Il rischio secessione va al voto in Bosnia

Avvenire, 24.9.2016

de490dbf-cb17-40c6-b05e-732764f709bd_w987_r1_sÈ alta la tensione in Bosnia-Erzegovina in vista del referendum che si terrà domani nel territorio della Repubblica Srpska, l’entità a maggioranza serba del Paese balcanico. Una consultazione referendaria soltanto consultiva e con un quesito apparentemente innocuo (“volete che il 9 gennaio sia celebrato come Giorno della Republika Srpska?”) ma che in realtà riporta alla memoria vecchi fantasmi e rischia di mettere in discussione gli Accordi di Dayton, che vent’anni fa fecero cessare il brutale conflitto etnico nella regione. La Corte Costituzionale bosniaca ha dichiarato “discriminatoria nei confronti degli altri popoli costitutivi” la festività voluta dai serbi e ha chiesto alle autorità di Banja Luka di sospendere il referendum ma il nazionalista Milorad Dodik, presidente della RS che da anni minaccia la secessione da Sarajevo, è deciso comunque ad andare avanti anche in vista delle elezioni locali che si terranno tra due settimane. A niente sono servite finora le critiche mosse da Washington e da Bruxelles mentre il Peace Implementation Council, il comitato di 55 stati e organizzazioni internazionali che vigila sul rispetto di Dayton, ha fatto sapere che non tollererà alcuna violazione degli accordi. Chiamando alle urne circa 1,2 milioni di elettori Dodik ha ribadito che la consultazione referendaria non è un’attività contraria a Dayton, sebbene il suo svolgimento comprometta inevitabilmente l’autorevolezza della Corte Costituzionale. Ma la data scelta per la festività serba ha un significato ben preciso: il 9 gennaio, giorno di Santo Stefano per il calendario ortodosso, è anche l’anniversario della proclamazione unilaterale della Repubblica del Popolo Serbo di Bosnia-Erzegovina voluta nel 1992, alla vigilia della guerra, da Radovan Karadzic, il teorico della pulizia etnica condannato a 40 anni di carcere per genocidio e crimini contro l’umanità.
Nell’ex Jugoslavia i referendum sono sempre stati usati come arma politica fin da quando l’area iniziò a disintegrarsi, e quelli su indipendenza e identità nazionale hanno quasi sempre innescato scontri e spargimenti di sangue. I politici di Sarajevo temono che il voto di domani sia soltanto il primo passo di un piano secessionista pericolosissimo per i fragili equilibri interni della Bosnia. Timori condivisi anche da Valentin Inzko, Alto Rappresentante internazionale che detiene ancora i poteri esecutivi nella regione. Belgrado ha affermato di non sostenere il referendum e lunedì scorso, durante i lavori dell’Assemblea generale dell’Onu, il premier serbo Aleksandar Vucic ha ribadito la necessità di preservare la pace a ogni costo. A soffiare sul fuoco ci ha pensato però l’ex generale Sefer Halilovic, comandante delle forze bosniache durante il conflitto degli anni ’90, secondo il quale la consultazione violerà gli accordi di Dayton e provocherà scontri che segneranno la fine della Repubblica Srpska. Dodik ha replicato minacciando l’immediata separazione dell’entità serbo-bosniaca dal resto della Bosnia in caso di violenze e atti ostili al referendum. “Siamo in grado di difenderci militarmente in caso di attacco”, ha sottolineato il presidente della RS, che due giorni fa ha incontrato Vladimir Putin a Mosca, ufficialmente per discutere di questioni economiche. La Russia è finora l’unico stato che si è detto favorevole alla consultazione popolare. In questo quadro, è di buon auspicio almeno la decisione del Consiglio UE, che ha appena dato il via libera alla procedura d’adesione della Bosnia.
RM

