Derry, i compromessi della rinascita

Reportage da Derry
di Riccardo Michelucci
(agosto 2010)

Lofti Jalloul guarda con incredulità mista a rassegnazione le macerie del suo piccolo ristorante distrutto da un’autobomba all’inizio di agosto. Destinato all’imponente stazione di polizia di Strand road nel centro cittadino, l’ordigno del gruppo dissidente repubblicano Oglaigh na hEireann (gaelico per “volontari irlandesi”) ha avuto l’unico effetto di distruggere alcuni fondi nell’area circostante, tra cui il negozio di kebab del giovane tunisino, scampato quasi per miracolo all’esplosione. “Non bastasse la crisi, con le famiglie in difficoltà e le attività commerciali costrette a chiudere per mancanza di clienti, adesso ci si mettono pure questi autoproclamati liberatori a complicare le cose”, commenta con amarezza un anziano tassista irlandese. Proprio in questi giorni l’Irish News, il più diffuso quotidiano nazionalista, è uscito in un’edizione speciale con l’intervista esclusiva a un membro di spicco del gruppo dissidente e una condanna unanime da parte della società, delle istituzioni e delle chiese nei confronti di chi continua a esprimere il proprio dissenso con la violenza. Derry, oggi più di Belfast, è lo specchio della situazione politica e il termometro del processo di pace in Irlanda del nord. Non solo e non tanto perché è una delle principali roccaforti dei dissidenti – il cui consenso popolare pare crescere in modo inversamente proporzionale agli attentati messi a segno contro la polizia – quanto perché dentro e fuori la cinta muraria dell’antica città medievale si gioca uno scontro politico e culturale destinato con ogni probabilità a segnare le sorti future del paese. Camminando per le sue strade si scopre che la storica controversia sul nome (‘Londonderry’ per gli unionisti protestanti nostalgici dell’Impero britannico, soltanto ‘Derry’ per la maggioranza cattolico-nazionalista) è stata risolta con un curioso equilibrismo. Entrambe le denominazioni sono infatti utilizzate per festeggiare con giganteschi manifesti colorati la designazione di “Derry-Londonderry” a città ‘britannica’ della cultura per il 2013. 
Nelle settimane scorse la seconda città dell’Irlanda del nord ha battuto la concorrenza delle inglesissime Birmingham, Norwich e Sheffield – secondo gli esperti assai più qualificate e attrezzate – ed è stata scelta con una decisione dal sapore tutto politico. Quale occasione migliore poteva esserci di ribadire che Derry è parte del Regno Unito proprio nell’anno in cui cadrà il quarto centenario della costruzione delle mura e della sua sottomissione ai mercanti e agli impresari londinesi? Solo pochi anni fa una decisione simile sarebbe stata considerata un’eresia dall’intero mondo repubblicano. Adesso gli esponenti cittadini di Sinn Fein l’hanno invece accolta con grande soddisfazione: uno su tutti il parlamentare locale ed ex volontario dell’I.R.A. Raymond McCartney, lo stesso che nel 1980 partecipò al primo sciopero della fame nel carcere di Long Kesh, rifiutando il cibo per ben 53 giorni. Una decisione tutta politica e giunta appena pochi giorni dopo la pubblicazione del rapporto sulla “Bloody Sunday”, arrivato ben dodici anni dopo l’avvio dell’inchiesta che ha portato il governo britannico a fare pubblica ammenda per la carneficina compiuta dall’esercito il 30 gennaio 1972. Eppure la sensazione che le sacrosante rivendicazioni irredentiste siano state gradualmente accantonate sull’altare di un futuro di sviluppo e crescita economica emerge in modo ancora più evidente di fronte al Free Derry Museum, aperto tre anni fa nell’ex ghetto cattolico di Bogside per raccogliere la memoria del movimento per i diritti civili stroncato nel sangue nel ’72. La struttura è ospitata in un edificio che reca ancora i segni dei colpi di mitragliatrice dei paracadutisti ed è animata da un gruppo di volontari e familiari delle vittime. Uno tra i più attivi è John Kelly, fratello maggiore di Michael, 17 anni, la più giovane vittima della “domenica di sangue”. Dopo aver lottato quasi quarant’anni per ottenere giustizia, oggi John non si scandalizza a vedere Derry definita “città britannica” e si dice convinto che la cultura possa favorire un ulteriore, significativo, passo avanti verso la pace e la riconciliazione. E il futuro di una città in cui oltre un terzo degli abitanti ha meno di 35 anni – e dunque non era neanche nato ai tempi della strage – passa inevitabilmente anche dalla riqualificazione dei vecchi luoghi del dolore e della guerra. Dietro alla Guildhall, l’austero edificio vittoriano sede del governo cittadino, sta prendendo forma il nuovo ponte della pace sul fiume Foyle: 13,5 milioni di sterline di fondi europei per un passaggio pedo-ciclabile che entro Pasqua 2011 collegherà il centro cittadino con il Waterside proprio all’altezza dell’area occupata fino a pochi anni dalla gigantesca base militare britannica di Ebrington. Un complesso di circa undici ettari che un tempo ospitava un migliaio di soldati di Sua Maestà e che torna a essere pubblico dopo quasi due secoli di utilizzo da parte dell’esercito. Al suo interno vi troverà spazio entro un paio d’anni un grande spazio per le arti, la cultura e lo sport.

Bloody Sunday, un’altra vittima reclama giustizia

La fine di Michael Bradley, scomparso improvvisamente qualche settimana fa per un attacco di cuore, è passata completamente sotto silenzio. Michael aveva 22 anni, quel tragico 30 gennaio 1972, quando fu raggiunto dai proiettili sparati ad altezza d’uomo dal primo battaglione dei paracadutisti britannici, nel corso della cosiddetta “Domenica di sangue” di Derry. Riuscì a scampare alla mattanza, ma i colpi ricevuti alle braccia e al torace l’hanno costretto a vivere il resto della sua vita da disabile. Non gli hanno però impedito di battersi, per quasi quattro decenni, affinché fosse fatta giustizia sulla strage perpetrata in nome degli interessi coloniali di Sua Maestà. Ha sempre continuato a vivere nella sua città, e raramente si perdeva una seduta dell’interminabile inchiesta Saville che dovrebbe finalmente far luce su quanto accadde qual giorno maledetto. Entro la fine dell’anno è attesa la pubblicazione del rapporto conclusivo del giudice, ma ben pochi s’illudono che venga fatta finalmente giustizia. Michael Bradley è il settimo ad andarsene, dei quattordici feriti gravemente nella “Bloody Sunday”.