Non sono pochi i timori della comunità internazionale nei confronti del referendum che si terrà in Bosnia-Erzegovina domani, domenica 15 novembre, e che rappresenta una chiara minaccia nei confronti della stabilità e della pace nello stato bosniaco. La consultazione è stata voluta a tutti i costi dal presidente della Repubblica Srpska Milorad Dodik, l’entità serbo-bosniaca dell’area, che ha chiesto e ottenuto il consenso dell’assemblea legislativa su un referendum popolare che potrebbe di fatto delegittimare la fragile architettura istituzionale faticosamente creata dalle ceneri del brutale conflitto degli anni ’90. I cittadini saranno chiamati a esprimersi su un unico quesito referendario, apparso tutt’altro che imparziale già nella sua formulazione: “sostieni le leggi incostituzionali e non autorizzate imposte dall’Alto Rappresentante e dalla comunità internazionale in Bosnia-Erzegovina, in particolare le leggi imposte sulla Corte statale e il Procuratore e l’attuazione delle loro decisioni sul territorio della Repubblica Srpska?”. Criticando la figura dell’Alto Rappresentante delle Nazioni Unite incaricato di sorvegliare sul processo di pace in Bosnia si mettono di fatto in discussione gli accordi di Dayton del 1995 – dei quali in questi giorni ricorre peraltro il ventennale – e si rischiano di compromettere anni di progressi verso la pace e la stabilità nella regione. Il nazionalista Dodik ha sottolineato lo spirito della sua iniziativa usando parole forti, spiegando all’assemblea che “si tratta di scegliere tra preservare la nostra costituzione e i nostri diritti internazionali o continuare sulla strada della degradazione dei diritti della Republika Srpska”. Se l’esito del referendum sarà quello da lui auspicato, le istituzioni dell’entità serbo-bosniaca potranno disobbedire al potere giudiziario federale, avviando di fatto la distruzione del sistema giuridico creato nel dopoguerra. Secondo molti osservatori, la consultazione di domenica equivarrebbe addirittura a una forma velata di dichiarazione d’indipendenza da parte dell’entità serbo-bosniaca, un primo passo verso una secessione dalle conseguenze imprevedibili, specie adesso che la forza internazionale di peacekeeping presente sul territorio è stata ridotta a poche centinaia di effettivi. Con la secessione della repubblica serba di Bosnia soltanto la federazione croato-musulmana resterebbe a far parte dell’attuale Bosnia Erzegovina, ma di fatto imploderebbe l’intera architettura amministrativa e politica costruita a Dayton venti anni fa. Il primo a denunciare questa situazione è stato l’Alto Rappresentante Valentin Inzko, che nelle settimane scorse ha inviato da Sarajevo un allarmatissimo rapporto al Consiglio di Sicurezza sostenendo che il referendum rappresenta un’aperta violazione degli accordi di Dayton. “Esiste un rischio serio – ha concluso Inzko nel suo rapporto – che la Bosnia Erzegovina scivoli verso la disintegrazione, con conseguenze significative per la pace e la sicurezza internazionale”.
L’iniziativa del nazionalista Dodik ha suscitato anche la condanna unanime da parte dei Ministri degli Esteri europei, che hanno sottolineato come questa potrebbe frenare il processo d’integrazione della Bosnia nell’UE, ed è stata sconfessata fin da subito anche dal governo di Belgrado. Il primo ministro serbo Aleksandar Vucic ha chiesto a Dodik di riconsiderare la decisione sul referendum, ma ha ricevuto un netto rifiuto. Il leader serbo-bosniaco aveva già minacciato un’iniziativa analoga nel 2011, che all’epoca fu scongiurata proprio dall’intervento europeo. Oggi la situazione appare però più grave, con una volontà referendaria alimentata anche dalle crescenti tensioni interne dovute alla crisi economica (la Bosnia ha un tasso di disoccupazione tra i più alti d’Europa) e alla dilagante corruzione. Un altro fattore ha poi contribuito all’insoddisfazione nei confonti delle autorità bosniache: l’arresto di Naser Oric, comandante dell’esercito bosniaco durante il conflitto degli anni ’90. Recentemente assolto dal Tribunale dell’Aja, esistono ancora contro di lui una serie di capi d’imputazione per fatti commessi contro l’entità serba, per i quali è stato spiccato da tempo un mandato di cattura internazionale da parte della Serbia. Arrestato dalle autorità svizzere il 10 giugno scorso, Oric è stato estradato in Bosnia – e non in Serbia, dov’era accusato – e quasi subito rilasciato.
RM