I serbi di Bosnia sfidano Dayton

Non sono pochi i timori della comunità internazionale nei confronti del referendum che si terrà in Bosnia-Erzegovina domani, domenica 15 novembre, e che rappresenta una chiara minaccia nei confronti della stabilità e della pace nello stato bosniaco. La consultazione è stata voluta a tutti i costi dal presidente della Repubblica Srpska Milorad Dodik, l’entità serbo-bosniaca dell’area, che ha chiesto e ottenuto il consenso dell’assemblea legislativa su un referendum popolare che potrebbe di fatto delegittimare la fragile architettura istituzionale faticosamente creata dalle ceneri del brutale conflitto degli anni ’90. dodik2I cittadini saranno chiamati a esprimersi su un unico quesito referendario, apparso tutt’altro che imparziale già nella sua formulazione: “sostieni le leggi incostituzionali e non autorizzate imposte dall’Alto Rappresentante e dalla comunità internazionale in Bosnia-Erzegovina, in particolare le leggi imposte sulla Corte statale e il Procuratore e l’attuazione delle loro decisioni sul territorio della Repubblica Srpska?”. Criticando la figura dell’Alto Rappresentante delle Nazioni Unite incaricato di sorvegliare sul processo di pace in Bosnia si mettono di fatto in discussione gli accordi di Dayton del 1995 – dei quali in questi giorni ricorre peraltro il ventennale – e si rischiano di compromettere anni di progressi verso la pace e la stabilità nella regione. Il nazionalista Dodik ha sottolineato lo spirito della sua iniziativa usando parole forti, spiegando all’assemblea che “si tratta di scegliere tra preservare la nostra costituzione e i nostri diritti internazionali o continuare sulla strada della degradazione dei diritti della Republika Srpska”. Se l’esito del referendum sarà quello da lui auspicato, le istituzioni dell’entità serbo-bosniaca potranno disobbedire al potere giudiziario federale, avviando di fatto la distruzione del sistema giuridico creato nel dopoguerra. Secondo molti osservatori, la consultazione di domenica equivarrebbe addirittura a una forma velata di dichiarazione d’indipendenza da parte dell’entità serbo-bosniaca, un primo passo verso una secessione dalle conseguenze imprevedibili, specie adesso che la forza internazionale di peacekeeping presente sul territorio è stata ridotta a poche centinaia di effettivi. Con la secessione della repubblica serba di Bosnia soltanto la federazione croato-musulmana resterebbe a far parte dell’attuale Bosnia Erzegovina, ma di fatto imploderebbe l’intera architettura amministrativa e politica costruita a Dayton venti anni fa. Il primo a denunciare questa situazione è stato l’Alto Rappresentante Valentin Inzko, che nelle settimane scorse ha inviato da Sarajevo un allarmatissimo rapporto al Consiglio di Sicurezza sostenendo che il referendum rappresenta un’aperta violazione degli accordi di Dayton. “Esiste un rischio serio – ha concluso Inzko nel suo rapporto – che la Bosnia Erzegovina scivoli verso la disintegrazione, con conseguenze significative per la pace e la sicurezza internazionale”.
L’iniziativa del nazionalista Dodik ha suscitato anche la condanna unanime da parte dei Ministri degli Esteri europei, che hanno sottolineato come questa potrebbe frenare il processo d’integrazione della Bosnia nell’UE, ed è stata sconfessata fin da subito anche dal governo di Belgrado. Il primo ministro serbo Aleksandar Vucic ha chiesto a Dodik di riconsiderare la decisione sul referendum, ma ha ricevuto un netto rifiuto. Il leader serbo-bosniaco aveva già minacciato un’iniziativa analoga nel 2011, che all’epoca fu scongiurata proprio dall’intervento europeo. Oggi la situazione appare però più grave, con una volontà referendaria alimentata anche dalle crescenti tensioni interne dovute alla crisi economica (la Bosnia ha un tasso di disoccupazione tra i più alti d’Europa) e alla dilagante corruzione. Un altro fattore ha poi contribuito all’insoddisfazione nei confonti delle autorità bosniache: l’arresto di Naser Oric, comandante dell’esercito bosniaco durante il conflitto degli anni ’90. Recentemente assolto dal Tribunale dell’Aja, esistono ancora contro di lui una serie di capi d’imputazione per fatti commessi contro l’entità serba, per i quali è stato spiccato da tempo un mandato di cattura internazionale da parte della Serbia. Arrestato dalle autorità svizzere il 10 giugno scorso, Oric è stato estradato in Bosnia – e non in Serbia, dov’era accusato –  e quasi subito rilasciato.
RM