De Chirico e l’arte cancellata dal fascismo

Avvenire, 15.2.2018

Prima che le leggi razziali scavassero un solco incolmabile nelle vite di tanti ebrei italiani, il potere salvifico dell’arte cominciò a prendere forma sulle pareti di una splendida casa fiorentina che oggi ospita il museo Casa Siviero. Il ritratto che Giorgio de Chirico fece a Matilde Forti nel 1921 si trova ancora là, appeso nel salotto. Lo sguardo malinconico della donna, fissato sulla tela dal maestro della pittura metafisica italiana, sembra quasi prefigurare ciò che sarebbe accaduto di lì a poco. Quel quadro è una delle poche opere rimaste della più grande collezione privata di opere di de Chirico, ma è anche il simbolo di una stagione artistica che è stata spazzata via per sempre dal fascismo e dalle leggi razziali varate ottant’anni fa.

“Ritratto di Matilde Forti” di Giorgio de Chirico

In quel villino affacciato sull’Arno, nel centro di Firenze, visse Giorgio Castelfranco, lo storico dell’arte che negli anni ‘20 scoprì de Chirico quand’era ancora un artista poco noto, ospitandolo a lungo in casa sua e cominciando raccogliere quella che sarebbe diventata la più ricca collezione al mondo delle sue opere. Nel 1938, prima di finire travolto come tanti altri intellettuali dell’epoca dalle conseguenze della legislazione razziale, Castelfranco era il direttore dei musei di Palazzo Pitti, a Firenze, nonché una delle personalità di maggior spicco nel mondo dell’arte italiana. La sua storia rivive nelle memorie di sua nipote, Sonia Obersdorfer (La tela di Sonia. Affetti, famiglia e arte nelle memorie di una maestra ebrea, edizioni Giuntina), che offrono una prospettiva intima e in parte inedita su quegli anni. Seguendo i ricordi di Sonia è possibile ricostruire, stanza per stanza, la collocazione delle opere nelle varie sale del villino. I dipinti si trovavano nelle stanze che danno sul giardino: la sala da pranzo, il salotto, la sala decorata, la camera da letto di Giorgio Castelfranco e Matilde Forti, infine lo studio di Castelfranco, dove campeggiava tra gli altri il capolavoro di De Chirico, Le muse inquietanti. Quella casa dove il grande pittore lavorava spesso “immusonito e cupo” era un luogo – racconta l’autrice – “dove si respirava la cultura, il generale veniva anteposto al particolare, venivano affrontati nella conversazione problemi estetici, morali, sociali, religiosi. L’‘era fascista’ veniva giudicata e se ne vedevano le grosse crepe”. Fino alla metà degli anni ‘30 il salotto della casa ospitò decine di visitatori illustri, da Ottone Rosai a Giovanni Papini, da Alberto Savinio al futuro “007 dell’arte” Rodolfo Siviero, che nei suoi diari ricorda così quegli anni: “i quadri che decoravano la casa dell’ospite davano quasi l’impressione di una mostra retrospettiva di de Chirico. Le famose nature morte, le anguille e i peperoni, i manichini e le muse inquietanti sembravano rivivere nelle spiegazioni e nei commenti dell’autore”. Ma nei suoi ricordi di bambina, Sonia rievoca anche quell’estate del 1938 in cui lo zio Castelfranco preconizzò quello che stava per accadere: “notammo il suo viso più pensieroso del solito. Alla sera ci parlava delle nubi che andavano addensandosi sull’Europa, della guerra che sembrava inevitabile, della condizione degli ebrei nei paesi nazisti e della probabilità che in Italia il fascismo assumesse lo stesso atteggiamento nei loro confronti. Io lo consideravo una specie di Cassandra e non volevo credere alle sue parole”. Sonia non ebbe neanche il tempo di ricredersi, perché il 5 settembre di quell’anno un regio decreto dispose l’espulsione immediata di tutti gli studenti ebrei dalle scuole italiane, la sospensione dal servizio di tutti i docenti ebrei, nonché del personale scolastico. Due settimane più tardi, davanti alla folla riunita in piazza dell’Unità a Trieste, Mussolini pronunciò il famoso discorso nel quale annunciava le leggi razziali e attaccava anche papa Pio XI, che aveva definito “inammissibile” l’antisemitismo. Di lì a poco centinaia di studiosi, accademici, docenti e studenti di ogni ordine e grado furono cacciati dalle scuole e dalle università, costretti all’esilio forzato in un cammino senza ritorno che avrebbe relegato la comunità ebraica italiana ai margini della vita sociale e produttiva del paese. Sonia e la sorella Lea furono licenziate dalla scuola dove insegnavano, loro padre venne cacciato dalle ferrovie, lo zio dalla direzione di Palazzo Pitti. L’epurazione di Castelfranco avvenne peraltro in uno dei periodi più critici per il patrimonio artistico italiano, proprio nei mesi in cui la sua straordinaria competenza sarebbe stata preziosa per favorire la messa in sicurezza e l’esodo delle opere d’arte in vista della guerra. Sia i Castelfranco che gli Oberdorfer sarebbero stati costretti a lasciare Firenze per sfuggire alle deportazioni, come tante altre famiglie ebree. Giorgio Castelfranco riuscì a sopravvivere e a mettere in salvo i propri figli mandandoli negli Stati Uniti solo grazie alla vendita della sua straordinaria collezione di de Chirico, mentre il suo villino sul lungarno fu messo a disposizione di Rodolfo Siviero e della sua squadra di “monuments men” impegnati nel salvataggio delle opere d’arte trafugate dai nazisti. Subito dopo l’Armistizio lo storico dell’arte fece ritorno a Firenze e partecipò alla missione italiana per il recupero delle opere d’arte in Germania, guidata dallo stesso Siviero. Curato dalle storiche Marta Baiardi, Alessia Cecconi e Silvia Sorri, La tela di Sonia racconta la cesura esistenziale insanabile che sgretolò nuclei familiari in fuga dai rastrellamenti nazisti, ma anche la rinascita che fu possibile grazie ai rapporti umani e alla potenza dell’arte. Il dipinto di Matilde Forti, simbolo di quella rinascita, si salvò perché la moglie di Castelfranco volle regalarlo a Siviero, in segno di stima e di riconoscenza per l’aiuto offerto in quegli anni.
RM

