(di Svetlana Broz)
Nel 1979, durante l’ultimo anno dei miei studi in medicina, mi preparavo a sostenere un esame nel quale si studiava anche la chirurgia di guerra. Confesso che in quel momento ero profondamente convinta che quella materia, almeno per quanto riguardava il mio Paese, non poteva non considerarsi anacronistica. Ma appena 12 anni dopo, le fanfare di guerra hanno iniziato a strombettare anche in Jugoslavia… Fin dal primo giorno del conflitto, su tutti i media, oltre che nelle conversazioni private, si è potuto leggere e ascoltare soltanto degli orrori causati dalla guerra. Per tre anni non ho fatto altro che scontrarmi con le parole che determinavano esclusivamente il male. Ho assistito personalmente alla rottura di molte amicizie secolari, provocata dall’impossibilità di determinare quale dei nazionalismi portava con sé la maggiore quantità del male; e tutto questo in una città cosmopolita come Belgrado. Mi sembrava come se la metropoli europea nella quale ero nata si fosse trasformata in un alveare nel quale ogni ape, dopo aver prodotto la sua parte del favo di miele, lo proteggeva gelosamente con il proprio nazionalismo e al posto del polline depositava l’odio, alimentato scrupolosamente dalle tristi conversazioni degli ormai sordi ex amici. Rifiutandomi di credere che in quella follia generale non fosse rimasto più niente di umano, sono partita verso i territori coinvolti dal conflitto, per cercare di essere d’aiuto almeno ad una persona colpita dalla sventura o dalla malattia. E mentre curavo le donne e gli uomini dei tre maggiori gruppi etnici, mi sono accorta del loro bisogno di aprirsi e di raccontare, all’inizio molto timidamente, quello che gli era accaduto. Quelle brevi confidenze mi hanno fatto comprendere quanto grande era la loro sete di verità, una verità che, proprio lì dove stavano cadendo le granate, aveva molte più sfumature rispetto all’immagine in bianco e nero diffusa a Belgrado e nel resto del mondo. Scoprire che perfino nel peggiore dei mali la bontà umana esiste, a prescindere dal Dio nel quale si crede, è stato un primo segno di speranza che ha risvegliato in me il bisogno di mettere da parte per un po’ il mio stetoscopio e di impugnare al suo posto un registratore, con il quale andare a raccogliere testimonianze autentiche, raccontate dai membri di tutti e tre i maggiori gruppi etnici. Le persone nelle quali mi imbattevo avevano vissuto in condizioni a dir poco terribili: inizialmente nelle loro case distrutte, nelle cantine umide, mentre fuori piovevano le bombe, e successivamente, dopo essere stati costretti a fuggire, nelle case degli altri, come profughi, in qualche villaggio sperduto e sconosciuto, accompagnati dal rimbombo della tetra retorica sulla omogeneizzazione etnica, propagata dai leader nazionalisti e ugualmente spaventosa come l’esplosione delle granate. Ottenere la loro confidenza, lo confesso, è stato molto difficile. Avevano paura di tutto: della pubblicazione dei loro nomi ma anche delle persone dell’altro gruppo etnico che li avevano aiutati a sopravvivere. In molti mi chiedevano di restare anonimi, sia per proteggere se stessi che coloro dei quali mi stavano parlando. Erano consapevoli di vivere in un mondo nel quale regnava l’intolleranza e l’uniformità del pensiero. Non ho potuto fare altro che rispettare le loro volontà. Nelle normali circostanze della vita la bontà umana viene considerata come qualcosa di naturale e spesso non si nota nemmeno. Ma quando i tempi diventano malvagi, quando la sopravvivenza comincia a dipendere dalle norme etiche e morali di un individuo e quando la frase che afferma «Homo homini lupus est» acquista tutto il suo significato, allora la capacità di sacrificarsi, trasformandosi nella vittima solo per il bene dell’altro, si cristallizza come una perla sulla sabbia, estratta da una conchiglia che stava sul fondo del mare. Qualcuno doveva immergersi in quel mare, cercare quelle perle e unirle in una collana. Senza di esse, la nube scura dei crimini compiuti dai singoli, e non importa quanti essi siano stati, terrebbe per sempre imprigionati nel buio perenne tutti noi che siamo nati su queste terre, nelle quali, malgrado tutto, vivono ancora oggi molte persone oneste e generose, persone delle quali nessuno parla mai. Sono convinta che ogni individuo sarà tenuto a rispondere per i crimini che ha commesso e non importa quanto tale processo dovrà durare. Ma le persone che si sono distinte per il loro coraggio, per la loro bontà, riceveranno mai un riconoscimento? Le generazioni future devono sapere ed essere coscienti che nel mondo sono esistite persone di questo genere. «Le generazioni future devono sapere che nelle nostre terre sono esistite persone capaci di sacrificarsi e trasformarsi in vittime solo per il bene degli altri, come perle sul fondo del mare»
(da “Avvenire” del 22/4/2009)