in Germania per farsi processare da un tribunale tedesco, ma niente è più rivelatore delle registrazioni audio che precedettero la sua cattura. “Non mi pento di nulla, e il pensiero di aver ucciso milioni di ebrei mi dà molta soddisfazione”, affermò l’ex gerarca. Il male che rappresentò fu tutt’altro che banale.
RM