Belfast e le voci dell’infanzia tradita

Ogni giorno della sua infanzia, il piccolo John l’ha vissuto pensando che sarebbe stato l’ultimo. Saliva sul bus pregando di non saltare in aria, camminava per strada immaginando di essere colpito da un cecchino. Una notte si svegliò di soprassalto e trovò suo padre, nel salotto di casa, che insieme ad altri uomini stava torturando una persona legata a una sedia. John è figlio di Tommy Lyttle, leader del gruppo paramilitare lealista UDA, ed è nato e cresciuto negli anni più duri del conflitto anglo-irlandese come Fiona Bunting, che aveva solo sette anni quando vide i suoi genitori massacrati da un commando protestante nella loro abitazione di Belfast. Billy invece non aveva ancora compiuto tredici anni quando assistette a un attentato nel suo quartiere e decise di abbracciare la lotta armata, seguendo le orme di suo padre. John, Fiona e Billy fanno parte di quelle generazioni diventate adulte nel corso dei cosiddetti Troubles in Irlanda del Nord, i cui familiari erano membri di gruppi paramilitari, attivisti e leader politici che hanno vissuto quegli anni in prima linea. Nel gigantesco processo di catarsi collettiva innescato dalla firma dell’Accordo di pace del 1998 non era stata ancora ascoltata la voce di chi, da bambino, è stato spettatore spesso inconsapevole di una guerra combattuta dai suoi genitori. Ci ha pensato Bill Rolston, sociologo dell’università dell’Ulster, a scrivere un capitolo rimasto finora ignoto, su quegli anni tragici: il suo libro Children of the Revolution, appena uscito in inglese, contiene una ventina di interviste che raccontano retroscena drammatici e aiutano a comprendere meglio l’ethos di un conflitto durato tre decenni, nel cuore dell’Europa. Tra gli intervistati ci sono le figlie e i figli di personaggi come Gerry Adams, leader storico degli indipendentisti di Sinn Féin, ma anche di figure ed ex combattenti meno noti, sia di parte repubblicana che lealista. “Le persone con le quali ho parlato – ci ha detto – non sono vittime passive, ma sopravvissuti che sono stati capaci di elaborare i traumi e di costruirsi una vita normale dopo un’infanzia drammatica. Alcuni l’hanno fatto condividendo in modo incondizionato le idee politiche e le azioni dei loro familiari, altri invece respingendoli completamente. Se un bambino si sente parte di una causa, di una lotta, di una forma di resistenza, può rimanere meno traumatizzato di quanto ci si può immaginare, almeno mentre quei fatti accadono. Alcuni hanno raccontato infatti di non essere rimasti scioccati all’epoca, perché essendo piccoli non si rendevano conto quanto la loro vita quotidiana fosse terribile, non avendone mai avuta una migliore”. Oggi le parole di quelli che sono stati i “bambini della guerra” trasudano rabbia e vergogna ma talvolta anche orgoglio e amore per le gesta dei loro genitori, per scelte estreme dettate da circostanze eccezionali. “Adesso si rendono conto di quanto sia stata terribile la loro vita passata e sono spesso sbalorditi di essere riusciti a sopravvivere – spiega Rolston – crescendo hanno sviluppato una forma di ambivalenza: quelli che sono diventati a loro volta genitori adesso sostengono che non potrebbero mai immaginarsi di abbandonare i loro figli per una causa politica, sebbene alcuni di loro uniscano tuttora a questa considerazione un rispetto di fondo per i genitori e per le loro scelte politiche”.
È chiaro che le voci contenute in questo libro rappresentano un’élite e che non tutti i figli di chi scelse la lotta armata a Belfast, a Derry e nel resto dell’Irlanda è riuscito a sopravvivere fisicamente e mentalmente a quell’esperienza. Non compaiono infatti quelli che hanno avuto problemi con la droga, gravi esaurimenti nervosi o sono finiti in carcere, senza contare i casi di suicidio. “Molte persone non hanno accettato di rispondere alle mie domande anche per evitare problemi all’interno delle loro famiglie”, precisa Rolston. Soltanto una, la figlia di Dan McCann, un giovane volontario dell’I.R.A. freddato nel 1988 dalle teste di cuoio inglesi a Gibilterra, ha voluto partecipare in modo anonimo e ha colto l’occasione per manifestare rancore contro suo padre, non contro il soldato che lo uccise: “per chi resta a raccogliere i pezzi della sua vita [la tua decisione di entrare nell’I.R.A.] è stata una cosa davvero stupida e futile – ha detto in uno dei passaggi più toccanti e inattesi del libro – io non ho mai potuto scegliere, non hai mai chiesto il mio parere”.
Oltre alla rielaborazione di un passato drammatico, il lavoro di Rolston consente anche di capire come il conflitto continui ancora oggi a condizionare le vite di queste persone. “Per alcuni di loro gli effetti sono ormai minimi, sono venuti a patto con il passato e si sono costruiti una vita normale – dice il sociologo -, ma altri, in particolare quelli che hanno seguito i loro genitori nel medesimo impegno politico, portano invece con sé quell’eredità ogni giorno. Altri ancora, vivono nell’ombra di un genitore famoso, sono sempre i figli o le figlie di, e combattono ogni giorno per capire chi sono”. Insegnando all’università, Rolston vive quotidianamente a stretto contatto con i giovani e, anche se va oltre gli obiettivi del suo libro, gli chiediamo in che modo ritiene che la generazione nata dopo il 1998 possa essere diversa dalle precedenti. “Per molti miei studenti il conflitto è un fatto lontano come le Guerre napoleoniche. Spesso gli ex membri dei gruppi paramilitari hanno difficoltà ad accettarlo. Ma è paradossale, perché se stai combattendo per costruire una società migliore per i tuoi figli e per i tuoi nipoti, forse il fatto che oggi siano ragazzi come tutti gli altri e non siano ossessionati dal conflitto è già di per sé un successo”.
RM

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