Ricordando Salvador, 40 anni dopo

di Gianni Sartori

Il garrote, lo strumento che la mattina del 2 marzo 1974 spezzò le vertebre cervicali di Salvador Puig Antich (“Metge”) ponendo fine in maniera ignobile alla sua breve vita di meccanico-studente-guerrigliero (o “rapinatore” secondo lo Stato) evocava sicuramente fosche atmosfere da Santa Inquisizione, ma in realtà era quasi contemporaneo della ghigliottina e ideato con i medesimi intenti: una morte rapida che evitasse al condannato sofferenze inutili. Da questo punto di vista, bisogna dire, si dimostrò molto al di sotto delle aspettative, diventando nell’immaginario collettivo un vero e proprio strumento di tortura.

Salvador Puig Antich
Salvador Puig Antich

Come Praga per Jan Palach nel 1968 e Belfast per Bobby Sands nel 1981, così tutta Barcellona reagì con rabbia a questa esecuzione, interpretata come un’aggressione all’intero popolo catalano oltre che l’ennesimo atto di barbarie del franchismo. Già poche ore dopo la diffusione della notizia, centinaia di persone scendevano in strada, nonostante il rischio di venire arrestati, per manifestare la propria indignazione. Era un giorno invernale, grigio e umido. Centinaia di persone sfilarono per le Ramblas portando striscioni e bandiere; altrettante si riunirono nelle chiese per leggere comunicati di condanna per l’esecuzione del giovane militante libertario. Lo stesso accadeva nei vari quartieri popolari e nei paesi della cintura industriale, da Terrassa a Sabadell. Salvador Puig Antich venne frettolosamente sepolto il giorno dopo nel cimitero di Montjuic. Qui si riunirono circa 500 persone a cui, con cariche e arresti, venne impedito di assistere alla tumulazione. Tra la folla molti ostentavano drappi rossi e rosso-neri. Dopo le cariche della polizia a cavallo l’intera zona rimase ricoperta degli innumerevoli fiori che i manifestanti avrebbero voluto deporre sulla tomba di Metge. L’ordine era di arrestare tutti coloro che portavano “fiori rossi”.
Anche in quei giorni di repressione particolarmente efferata da parte del regime, la Chiesa catalana mantenne il suo tradizionale ruolo di garante e portavoce della comunità popolare, restando nel contempo depositaria della lingua e della cultura nazionali contro ogni tentativo di estirparle. Qualche vecchio antifranchista, all’epoca poco più che ventenne e poi approdato all’indipendentismo radicale, ricorda ancora la paura di quei giorni dedicati agli appuntamenti clandestini e alla distribuzione di manifesti, sfuggendo ai controlli e ai posti di blocco. Risale ad allora l’espulsione dall’Università di gran parte degli studenti di Barcellona e Valencia che avevano partecipato attivamente alle manifestazioni e agli scontri con la polizia del 4 marzo. Invece all’ospedale cittadino centinaia di medici e infermieri espressero la loro indignazione silenziosamente, portando attorno al braccio una fascia nera in segno di lutto. Continua a leggere “Ricordando Salvador, 40 anni dopo”

Barcellona come Guernica e il mito degli “italiani brava gente”

