Il coraggio di una donna nell’inferno jiahidista

Avvenire, 9 ottobre 2020

Giunta sulla soglia dei novant’anni Edna O’Brien non smette di stupire. È sempre stata una scrittrice coraggiosa, fedele soltanto alla sua memoria, alla sua immaginazione e alla geometrica bellezza della sua scrittura. Esattamente sessant’anni fa il suo primo romanzo Ragazze di campagna – destinato a diventare un bestseller internazionale – fu prima bandito poi addirittura dato alle fiamme perché descriveva il desiderio sessuale femminile, la povertà, l’alcolismo e la misoginia tipiche delle campagne irlandesi in cui era cresciuta. Da quel libro sarebbe nata la trilogia che l’ha fatta conoscere in tutto il mondo anche come ambasciatrice letteraria dei diritti delle donne. Nei suoi due ultimi romanzi O’Brien ha invece iniziato ad attraversare mondi e culture immedesimandosi sempre più con tematiche lontane dalla propria terra. Prima gli echi della guerra di Bosnia in Tante piccole sedie rosse, adesso il nuovo Ragazza (traduzione di Giovanna Granato, Einaudi, pp. 200, euro 17), un romanzo che lancia un ponte narrativo con le sue opere giovanili ambientate in Irlanda, partendo da un terribile fatto di cronaca che niente ha a che fare con il suo paese. Lo spunto è il rapimento di un centinaio di studentesse da parte delle milizie di Boko Haram nel 2014 e la loro segregazione in schiavitù, nella Nigeria settentrionale in preda al terrorismo islamico. Il romanzo prende avvio in una notte terribile in cui uomini mascherati si introducono nel dormitorio femminile di una scuola, rapiscono un gruppo di ragazze e le rinchiudono in un accampamento jihadista dove sono continuamente picchiate, abusate e costrette al lavoro forzato. La grande scrittrice irlandese si immedesima in Maryam, la protagonista, e racconta con uno sguardo spietato l’indottrinamento religioso, le violenze fisiche e psicologiche, la paura e la disperazione. La sua scrittura in prima persona è affilata, essenziale, incalzante e registra ogni dettaglio, ogni singolo particolare degli orrori che descrive, senza consentirci di volgere lo sguardo altrove. “Non uscirò mai. Starò qui per sempre. Chiedo a Dio per favore di non darmi altri sogni. Di cancellare quello che ho dentro. Di svuotarmi di tutto”, le fa dire in un momento di sconforto. Ma Maryam non è una vittima passiva dei suoi carcerieri; è, al contrario, una giovane donna che lotta con tutte le sue forze alla ricerca della libertà, nel tentativo disperato di salvare la sua anima e la sua dignità. In una parte del romanzo è accompagnata da un’altra ragazza, Buki. Il loro rapporto rievoca quello tra Cait e Baba, le protagoniste adolescenti di Ragazze di campagna, segna quasi una similitudine tra la Nigeria di oggi e la contea irlandese di Clare sessant’anni fa, ma stavolta in una prospettiva globale. Dopo il matrimonio forzato con Mahmoud e la gravidanza, Maryam riesce a scappare con sua figlia ma solo per scoprire che la ritrovata libertà è un’illusione e che la sua vita non sarà più la stessa. Il governo la considera un’eroina perché è riuscita a sopravvivere ai suoi carcerieri ma la usa per i propri scopi e la trasforma in un simbolo della lotta contro i fondamentalisti di Boko Haram. La sua comunità non la considera una vittima che si è salvata bensì la madre di una figlia in cui scorre il sangue del nemico, “una moglie jihadi con il lerciume della foresta ancora appiccicato addosso”. Viene quindi ripudiata in quanto donna violata, pericolo da tenere a bada, testimone scomodo da silenziare. È diventata un motivo di vergogna anche per la sua famiglia, che nel frattempo è stata squassata dal trauma del suo rapimento e avrebbe preferito non vederla tornare. Ma quella bimba che per molti rappresenta un marchio d’infamia è invece per Maryam una nota di speranza in un oceano di brutalità. Il suo amore tenace per lei è un antidoto alla disperazione, al vuoto e al dissesto etico. In Nigeria negli ultimi anni ci sono state decine, se non centinaia di rapimenti simili e di scuole distrutte. Come ha documentato anche un recente rapporto dell’Unicef, dopo essere tornate in libertà molte di queste ragazze vivono come reiette ai margini della loro famiglia e della loro comunità, e hanno enormi difficoltà a reintegrarsi e a tornare alla vita di tutti i giorni. Il percorso narrativo assai rischioso scelto stavolta da O’Brien è stato alimentato con viaggi di ricerca e interviste alle vittime, e infine reso con una scrittura magistrale capace di suscitare un’incondizionata empatia nei confronti della protagonista.

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