Il dilemma del traditore

Da “Avvenire” di oggi

Il tradimento di un ideale e di un’intera comunità può essere una delle conseguenze più tragiche e disumanizzanti di una guerra logorante, combattuta sempre faccia a faccia col nemico. A partire dagli anni ’80 il conflitto anglo-irlandese cominciò gradualmente a cambiare la propria natura, e da scontro urbano a bassa intensità iniziò ad assumere anche i contorni di una guerra di intelligence nella quale Londra provò a sconfiggere l’I.R.A. cercando di minare il morale dei suoi uomini, facendo venir meno le loro convinzioni, seminando il dubbio e il sospetto. E convincendo alcuni di loro a tradire la causa. È in questo scenario che Sorj Chalandon, reporter francese diventato ormai scrittore di successo, ha ambientato il suo romanzo “Chiederò perdono ai sogni” (Keller editore, traduzione di Silvia Turato), già finalista al Goncourt e premiato nel 2011 come miglior romanzo dall’Académie Francaise. 10845940_10152519974543595_1989210784465800531_nCome nel suo precedente lavoro “Il mio traditore”, Chalandon torna in forma romanzata agli anni che trascorse in Irlanda durante il conflitto come inviato del quotidiano Libération, e alla sua profonda amicizia con Denis Donaldson, un leader dell’I.R.A. rivelatosi poi un agente dei servizi segreti britannici. Ma mentre il precedente romanzo uscito alcuni anni descriveva in modo assai efficace il suo dolore per un’amicizia che era stata tradita insieme a quell’ideale, in questo sceglie di calarsi direttamente nei panni del traditore e con una scrittura catartica, introspettiva, al tempo stesso semplice e potente, ci chiede di condividere la sua solitudine, i suoi sensi di colpa, i suoi rimorsi e le sue angosce. “Volevo spingere il lettore a domandarsi cosa avrebbe fatto al suo posto”, ci ha detto Chalandon a Roma, dove l’abbiamo incontrato in occasione della fiera “Più libri, più liberi”. “Dentro ciascuno di noi può nascondersi un eroe ma anche un traditore. Nessuno sa cos’ha dentro di sé e cosa farebbe davvero se si trovasse in tali circostanze. Volevo far capire che talvolta anche un uomo e un amico formidabile può perdere il controllo e diventare un altro”.Tyrone Meehan, voce narrante del libro e protagonista ispirato alla figura di Donaldson, è un ex combattente che è stato in carcere con Bobby Sands e ha vissuto in prima persona tutte le fasi più cruente di quella guerra. In un momento di vulnerabilità della sua vita viene reclutato dagli inglesi che lo costringono a collaborare con loro e a tradire i suoi compagni, iniziando quasi senza accorgersene una doppia vita che durerà per ben venticinque anni. “Tutta la vita ero andato a caccia di traditori, ed ecco che il peggiore di tutti era nascosto dentro di me. Quello lì non l’avevo visto arrivare. Non l’avevo mai notato”, dice Meehan, che proprio come il personaggio reale appare un uomo smarrito, lacerato dalla disperazione e dalla vergogna. Un anziano combattente che a lungo lotta con sé stesso per cercare di respingere l’etichetta infamante di traditore, ma alla fine è costretto ad ammettere che il suo operato ha danneggiato il movimento, ha causato la morte di alcuni compagni, ha fatto il gioco del nemico. Il suo nome è diventato sinonimo della peggior abiezione: quella di aver tradito la propria gente aiutando l’invasore inglese, per trarne un beneficio personale. E allora capisce che l’unico modo per chiedere perdono a tutti quello che l’hanno rispettato e amato, è lasciarsi uccidere.
IMG_3335Quando il suo tradimento viene scoperto, in Irlanda è già in corso da tempo il processo di pace. Gli omicidi e i regolamenti di conti sono finiti, l’I.R.A. ha deposto le armi e ha consegnato il proprio arsenale. Se avesse lasciato il paese, il traditore avrebbe potuto salvarsi e ricostruirsi una nuova vita altrove, ma sarebbe stato costretto a convivere per sempre con i suoi sensi di colpa. Allora si ritira nel paesino di Killybegs dov’è nato, in un cottage isolato, privo di elettricità e senza alcuna difesa, e attende, ineluttabile, l’arrivo degli ex compagni venuti a vendicarsi di lui. Proprio come accadde a Denis Donaldson, che fu ucciso in un casolare della campagna irlandese il 4 aprile 2006. “Penso che restare nella sua terra e aspettare di essere ucciso sia stato un modo per cercare il perdono da parte della sua gente – sostiene Chalandon -. Personalmente non posso dimenticare, ma non provo neanche rancore nei suoi confronti e non intendo quindi giudicarlo”.
Il tema del tradimento pervade tutta la storia dell’Irlanda, dal re Dermot McMurrough che alla fine del XII secolo si alleò col sovrano normanno Enrico II favorendo la prima invasione dell’isola fino alle moderne rivolte irlandesi, tutte caratterizzate – eccetto quella del 1916 – dalla presenza di spie e informatori. Un tema che è stato raccontato a lungo anche dalla letteratura, basti ricordare al famoso romanzo di Liam O’Flaherty “The Informer” (dal quale John Ford trasse il suo film premio Oscar nel 1936, “Il traditore”) e a grandi scrittori come Jorge Luis Borges, autore del racconto “Tema del traditore e dell’eroe” (contenuto nella raccolta “Finzioni”), che descrive la storia del tradimento di un patriota irlandese e la sua catarsi attraverso la morte. Ma nessuno prima di Sorj Chalandon con “Chiederò perdono ai sogni” era riuscito a costruire un affresco così dettagliato e verosimile del dramma irlandese, a descrivere le complesse sfumature di quel conflitto, e al tempo stesso a raccontare con grande lirismo e sensibilità la psiche del ‘suo’ traditore, solcando i temi della debolezza umana, del perdono e della pietà. La scrittura di questo libro è stato un processo catartico anche per lui. “Un romanzo – ci ha spiegato – può servire anche a interrogare un amico morto, a porgli una domanda, l’unica che purtroppo non ho avuto il tempo di fargli prima che venisse ucciso: la nostra amicizia, almeno quella, era vera?”
RM

