La regina in Irlanda tra l’indifferenza della gente

Lo speciale fotografico           I video della visita

Nessuna bandiera, nessun applauso, ma anche nessun fischio per le strade di Dublino.  Diceva saggiamente Elie Wiesel che il contrario dell’amore non è l’odio ma l’indifferenza, e questo hanno dimostrato di essere gli irlandesi: perlopiù indifferenti di fronte alla visita di un monarca britannico dopo cento anni esatti. Indifferenti nei confronti della carica di simbolismo che Elisabetta II Windsor portava dietro di sé nel suo storico viaggio in Irlanda, il primo in assoluto da quando l’ex colonia è diventata una repubblica e si è liberata definitivamente dal giogo coloniale che l’ha soffocata per secoli. A Dublino abbiamo capito subito che  in questi giorni era forse più facile trovare una bandiera della Padania che una Union Jack. Eppure non sarebbe stato sorprendente veder spuntare qualche bandiera britannica – un tempo tanto diffusa quanto odiata da queste parti – lungo i percorsi blindatissimi compiuti dall’anziana monarca in città. Invece ne è apparso soltanto uno sulla facciata del Trinity College e solo mentre la regina stava visitando l’antica università che rimane un simbolo del dominio protestante. Mancava la Union Jack– nessuno ha pensato a sventolarla, ma neanche a bruciarla – e mancava soprattutto il popolo. Al suo passaggio da O’Connell street, il viale principale del centro, il corteo reale è stato accolto solo da una folla di turisti e di curiosi assiepati attorno alle transenne. Tutto è apparso all’insegna del basso profilo: in un’epoca dominata dal commercio e da un certo gusto per il feticismo, a Dublino non avevano pensato neanche di preparare gadget commemorativi, né cartoline, né annulli filatelici per suggellare lo storico evento.

Michael Collins osserva la regina a colloquio con il primo ministro irlandese

Fatta eccezione per le sparute proteste di qualche gruppo di antagonisti, il percorso della regina – calibrato al millimetro dalle diplomazie – è scivolato via senza particolari problemi, nonostante abbia toccato nelle sue varie tappe i luoghi più sensibili della storia irlandese e del suo tragico passato di colonia britannica. Avendo partecipato ai primi due giorni della visita nella capitale, non credo che ciò sia stato merito soltanto dell’imponente militarizzazione del centro della capitale. Se i vari gruppi dissidenti repubblicani fossero stati in grado di compiere un atto dimostrativo per galvanizzare i loro (pochi) sostenitori e guadagnare l’attenzione dei mezzi d’informazione mondiali non avrebbero potuto trovare un’occasione più propizia. Invece hanno confermato di non avere la forza – e soprattutto il sostegno popolare – per compiere azioni clamorose. Anche quel paio di ordigni trovati fuori città prima dell’arrivo della regina facevano parte di un copione che non ha impedito agli attori protagonisti di recitare la loro parte. Il rischio maggiore era semmai di natura diplomatica: secondo alcuni tra i più attenti commentatori politici irlandesi la visita aveva un programma talmente sensibile da renderla quasi un azzardo. Se fosse fallita, se migliaia di persone avessero preso parte a manifestazioni di protesta come quelle che ebbero luogo al tempo delle visite reali di un secolo fa e oltre c’era il rischio concreto di azzerare d’un colpo i passi compiuti negli ultimi decenni. Ma gli umori della popolazione erano stati messi alla prova in più circostanze e le diplomazie sapevano bene che l’odio o il risentimento non erano i sentimenti più diffusi tra la gente. L’indifferenza, o comunque il disinteresse, delle persone si limitava però al simbolismo della visita: gli irlandesi sperano infatti di poter uscire dalla grave crisi economica che stanno vivendo anche grazie ai dividendi e dalle inevitabili conseguenze che la visita reale potrà avere sul commercio, sul turismo e in generale sulle relazioni tra i due paesi (non si scordino i miliardi di sterline di prestiti già garantiti da Londra a Dublino, e altri che potrebbero arrivare ancora grazie alla svalutazione della moneta britannica).
Un’ultima riflessione infine sulle parole spese durante la visita. La regina, com’è noto, non rilascia interviste, ma limita l’espressione del suo pensiero a pochi e ben ponderati discorsi pronunciati durante occasioni ufficiali. Alla cena di ieri sera al Castello di Dublino – presente tra gli altri anche il premier britannico David Cameron – ha esordito in gaelico e nel suo discorso ha ammesso i “tristi e deplorevoli errori” commessi dai due paesi. C’è chi auspicava una presa di posizione più netta, magari relativa alle indagini sulla strage compiuta nel 1974 proprio a Dublino con la collusione dei servizi segreti inglesi. O almeno un mea culpa per i secoli di oppressione e morte causati da Londra. Gerry Adams – che non era presente alla cena – ha accolto positivamente queste parole  e le ha definite “autentiche”. Ad ascoltarle dal vivo, tra i 160 selezionatissimi invitati, c’era anche un grand’uomo di Derry come il premio Nobel per la letteratura Seamus Heaney. Sarebbe bello sapere cos’ha provato in quegli istanti, lui che ha dedicato alcune delle sue poesie più ispirate alla Carestia, alla guerra in Irlanda del Nord e alle sofferenze degli irlandesi. Il discorso della regina segue a distanza di anni quello di Blair del 1997 per il 150° della Grande Carestia e quello, più recente, pronunciato da Cameron l’anno scorso sulla Bloody Sunday, e chiude un ciclo, per sempre. Nonostante i colpi d’ala dei dissidenti – talvolta purtroppo ancora letali – il processo di pace anglo-irlandese, piaccia o non piaccia, ha confermato d’aver imboccato una strada senza ritorno.
Riccardo Michelucci

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