La memoria lunga di Boris Pahor

da “Avvenire” di oggi

DSC_9024_1_48998192_300Ormai giunto sulla soglia dei 103 anni, Boris Pahor ha ancora la forza per scrivere, per tenere conferenze, per incontrare i giovani. E la voglia d’indignarsi. Sloveno di cittadinanza italiana, nato a Trieste quando la città faceva ancora parte dell’Impero asburgico, Pahor ha vissuto in prima persona i più grandi orrori del passato recente: la repressione fascista della Venezia Giulia, i due conflitti mondiali, l’esperienza nei campi di concentramento nazisti, infine il duro ostracismo comunista subito ai tempi di Tito. È autore di decine di opere tradotte in ogni parte del mondo, tutte di contenuto sociale, molte delle quali legate a esperienze di vita vissuta, ed è stato più volte candidato al Nobel. Come scrittore ha ottenuto un successo tardivo in parte ripagato da una straordinaria longevità, che l’ha reso ormai l’ultima memoria letteraria del Secolo breve. Anche per questo sente il dovere morale di denunciare la deriva etica dei nostri tempi, mettendo in guardia soprattutto le giovani generazioni. È quanto ha fatto, in modo esemplare, con Quello che ho da dirvi, un libro edito dalla casa editrice Nuova Dimensione che raccoglie i dialoghi di questo grande testimone della Storia con sei studenti diciottenni. In Slovenia, dove ha trascorso il passaggio al nuovo anno, ci ha concesso un’intervista nella quale non nasconde il suo stupore e il suo rammarico per una gioventù “che conferma di essere sempre più ignara della barbarie del XX secolo e delle tragiche rimozioni della storia che hanno condizionato la questione del confine orientale, e non solo”. Ma non è soltanto questo il motivo per cui esprime profonda preoccupazione per il futuro. “Di questo passo, andremo definitivamente verso la rovina”, ammonisce. “Mi riferisco ai bombardamenti decisi dai governi francese, inglese e statunitense per reprimere il fondamentalismo islamico. Purtroppo l’11 settembre non ci ha insegnato niente. Le parole di Noam Chomsky, che nel 2001 fu uno dei primi a denunciare la necessità per l’Occidente di fare un serio esame di coscienza, sono rimaste inascoltate e nessuno si preoccupa di comprendere le cause di quanto sta accadendo”. “Cercando di distruggere il terrorismo in questo modo non faremo altro che radicalizzare i terroristi sempre di più”. Per rispondere alla minaccia del sedicente stato islamico, sostiene, “dovremo fare qualcosa di simile a quanto è stato fatto con il clima. Vorrei vedere tutti i governanti della Terra riuniti in una specie di congresso mondiale, per fare in modo che nel XXI secolo non esistano più le enormi disuguaglianze che purtroppo vediamo ancora oggi. Non è concepibile che una larga parte dell’umanità continui a soffrire la fame, la povertà, le malattie”.
Tra i giovani Pahor vuole gettare semi per un futuro migliore, lasciando dietro di sé un messaggio che vada oltre i suoi libri. È questo il senso profondo della lunga conversazione che ha intrapreso con questi ragazzi sull’identità e la lingua, la storia e la cultura. Ma anche su Dio e sulla fede. Temi sui quali, richiamando Spinoza e Einstein, afferma di avere un’anima panteista, di essere cioè religioso ma non credente e di essere diventato ateo durante gli anni del lager, come rivelò qualche anno fa. “Di fronte all’infinitezza dell’universo mi inchino e capisco di non essere nessuno, di non contare niente. E sull’idea della divinità, penso che l’uomo sia stato creato libero e come essere libero sia responsabile di quello che fa”. Eppure, gli anni cruciali della sua giovinezza, quelli in cui i fascisti cercarono di annientare l’identità culturale degli sloveni triestini – un tema che ricorre in quasi tutte le sue opere – videro persino una lunga esperienza in seminario e studi di teologia portati avanti fino all’età di 25 anni. “Ma non ho mai voluto diventare sacerdote”, precisa. Di lì a poco, Pahor fu deportato dai nazisti per aver collaborato con la resistenza antifascista slovena. La distruzione dell’identità del suo popolo avrebbe avuto su di lui un effetto indiretto anche in seguito, quando non riuscì in alcun modo a trovare un editore italiano disposto a pubblicare il suo capolavoro, Necropoli. “Lo mandai all’Espresso, all’attenzione di Primo Levi, ma anni dopo venni a sapere che non gli fu mai sottoposto, semplicemente perché un autore tradotto dallo sloveno all’italiano non poteva avere un editore”. L’opera, un doloroso viaggio nella memoria dei suoi giorni nel lager di Natzweiler-Struthof, uscì per la prima volta in Slovenia nel 1967 ma dovette aspettare oltre quarant’anni dalla sua prima stesura per essere scoperta da un editore italiano (Fazi). Nel frattempo, a partire dagli anni ’70, Pahor era stato bandito anche dalla Jugoslavia socialista per le sue critiche nei confronti del regime di Tito. Proprio in Necropoli, scrisse che dopo tutto il male che aveva attraversato il XX secolo non sarebbero bastati cento, forse duecento anni per ristabilire una vita normale. “Oggi servirerebbe un governatore mondiale – ci dice – qualcuno che possa gestire tutta la Terra, una sorta di padre che cerchi di stabilire una democrazia senza il dominio di nessuno. Era anche un’idea di Dante: l’imperatore come guida per tutti e il papa per il dominio spirituale”. In questo senso, Pahor sostiene d’aver apprezzato moltissimo l’anatema di papa Francesco contro tutte le guerre e il suo recente viaggio apostolico in Africa: “la mia speranza è che Bergoglio riesca ad agire concretamente per promuovere la giustizia sociale e la riduzione delle disuguaglianze”.
RM

