Capita ormai sempre più di rado che in Italia escano romanzi sul conflitto anglo-irlandese. L’argomento non tira più, sostengono gli editori. E poi la guerra è finita da tempo, è quello che pensano molti, un po’ frettolosamente. In effetti anche la Seconda guerra mondiale si è conclusa da tempo, eppure si continuano a pubblicare molti romanzi sull’argomento. Gli stessi scrittori irlandesi tendono ormai a non trattare più l’argomento, da tempo un filone considerato un po’ passatista, intellettualmente scivoloso e si dedicano molto più volentieri ad altri temi. Per fortuna ogni tanto si presenta qualche eccezione, anche in Italia. Una di queste è Un’ombra sul fiume di Elisabetta Ranghetti, romanzo che racconta la storia di un fotografo, di una combattente dell’Ira e di un’artista dublinese. Un intreccio di vite lungo quarant’anni che parte da Belfast nel 1972 e arriva quasi fino ai giorni nostri. Dopo essersi cimentata con due romanzi sul conflitto israelo-palestinese, Ranghetti ha virato la sua attenzione e diretto la sua penna verso l’Irlanda, cogliendo le non poche similitudini tra i due scenari bellici. Entrambi segnati, guarda caso, da un peccato originale britannico. Ho conosciuto Elisabetta di recente e ho subito apprezzato la sua volontà di conoscere, di documentarsi, di approfondire una questione che non si presta alle banalizzazioni. Mentre scriveva il libro abbiamo avuto frequenti scambi e conversazioni, nelle quali sono emerse talvolta anche opinioni diverse, ma credo che il suo romanzo sia riuscito laddove altri, in passato, avevano fallito. Ovvero a cogliere la complessità di quanto accaduto in Irlanda del Nord. Non è solo una piacevole lettura ma anche uno strumento utile a far comprendere le ragioni e le cause di una guerra che ha lacerato l’Europa in anni recenti e resta, per molti, tuttora sospesa in un limbo di equivoci e letture propagandistiche.