L’Irlanda di Bobby Sands. La memoria nei corpi

«Sono un prigioniero politico. Sono un prigioniero politico perché sono l’effetto di una guerra perenne che il popolo irlandese oppresso combatte contro un regime straniero, schiacciante, non voluto, che rifiuta di andarsene dalla nostra terra (…) Credo di essere soltanto uno dei molti sventurati irlandesi usciti da una generazione insorta per un insopprimibile desiderio di libertà. Sto morendo non soltanto per porre fine alla barbarie dei Blocchi H o per ottenere il giusto riconoscimento di prigioniero politico, ma soprattutto perché ogni nostra perdita, qui, è una perdita per la Repubblica e per tutti gli oppressi che sono profondamente fiero di chiamare la “generazione insorta”».

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Il 5 maggio di 28 anni fa il volontario repubblicano Robert (Bobby) Sands si spegneva dopo 66 giorni di sciopero della fame nel carcere di Long Kesh, a Belfast. Da allora il suo nome è diventato un simbolo universale del martirio per la libertà. Riproponiamo la bella intervista rilasciata alcuni mesi fa a “Liberazione” da Silvia Calamati (curatrice del diario di Bobby Sands e autrice di altri testi-chiave sul conflitto).

Cosa ha rappresentato lo sciopero della fame del 1981 nella storia del movimento repubblicano irlandese? Parto da un esempio. Due anni fa in occasione del 25° anniversario della morte di Bobby Sands, grandi manifestazioni hanno ricordato in tutto il paese gli avvenimenti del 1981, dimostrando ancora una volta quanto gli irlandesi di tutte le generazioni sentano la propria vicinanza per i protagonisti di quella vicenda. Nell’agosto del 2006 gli ex prigionieri di Long Kesh, sia donne che uomini, molti con indosso le coperte con cui si vestivano durante lo sciopero della fame, sono sfilati lungo Falls Road, nel cuore della Belfast repubblicana, tra migliaia di persone. Dopo il movimento per i diritti civili alla fine degli anni Sessanta, represso duramente dagli inglesi fino all’epilogo nel “Bloody Sunday” nel 1972, lo sciopero della fame e la morte dei prigionieri repubblicani nel 1981 rappresenta il punto più alto della lotta degli irlandesi per la libertà. Anche perché la totale chiusura di Londra rispetto alle rivendicazioni dei prigionieri si è rivelata un boomerang. Dico questo perché l’attenzione internazionale suscitata da quella vicenda e il clima nuovo che si è cominciato a respirare da allora in Irlanda del Nord hanno portato a un rapido cambiamento della situazione. E’ stato dopo la morte di Bobby Sands e dei suoi compagni che lo Sinn Fein, la formazione che rappresenta storicamente il movimento repubblicano, ha cominciato quell’ascesa elettorale che lo ha portato a diventare il primo partito “nazionalista” dell’Ulster, una controparte credibile per gli unionisti e per lo stesso governo inglese. E’ allora che si è aperto quel processo che ha condotto alla firma dello storico “Accordo del Venerdì Santo”: il vero inizio, sebbene ancora parziale, di una stagione di pace nel paese.

Ma da quello che ha lasciato scritto, come possiamo immaginare lo stato d’animo di Bobby Sands in quel terribile momento? Nella prima pagina del suo diario Sands parla di sé come di uno dei tanti giovani irlandesi che hanno conosciuto la galera e la repressione in nome della libertà del proprio paese. Ciò che ne ha fatto una figura unica, è stata probabilmente la sua lucidità, la capacità di scrivere e spiegare al mondo quanto stava accadendo in quel momento nelle celle del carcere di Long Kesh. Il suo modo di raccontare ciò che stava vivendo è stato talmente forte che altri prigionieri, penso ai curdi detenuti a Diyarbakir, che molti anni dopo hanno dato vita a un lungo sciopero della fame, si sono esplicitamente ispirati a lui. Ricordo di aver parlato all’inizio degli anni Novanta con un giornalista di Dublino dell’ Irish Times che lo aveva incontrato nei primi giorni dello sciopero della fame. Mi colpì molto il suo modo di descriverlo. Mi disse: “Mi ha fatto pensare ai mistici irlandesi del Medioevo. Mostrava una consapevolezza estrema del gesto che stava compiendo e che avrebbe portato fino alle estreme conseguenze, ma sembrava avere dentro una grande serenità”.

Oggi c’è un progetto che prevede di trasformare Long Kesh in un campo di calcio. Cosa si sta facendo sul terreno della memoria di questi lunghi anni di guerra? Credo non abbia senso pensare di cancellare il carcere di Long Kesh. In quel luogo è stata scritta una terribile pagina di storia che non può essere dimenticata o cancellata così, con un tratto di penna. Deve rimanere così com’è perché continui a raccontare ciò che ha rappresentato, in modo che tutti possano riflettere su quanto accaduto. Il problema è che il governo di Londra vuole fare tutt’altro. Così, dopo l’accordo del Venerdì Santo è stata creata una commissione, denominata Historical Enquiries Team, a cui è affidato il compito di fare luce su tutte i capitoli più controversi della storia recente dell’Irlanda del Nord. Solo che si tratta di una speciale sezione della polizia, vale a dire lo stesso corpo che ha coperto e nascosto violenze e uccisioni quando non ha partecipato attivamente alla loro realizzazione. Non a caso le organizzazioni per la tutela dei diritti umani l’hanno soprannominata “Gate to the truth”, il cancello della verità: lo strumento con cui le autorità inglesi aprono a loro piacimento solo qualche spiraglio sui tanti casi senza giustizia in cui sono stati coinvolti in oltre trent’anni soldati, poliziotti e membri dei gruppi paramilitari lealisti.

Ma a dieci anni dagli accordi di pace qual è la situazione in Irlanda del Nord? Molte cose sono cambiate e stanno cambiando ancora adesso, ma temo solo in apparenza. Belfast e Derry sono quasi irriconoscibili: i vecchi quartieri sono stati ristrutturati, ovunque ci sono locali e case nuove. Sono arrivati i soldi, anche se la disoccupazione continua a colpire soprattutto i giovani delle zone cattoliche. Certo, si vive meglio e emerge una volontà di pace e di dialogo tra le due comunità. Ci sono segnali di contatti e di iniziative comuni soprattutto da parte delle associazioni di donne. Sul fondo resta però un problema, quello del disarmo dei gruppi paramilitari lealisti. L’Ira lo ha già fatto, molte formazioni orangiste ancora no. Guido Caldiron

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