Un poeta presidente

La nostra intervista a Michael D. Higgins, presidente della Repubblica d’Irlanda, uscita su Avvenire di oggi

president-michael-d-higgins1L’unico rammarico di Michael D. Higgins, da quando è stato eletto nono presidente della Repubblica d’Irlanda, è quello di aver avuto poco tempo per dedicarsi alla poesia. Impegnato in politica da una vita e diventato la più alta carica istituzionale irlandese nel 2011, Higgins ha trovato nella scrittura poetica la sua stella polare, divenendo un paradigma vivente del rapporto simbiotico che la cultura e la politica hanno da sempre nel suo paese, l’esempio tangibile di come la letteratura e i diritti civili, la poesia e l’impegno pacifista possano dialogare insieme compenetrandosi a vicenda. La sua opera segue la tradizione degli antichi cantori irlandesi “Aisling”, dei poeti feniani dell’inizio del XX secolo ed esprime una riflessione sul mondo che non è mai priva di un richiamo all’impegno in prima persona. “Le parole e il linguaggio hanno caratterizzato tutta la mia vita. Nei discorsi pubblici le parole sono per me uno sfogo, con esse esprimo dolore, angoscia e rabbia”, ci dice accogliendoci nella splendida residenza presidenziale immersa nel verde del Phoenix park, a Dublino. Poeta e filosofo di formazione socialista, da sempre impegnato per la pace e i diritti umani, è quasi inevitabile paragonarlo a un altro grande intellettuale che abitò in queste stanze: quel Douglas Hyde che negli anni ’30 divenne il primo presidente dell’Irlanda indipendente. Hyde traduceva testi popolari in lingua gaelica e fu l’emblema del nazionalismo culturale che lottava per preservare le antiche tradizioni di un passato quasi cancellato da secoli di colonialismo. Higgins è invece impegnato a trasporre sotto forma letteraria le grida dei poveri, degli ‘ultimi’, di tutti quelli che non hanno voce, con una visione assai più globale rispetto al suo illustre predecessore. “Il tema per me più importante – spiega – è il terribile danno che è stato fatto alle persone spegnendo la loro naturale capacità di amarsi reciprocamente. Ed è ciò che mi rende da sempre così critico nei confronti dell’autoritarismo, di qualunque genere esso sia, compreso il tremendo autoritarismo della burocrazia di cui per primo parlò Max Weber”. Il 15 ottobre uscirà per Delvecchio editore Il tradimento e altre poesie, un volume tradotto e curato da Enrico Terrinoni che farà finalmente conoscere la sua opera anche al pubblico italiano.
Il suo poema più famoso, “The Betrayal” (Il tradimento), parla del tradimento dello Stato nei confronti di suo padre e dei repubblicani durante la guerra civile del 1922. Quanto la sua vita e la sua carriera politica sono state segnate da quel fatto?
Nel mio paese ci siamo interrogati a lungo sulle motivazioni di chi lottò per l’indipendenza dell’Irlanda. Quando scoppiò la guerra civile, il fratello di mio padre si schierò tra i favorevoli al trattato (che impose la divisione dell’Irlanda, ndr), mio padre era invece contrario, e per questo fu arrestato e incarcerato. Credo che ogni serio nazionalismo debba essere incentrato sull’egualitarismo. Da sempre, nella tradizione rivoluzionaria dell’Irlanda, ci sono stati quelli che volevano essere liberi in un senso più ampio, non limitarsi alla libertà in campo economico e commerciale. Quelli che volevano per esempio l’uguaglianza nel campo dell’educazione. La mia poesia parla di questo: d’accordo, il paese è diventato indipendente, abbiamo vissuto la tragedia della guerra civile, ma purtroppo una classe dirigente conservatrice e burocratica iniziò da allora a controllare lo stato, voltando le spalle alla sensibilità nei confronti della letteratura, del cinema, delle arti. Questo atteggiamento ha portato ad alcune pessime decisioni per esempio per quanto concerne la censura. Coloro che lottarono per l’indipendenza in quegli anni, come mio padre, sono invecchiati, sono finiti negli ospedali e sono stati abbandonati da chi li aveva derubati del sogno di un’Irlanda libera e indipendente.
