L’inferno ucraino di Zhadan

Avvenire, 22 gennaio 2021

Gli echi dell’ultima guerra europea ci sono arrivati da lontano, quasi impercettibili. Abbiamo smesso di ascoltarli troppo presto, anche prima che scoppiasse la pandemia, fino quasi a dimenticarci che nella remota periferia orientale del Vecchio continente prosegue ancora oggi un conflitto scoppiato nella primavera del 2014. Solo l’arma potente della letteratura poteva riportarcelo alla memoria fino a farcene percepire i suoni, gli odori e le sensazioni ma rifuggendo al tempo stesso ogni retorica. Ci è riuscito alla perfezione Serhij Zhadan, considerato il più importante scrittore ucraino contemporaneo, con un poderoso affresco sugli orrori e le assurdità di una guerra che “non ha niente di eroico, di ideologico o di predeterminato”. Il convitto (Voland, traduzione di Giovanna Brogi e Mariana Prokopovyc, pp. 320, euro 17) è una discesa negli abissi dell’Ucraina raccontata con gli occhi dei civili non combattenti ma anche un romanzo di formazione realistico e crudele, in cui il protagonista riflette sulla propria identità individuale e collettiva. La vicenda si svolge nell’inverno del 2015 in un centro del Donbas caduto nelle mani delle truppe separatiste russe mentre l’esercito ucraino sta per lasciare la città, ormai circondata. Nel pieno dei combattimenti il giovane insegnante Pasha vuole riportare a casa il nipote tredicenne ospitato in un convitto che si trova al di là della linea del fronte. Ma per attraversare la città e raggiungere l’istituto è costretto ad avventurarsi in aree dilaniate dalla guerra, deve vedersela con terreni minati, posti di blocco, scantinati, rifugi e personaggi assurdi. Già accostata a La strada di Cormac McCarthy, la sua odissea ricorda il viaggio di Dante nella selva oscura. Qui Caronte ha le sembianze di un tassista soprannominato Iguana che guidando come un pazzo lo traghetta nella terra di nessuno. Il suo Paradiso è invece l’edificio dove incontra un misterioso giornalista straniero che lo aiuta ad accedere all’altro lato del fronte. Pasha, il protagonista, è un personaggio complesso che cerca di nascondersi dalla realtà e di isolarsi, rimanendo neutrale nei confronti del conflitto che dilania il suo paese. Ma finirà inevitabilmente per esserne travolto fino a trasformare il suo percorso in un viaggio metaforico in cui si lascia trascinare dalle circostanze, dagli eventi e dalle persone che incontra. Ma oltre all’orrore si imbatte anche in un’umanità che gli consente di sperare in un futuro migliore. Il convitto è il capitolo conclusivo della trilogia che Zhadan aveva iniziato con La strada del Donbas e proseguita con Mesopotamia (anch’essi usciti in italiano con Voland), tre romanzi ambientati in Ucraina e legati dal medesimo filo conduttore della difficoltà di superare i traumi nei paesi dell’ex Unione Sovietica.
Serhij Zhadan è oggi una delle icone dell’Ucraina post-Maidan. Non ha ancora cinquant’anni ma ha già all’attivo una ventina di libri, tra romanzi e raccolte di poesia, ed è un intellettuale militante che ha scelto di non abbandonare il suo paese e di diventare anche un ambasciatore della cultura ucraina in tutto il mondo. Prima della pandemia organizzava iniziative umanitarie, teneva conferenze nelle università statunitensi e visitava periodicamente i soldati impegnati nei fronti di guerra nel Donbas mentre la fondazione benefica che ha fondato fornisce aiuti umanitari alle città colpite dal conflitto.

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