“Spioni, fascisti ed esaltati”, Chiarite le colpe storiche della strage di Brescia

(di Michele Brambilla)

Siccome in Italia l’impunità dei bombaroli non è una sorpresa ma una tragica routine, la lettura della sentenza non provoca più né lo stupore né la rabbia di tanti anni fa. In aula solo un’anziana signora pronuncia, anzi sussurra un quasi timido «vergogna» prima di scoppiare in lacrime: chissà chi ha lasciato, quel 28 maggio 1974. C’è amarezza. Ma non sorpresa. Nessuno si faceva illusioni. Troppo tempo è passato perché si potesse ricostruire la verità «al di là di ogni ragionevole dubbio», come il Codice impone. Troppi depistaggi, troppe omertà, troppe ritrattazioni avevano reso l’inchiesta un puzzle impazzito e non più ricomponibile. Ma proprio quei depistaggi, quelle omertà e quelle ritrattazioni, se da una parte impediscono di arrivare a una verità giudiziaria, dall’altra consentono di giungere a una verità storica.E cioè che per piazza della Loggia, così come per quasi tutte le altre stragi, uomini dello Stato hanno coperto, nascosto, deviato. Al di là delle assoluzioni, un quadro fosco di connivenze e intrecci inconfessabili sembra fissato per essere consegnato, se non ai giudici, agli storici. La formula scelta ieri dalla Corte d’assise per assolvere equivale alla vecchia insufficienza di prove. Vuol dire che le prove non bastano, ma almeno in parte ci sono. Non le prove delle responsabilità personali degli imputati; ma quelle del folle agitarsi di un mix di vecchi nostalgici del fascismo, di giovani ed esaltati estremisti, di spie, di ufficiali infedeli. E’ lo scenario che vede al centro Maurizio Tramonte, 58 anni, l’unico degli imputati a prendersi il disturbo di venire almeno qualche volta in aula a rispondere alla Corte.
Tramonte è l’uomo che ha dato il la al processo. Nei primi anni Settanta bazzicava la sede del Msi di Padova, tanto frequentata da teste calde da indurre Almirante a chiuderla. Per teste calde si intendono gli aderenti a Ordine Nuovo, un’organizzazione con due livelli, uno palese e uno clandestino. Così come tanti altri della sua risma, anche Tramonte era, oltre che un militante di estrema destra, anche un confidente dei servizi segreti: in codice, la «fonte Tritone».
Al centro di controspionaggio padovano mandava informative tenute in gran conto, se è vero che proprio in questo processo l’ex generale del Sid Gianadelio Maletti (già condannato per depistaggio per la strage di piazza Fontana) ha raccontato che Tramonte è stato, dal ’72 al ’76, «una fonte molto attendibile». Dunque che cosa dicevano quelle informative di Tramonte? Che si stava preparando un grosso attentato al Nord. Attenzione alle date.
Nel mese di maggio del 1974 a Brescia c’è tensione, ci sono piccoli attentati, qualche pestaggio. Il 19, alle tre di notte, Silvio Ferrari, un estremista di destra, salta in aria in città dilaniato da una bomba che stava trasportando sulla sua moto. Il 21 maggio ci sono tafferugli ai funerali di Ferrari e il Comitato antifascista annuncia una manifestazione per il giorno 28. Lo stesso giorno, 21 maggio, al Giornale di Brescia viene inviato un volantino firmato dal «Partito Nazionale Fascista, sezione Silvio Ferrari» in cui si dice che «l’ora è giunta… le bombe e i mitra faranno sentire la loro voce» e si avverte la popolazione di non frequentare «tutte le fogne in cui hanno sede i gruppuscoli rossi in genere». La questura e la prefettura decidono di non rendere pubblico questo volantino per non creare allarme. E veniamo a Tramonte.
Il 23 e il 25 maggio 1974 ordinovisti veneti si riuniscono in un albergo di Abano Terme e decidono di passare all’azione. Tramonte lo riferisce al controspionaggio: ci sarà un grosso attentato. Quando e dove? Non è specificato. Ma la manifestazione del 28 maggio in piazza della Loggia a Brescia, come abbiamo visto, era già stata fissata e annunciata. Un «obiettivo sensibile», diremmo oggi. Eppure il 28 maggio, un martedì, i carabinieri di Brescia sono a Mantova per un corso di formazione che di solito si svolgeva il sabato; il comandante del loro nucleo operativo, il capitano Francesco Delfino, è in Sardegna. In piazza della Loggia a dirigere l’ordine pubblico c’è un vice brigadiere della questura. E quando, a massacro appena consumato, la piazza viene lavata – eliminando possibili indizi sull’esplosivo – al sindacalista Franco Castrezzati che chiede spiegazioni viene risposto: «Lei pensi a fare il suo mestiere».
Prove di un depistaggio già partito o solo coincidenze? Il capitano Delfino era tra gli imputati di questo processo ma è stato assolto. Restano tante ombre. Ad esempio. Perché le informative di Tramonte restano nascoste per diciassette anni? Le troverà nel 1991 il giudice milanese Guido Salvini nell’archivio del Sismi di Padova. Perché non furono trasmesse subito ai giudici? La «fonte Tritone» viene identificata nel 1993. Tramonte comincia a parlare e conferma tutto. Ma nel 2000 ritratta in gran parte. La Cassazione non gli crede e così parte il processo. Nel frattempo però, muoiono alcuni testimoni importanti. Ci fermiamo qui. Questo è solo un piccolo spaccato di un’inchiesta con millecinquecento testimoni e novecentomila pagine di verbali.
Il processo conclusosi ieri è quasi certamente l’ultimo sulle bombe di quella stagione. Almeno per le stragi che vanno da piazza Fontana (dicembre 1969) al treno Italicus (agosto 1974), l’ambiente finito sotto la lente dei giudici è sempre stato questo: estrema destra e servizi segreti. La magistratura ha alzato ieri, forse definitivamente, bandiera bianca. Ma non è colpevole del fallimento. Anzi la sua impotenza richiama altre responsabilità che ora solo la politica potrebbe smascherare, se ne avrà voglia.

(da La Stampa del 17 novembre 2010)

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