Avvenire, 17 aprile 2021
Il 17 novembre 1962 oltre diecimila persone si radunarono a New York per partecipare alla cerimonia in ricordo di Eleanor Roosevelt, deceduta alcuni giorni prima all’età di 78 anni. A recitare l’elogio funebre fu Adlai Stevenson, membro di spicco del partito democratico e candidato alle presidenziali nel 1952 e nel 1956, il quale non si limitò a descriverla – come fecero molti giornali dell’epoca – “ex First Lady”, “great humanitarian” o come una delle donne più popolari del mondo. La vedova dell’ex presidente Usa Franklin Delano Roosevelt, disse Stevenson, “aveva avuto una comprensione vivace e arguta della natura dei processi democratici, era stata una stratega politica di prim’ordine con un brillante senso dell’umorismo, un’ottima combattente e una realista compassionevole ma non incline al sentimentalismo”. Eppure ancora oggi, a quasi sessant’anni di distanza, la sua figura sconta una sorta di ‘neutralizzazione’ causata dagli stereotipi di genere che hanno impedito di riconoscerla come soggetto politico in un contesto storico che non prevedeva la presenza di una voce femminile. A sostenerlo è Raffaella Baritono, storica dell’Università di Bologna e autrice di un documentatissimo saggio – Eleanor Roosevelt. Una biografia politica (Il Mulino, pagg. 579, euro 35 – che ne ricostruisce nel dettaglio l’impegno politico nell’ambito del liberalismo progressista statunitense. Nel 1933 Eleanor Roosevelt arrivò alla Casa Bianca in veste di First Lady potendo già vantare un lungo passato di attivista in organizzazioni femminili come il Women’s Club di New York e la Women’s Trade Union League. Ma era anche un’esponente di spicco del partito democratico e del movimento pacifista. “Lungi dall’essere una pensatrice – spiega Baritono -, Eleanor Roosevelt fu capace di comprendere i meccanismi del potere, di saperli usare ed estendere, afferrandone limiti e obblighi e in questo modo contribuendo alla ridefinizione di concetti e categorie politiche”. Così, quando Franklin D. Roosevelt le affidò il compito di visitare i luoghi dell’America scossa dagli effetti della crisi economica, lei ne approfittò per costruire una propria agenda politica che riguardava temi come i diritti delle donne e dei rifugiati ebrei perseguitati in Europa, la condizione dei lavoratori e le politiche contro la povertà. Non mancando di schierarsi talvolta anche su posizioni molto critiche nei confronti del marito e della sua amministrazione, in particolare sulla questione razziale. Il suo liberalismo poneva l’accento sulla possibilità di coniugare libertà politica e redistribuzione sociale e suscitò l’avversione degli ambienti conservatori che la definirono comunista, “Lenin in gonnella” o “Stalin in sottoveste”. Ma lei andò avanti per la sua strada divenendo un punto di riferimento per i gruppi internazionalisti che ritenevano necessario non perdere la ‘seconda occasione’ per una ridefinizione democratica dell’ordine internazionale, dopo quella persa nel 1919 con la sconfitta del progetto di Woodrow Wilson. Il suo impegno politico proseguì anche dopo la morte del marito, all’assemblea delle Nazioni Unite, dove svolse un ruolo importante nella stesura della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Raccontando la sua memorabile parabola politica, questo libro fa comprendere anche perché Eleanor Roosevelt fa ormai parte della memoria collettiva statunitense tanto da figurare anche nella letteratura. Da John Dos Passos a Amy Bloom fino a Woody Allen, che nella sua autobiografia la ricorda come una delle persone più ammirate della New York della sua gioventù.