Giustizia per gli Einstein

di Riccardo Michelucci
da “Diario”, anno X, n. 28, 15 luglio 2005

La galleria fotografica

San Donato in Collina (Firenze), luglio 2005
“Abbiamo giustiziato i componenti della famiglia Einstein rei di tradimento e giudei”. La mattina del 4 agosto 1944, tra le fiamme di Villa Il Focardo, un foglio scritto in tedesco e attaccato a un albero spiegava la folle logica che stava dietro a uno dei tanti eccidi compiuti dai nazi-fascisti in provincia di Firenze. Oltre sei decenni dopo sembra arrivato il momento di smentire la tragica spiegazione di quel foglio e individuare finalmente i colpevoli della strage. Robert Einstein, cugino di primo grado del grande scienziato, aveva trascorso con la sua famiglia gli ultimi anni della guerra nella bella villa immersa nel verde in località Le Corti, nei pressi di Rignano sull’Arno. Dopo l’armistizio italiano dell’8 settembre 1943 una divisione della Wermacht aveva occupato la villa per farne il proprio quartier generale costringendo la famiglia a restringersi nella vicina fattoria. Sebbene Robert Einstein fosse ebreo, per mesi la sua famiglia non venne molestata dagli ufficiali dell’esercito regolare tedesco. Il drammatico equilibrio, fatto di diffidenza e rispetto, speranza e paura, che si creò tra la famiglia e gli occupanti è stato ricostruito splendidamente da Lorenza Mazzetti, una delle nipoti degli Einstein scampata alla strage. “Il cielo cade”, vincitore del premio Viareggio nel 1961, racconta mesi di convivenza con i nazisti visti con gli occhi di una bambina. Fino al tragico e apparentemente inaspettato epilogo. Nell’estate del 1944, con l’avanzare delle truppe alleate nel Valdarno e i nazisti che si preparavano agli ultimi scontri prima della ritirata, donne, vecchi e bambini del paese si rifugiarono nei boschi intorno alla villa per scampare alle rappresaglie naziste. Ricercato da gruppi di SS, anche Einstein decise di nascondersi mentre la moglie e le due figlie, non essendo ebree, restarono alla villa ignorando i consigli dei comandanti partigiani che le avevano messe in guardia circa la pericolosità di tale scelta. Verso le dieci di sera del 3 agosto 1944 le raffiche dei mitra tedeschi trucidarono Cesarina Mazzetti, 56 anni, moglie di Robert Einstein, e le due figlie Annamaria, di 18 anni, e Luce, di 27. Poi i nazisti dettero fuoco alla villa e scapparono. La mattina del 4 agosto, neppure otto ore dopo la strage, un gruppo di alleati giunse al Focardo. Un giovane in abiti borghesi scese da una delle camionette e chiese degli Einstein. Quando il fattore lo accompagnò tra le macerie e gli mostrò le salme delle tre donne il giovane non riuscì a trattenere le lacrime. Era il maggiore della Quinta Armata Milton Wexler, un fisico americano allievo di Albert Einstein, e si trovava in Italia da tre mesi al seguito delle truppe alleate nella speranza di poter ritrovare vive le persone care del suo maestro. Robert Einstein era riuscito a scampare alla furia nazista nascondendosi nel bosco, ma il 13 luglio dell’anno dopo, nel giorno dell’anniversario del suo matrimonio, sopraffatto dal dolore e deluso perché i responsabili del massacro non erano stati trovati, si suicidò nelle stesse stanze della villa dov’era avvenuta la strage. Continua…