Crede che lo stato abbia in qualche modo tradito gli irlandesi anche durante la recente crisi economica?
Non è mio compito criticare i governi che si sono succeduti nel mio paese, ma credo che ci sia stata mancanza di cultura, credo che il concetto che esista un singolo paradigma delle connessioni tra l’economia, la società e la vita sia estremamente sbagliato e pericoloso. Credo che oggi le agenzie di rating abbiano un’influenza sproporzionata sulle politiche europee per contrastare la crisi, e che ciò stia mettendo a rischio il ruolo dei cittadini nel governare le nostre democrazie. Servirebbe invece una pluralità di insegnamenti in campo economico, che avrebbe inevitabili conseguenze anche sulle scelte politiche. Per secoli il mondo occidentale si è battuto per raggiungere una forma compiuta di democrazia, ma adesso è condizionato dalla gestione tecnocratica di un singolo modello economico che è incapace di affrontare una gigantesca bolla speculativa, e che sta di fatto rendendo schiavo il mondo. In questo la penso esattamente come papa Francesco.
Le sue poesie non parlano solo dell’Irlanda. L’America Latina, che lei conosce bene per averci vissuto a lungo, è un altro dei temi centrali. Qual è l’insegnamento che ci giunge, per esempio, da paesi derelitti come il Salvador?
Fui costretto a lasciare El Salvador nel 1982, poco dopo la strage di El Mozote, che è stato definito il peggior massacro di civili della storia dell’America Latina contemporanea, ed è stato toccante tornarci da presidente dell’Irlanda e incontrare i pochi gesuiti sopravvissuti a quel terribile massacro. Le poesie che ho scritto sul Salvador traggono ispirazione dall’esperienza che ho vissuto là, durante il periodo più drammatico della guerra civile. Gli omicidi avevano luogo durante la notte, i corpi venivano abbandonati nelle discariche di rifiuti, orrendamente mutilati, con le mani legate, e recavano sui loro corpi dei segni che erano quasi una firma dei loro assassini. Vedere quelle cose ti costringeva a fare i conti con la tua coscienza, e ad accettare la trasformazione che avveniva anche dentro te stesso, sia fisicamente che spiritualmente. Questa è forse la sfida dei nostri tempi, dove uno come me che è da sempre molto interessato alle teorie socialiste senza essere un materialista, deve prendere la vulnerabilità e le ferite del mondo dentro di sé ed essere capace di sperimentare la gioia della solidarietà. Stiamo vivendo adesso uno dei nostri momenti più bui perché ci troviamo di fronte a omicidi di massa e stragi contro minoranze religiose. Eventi che sono basati su un’interpretazione distorta delle profezie. Ci troviamo in un’epoca che necessiterebbe davvero di una leadership globale.
Un anno fa ci lasciava la voce poetica e l’intellettuale di maggior spicco di tutta l’Irlanda. Qual è l’eredità più preziosa che Seamus Heaney ha lasciato al suo paese?
Il valore della generosità. Nella sua vita Seamus non ha mai posto limiti alle cose che faceva, e che avrebbe fatto per gli altri. È bene anche ricordare che lui, insieme a Michael Longley, a Derek Mahon e ad altri poeti del Nord Irlanda aveva una profonda conoscenza dei miti greci che gli consentiva di dare forma alla modernità in un modo tutto suo. Credo che, in particolare, la lingua di Heaney abbia avuto qualcosa di straordinario. Era una lingua che nasceva dalla collisione di due idiomi: l’irlandese e l’inglese. Le sue poesie esprimevano anche un grande senso di non perdere l’opportunità, nella nostra vita, di cogliere i momenti d’amore e farne tesoro. Se penso a Heaney penso all’amicizia, alla generosità verso il prossimo e alla sua disponibilità verso i giovani.
RM