“Tusitala”, tra memoria e finzione

Una storia che unisce passato e presente sulle orme del famigerato tesoro di Hermann Göring, tra intrighi internazionali e vicende personali. Tusitala, il bel romanzo d’esordio di Leonardo Sacchetti, prende spunto da una leggenda risalente all’epoca dell’occupazione nazista e si avvale di uno studio approfondito delle fonti per riportare in vita personaggi realmente esistiti. Sullo sfondo c’è la provincia di Firenze nell’inverno del 1943, con la popolazione stretta nella morsa dell’assedio nazista e dei bombardamenti alleati, e una delle fabbriche più importanti d’Italia – la Manifattura di ceramiche Richard Ginori di Sesto Fiorentino – al cui interno accade un fatto che innesca l’intera storia. “Nasce tutto da un ricordo di mio nonno Walter, che ha lavorato nella fabbrica per lunghi anni come operaio – spiega Sacchetti – non l’ho mai conosciuto ma in famiglia sentivo parlare spesso di quelle porcellane artistiche di grande valore che sarebbero state caricate, di notte, su un treno per essere trasportate in Germania mentre gli aerei americani bombardavano l’area”. Obiettivo delle bombe alleate era il feldmaresciallo Göring, braccio destro di Hitler e tra i principali responsabili delle razzie di opere d’arte nei paesi occupati durante la guerra. Il “Ciccione”, così è apostrofato nel romanzo, era arrivato a Firenze in quei giorni per sovrintendere al furto dei pezzi più pregiati dai musei fiorentini. Col tempo il suo straordinario tesoro sarebbe diventato talmente introvabile da trasformarsi in una sorta di Sacro Graal per gli Indiana Jones dell’era moderna. Nella vicenda raccontata in Tusitala, oltre a Göring, compaiono altri personaggi reali come Rodolfo Siviero, detto lo “007 dell’arte”, l’agente segreto che dedicò tutta la vita alla ricerca di opere razziate dai nazisti in Italia e anche i membri del movimento neonazista “Stille Hilfe”, per decenni impegnato nell’aiuto agli ex gerarchi e qui intento a ricostruire Karinhall, la leggendaria casa-museo di Göring “per far tornare a splendere il sole sul Reich”. Ma ciò che l’autore fa emergere con maggiore efficacia dalla narrazione sono i frammenti della memoria di suo nonno, il suo amore per la Manifattura, le sofferenze del Dopoguerra e le lotte sindacali che negli anni ‘50 gli costarono il licenziamento. E riesce a far rivivere, d’un sol colpo, la storica fabbrica sestese che per due secoli ha avuto sede in una villa medicea recentemente riconvertita in biblioteca. “Da anni la storia costruita intorno a queste memorie familiari era appuntata su decine di fogli sparsi”, spiega Sacchetti. “È come se col tempo questi fogli si fossero assemblati prima nella mia testa e poi, con non poco impegno, in una struttura a romanzo popolare d’avventura, trovando una chiave narrativa come il giallo per parlare d’amicizia, di storia e di rapporti con il passato”. La vicenda si ricollega infatti ai giorni nostri raccontando un’altra sparizione, stavolta di testi antichi dalla casa di un anziano collezionista. La conseguente ricerca del tesoro perduto diventa un viaggio nella memoria che fornisce ai protagonisti l’occasione per fare i conti con il proprio passato. Tusitala (“il racconta-storie”, in lingua samoana) è il nome della barca dove s’incontrano i protagonisti del libro ma anche un omaggio al grande Robert Louis Stevenson, che così fu soprannominato dagli indigeni dei mari del Sud. Un ritmo veloce ma non frenetico, una scrittura asciutta e un intreccio narrativo che si dipana attraverso varie epoche storiche, tra realtà e finzione verosimile: tutto contribuisce a fare di Tusitala un esordio più che convincente.
RM

(Recensione uscita su “Left” del 9 marzo 2012)