Dino Messina sul “Corriere della Sera” del 17 marzo 2013

Che nei cieli e per le strade di Barcellona tra il 16 e il 18 marzo 1938 fosse avvenuto qualcosa di terribile gli italiani lo appresero subito attraverso le corrispondenze del “Corriere della sera”, il più diffuso giornale italiano, dal 1925 controllato dal regime. Già il 18 marzo il quotidiano milanese titolava: «Il popolo di Barcellona chiede la resa», il 20 avvertiva: «Barcellona abbandonata da centinaia di migliaia di abitanti — scene di terrore e di rivolta». E il 21: «Barcellona stremata». I corrispondenti come lo scrittore Guido Piovene o l’inviato Mario Massai sottolinearono la gravità dell’impatto che i bombardamenti dell’aviazione italiana avevano avuto sul corso della guerra ma si guardarono bene dal denunciare, come fece il Times di Londra, che almeno seicento abitanti in tre giorni avevano perso la vita (in realtà circa il doppio), tantissimi bambini, per lo più residenti nei quartieri popolari. Fu subito chiaro, insomma, che la strage non era stata causale ma voluta, per un preciso ordine arrivato all’improvviso da Benito Mussolini in persona. Tutto scritto, tutto documentato dalle cronache dell’epoca, nelle pagine del diario del ministro degli Esteri italiano e genero del Duce, Galeazzo Ciano, nei libri scritti dagli storici italiani, da Giorgio Rochat (“Le guerre italiane 1935-1943″) a Lucio Ceva, “Spagne 1936-1939″.
Eppure ben poco della verità sull’orrore scatenato dai bombardieri italiani decollati dalle Baleari con l’ordine preciso di colpire e seminare terrore è giunto alla nostra opinione pubblica. Per prendere coscienza delle responsabilità italiane nel primo “civil bombing” di una grande città europea forse occorrerebbe un atto pubblico simile a quello compiuto dal presidente tedesco Roman Herzog che nel 1997, nel sessantesimo anniversario di Guernica (26 aprile 1937), chiese scusa alla gente spagnola. Guernica-Barcellona un paragone azzardato? Nient’affatto. Altri se ne potrebbero fare. Per esempio con Durango, la cittadina della Vizcaya che il 31 marzo 1937 venne attaccata da squadriglie italiane che distrussero case e uccisero 289 persone.  Barcellona tuttavia resta una pietra miliare del terrore e forse è venuto il momento, dopo aver analizzato per circa un ventennio gli effetti che la «guerra ai civili» ha avuto sul suolo italiano (dai rastrellamenti nazisti dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 ai bombardamenti dell’aviazione Alleata), che gli storici facessero uno sforzo pari in direzione diversa. Raccontarci, cioè, dall’Etiopia ai Balcani, dalla Grecia alla Spagna la guerra vista dalla parte delle vittime, con gli italiani nelle vesti di aggressori. Non che manchino studi di questo tipo, da Angelo del Boca in poi, ma si sente soprattutto in ambito divulgativo, una reticenza lontana. Quella che deriva dall’auto rappresentazione di «italiani brava gente», ma anche da una mancata Norimberga successiva al fascismo e, non ultimo, dal fatto di essere entrati nella Seconda guerra mondiale con una casacca e nell’esserne usciti con un’altra.
Il bombardamento di Barcellona, così come tutti gli altri atti di terrore dall’aria durante l’aggressione alla Repubblica spagnola, è il frutto ideologico, militare e politico di una storia tutta italiana. Il punto di vista militare e ideologico risale a Giulio Dohuet, che ben prima del britannico Hugh Trenchard, cioè negli anni Venti, con un’opera ancora oggi citata in tutti i manuali di strategia militare, “Il dominio dell’aria”, anticipò il concetto del «civil bombing»: «Immaginiamoci una grande città che, in pochi minuti, veda la sua parte centrale, per un raggio di 250 metri all’incirca, colpita da una massa di proiettili dal peso complessivo di una ventina di tonnellate…». Sembra la profezia di quanto sarebbe avvenuto a Barcellona dove i bombardieri Savoia Marchetti 79 in un paio di giorni sganciarono circa 44 tonnellate di esplosivi.
E a un’azione dimostrativa che seminasse terrore, come ha raccontato anche Edoardo Grassia, pensava Mussolini quando pochi minuti prima di pronunciare alla Camera il suo discorso in reazione all’Anschluss dell’Austria da parte delle truppe di Hitler, diede l’ordine al Capo di Stato Maggiore della Regia aeronautica di «iniziare azione violenta su Barcellona con martellamento diluito nel tempo». Nessuna consultazione con altri organismi militari, nemmeno con Franco. Fu una decisione di Mussolini per seminare terrore. E nelle intenzioni anche una cinica operazione mediatica per recuperare terreno rispetto all’iniziativa di Hitler e magari rimediare alla figuraccia ancora non dimenticata della disfatta di Guadalajara. La riprova delle intenzioni di Mussolini si ha nel diario di Galeazzo Ciano, quando annota la reazione del duce alle proteste di parte britannica: «Quando l’ho informato del passo di Perth (ambasciatore inglese a Roma, ndr), non se ne è molto preoccupato, anzi si è dichiarato lieto del fatto che gli italiani riescano a destare orrore per la loro aggressività anziché compiacimento come mandolinisti».
A Mussolini il progetto di trasformazione antropologica del popolo italiano non riuscì ma il fascismo portò «la brava gente» a macchiarsi di crimini di cui dobbiamo chiedere scusa.

Il mondo cambia, i separatisti no

(di Sandro Viola)

imagesCambia tutto, in Europa. Classi dirigenti, governi, politiche economiche. Col passare degli anni, anche i fenomeni che sembravano più radicati e costanti s’ avviano al declino. Ma l’ Eta non cambia. Solo la furia dell’ Eta, infatti, non declina. L’ offensiva degli indipendentisti baschi contro lo Stato spagnolo resta a costituire ancora oggi, così come lo ha fatto nell’ ultimo mezzo secolo, “l’ anormalità spagnola”. Due generazioni di terroristi che erano emerse (ancora in pieno franchismo) dalla regione basca, sono state falcidiate dagli arrestio dalle armi delle forze dell’ ordine. Ma i loro eredi continuano ad illudersi di poter condurre nel XXI secolo, in uno dei paesi più civili e tolleranti d’ Europa, una “guerra popolare prolungata” sui modelli sudamericani degli anni Sessanta del secolo scorso. I due attentati degli ultimi due giorni, a Burgosea Palma di Maiorca, in due posti tanto disparati come il nord del paese e le sue isole, sono venuti a dimostrare esattamente questo: l’ Eta non cambia. Il consenso di cui aveva goduto sino a un decennio fa tra la popolazione basca, si è man mano eroso. Continua a leggere “Il mondo cambia, i separatisti no”