De Valera non fu una spia degli inglesi

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Prima ancora di arrivare nelle librerie, la nuova biografia di Eamon De Valera è già stata rigettata, sconfessata, persino definita ‘farsesca’ dai più prestigiosi storici d’Irlanda. Secondo l’autore del volume (John J. Turi, un ufficiale di marina in pensione che vive nel New Jersey), il padre della moderna nazione irlandese, l’uomo che Winston Churchill considerava l’incarnazione del demonio, sarebbe stato addirittura una spia al soldo degli inglesi. Con queste premesse, quello che era stato presentato come il libro-scandalo, dalle rivelazioni scioccanti su una figura controversa e monumentale – anche a causa della sua longevità – rischia di rivelarsi poco più che carta straccia. Nelle sue 470 pagine England’s Greatest Spy: Eamon de Valera sostiene che “Dev” era letteralmente terrorizzato dall’idea di essere fucilato dopo la rivolta di Pasqua del 1916 e che si sarebbe venduto al nemico pur di salvarsi. Turi basa la sua tesi sull’analisi dei primi oscuri anni di un uomo destinato ad attraversare, nel bene o nel male, oltre mezzo secolo di storia irlandese, prima come rivoluzionario, poi da capo di governo, infine ricoprendo la carica di presidente della Repubblica. Passa in rassegna prima di tutto le radici misteriose del presidente a New York, la figura della madre e dello zio irlandese, che lo trattò freddamente per tutta la vita: rapporti difficili che sarebbero stati alla base di una personalità inadeguata e facilmente influenzabile. Da qui parte lo studioso di chiare origini italiane, che arriva a definire De Valera “un codardo e un incompetente mentalmente instabile”. Proprio la sua fragilità lo avrebbe reso una facile esca, contribuendo a farlo diventare un collaboratore dall’intelligence inglese. Continua a leggere “De Valera non fu una spia degli inglesi”