(articolo uscito su Avvenire di oggi)
Il trascorrere del tempo rende spesso giustizia a certi morti diventati icone, riconoscendo loro un ruolo decisivo al crocevia della Storia. È quanto sta accadendo a Bobby Sands, il prigioniero politico irlandese morto esattamente 29 anni fa, il 5 maggio 1981, dopo 66 giorni di sciopero della fame nel carcere britannico di massima sicurezza di Long Kesh, alla periferia di Belfast. Più passano gli anni, più si rafforza l’universalità del suo messaggio e il valore simbolico della sua scelta estrema. E mentre si esaurisce il terzo decennale del suo sacrificio per la libertà, la vicenda di Bobby Sands continua a essere raccontata in tutto il mondo ed è finalmente entrata anche nei programmi didattici delle scuole irlandesi, rompendo un lungo tabù. C’è riuscita grazie a una biografia dedicata ai più giovani, realizzata dal sociologo Denis O’Hearn e da Laurence McKeown, scrittore ed ex compagno di prigionia di Sands. Opportunamente ampliato e arricchito da un vasto apparato iconografico anche a colori, il volume esce in questi giorni anche in Italia per l’editore romano Castelvecchi (“Il diario di Bobby Sands. Storia di un ragazzo irlandese”), col contributo della giornalista Silvia Calamati, già curatrice degli scritti dal carcere di Sands e di altre opere fondamentali sul conflitto anglo-irlandese. Un libro che cerca di rispondere alla cruciale domanda: com’è possibile che un ragazzo comune proveniente da una famiglia operaia di Belfast sia diventato un simbolo planetario della lotta per la libertà? Nato a Belfast nel 1954, Bobby Sands entrò nell’I.R.A. a soli 17 anni, ritenendolo l’unico modo per difendere la sua gente e combattere le ingiustizie causate dall’occupazione britannica. Organizzatore instancabile di iniziative per migliorare le condizioni di vita della sua comunità, fu arrestato più volte e più volte condannato senza prove a suo carico, divenendo infine il leader di una tragica stagione di lotte carcerarie durata quattro anni e culminata con la sua clamorosa elezione al parlamento di Westminster, mentre era già in corso lo sciopero della fame che l’avrebbe portato alla morte. “Sands – spiega Calamati – trasformò la prigione in un campo di battaglia, usò i suoi scritti e i suoi gesti come armi per abbattere l’oppressione coloniale e la discriminazione nei confronti del suo popolo, riuscendo infine a diffondere valori come la libertà, l’amicizia, la solidarietà e l’amore per la vita”. Il suo sciopero della fame avrebbe ispirato altre epiche lotte carcerarie (una su tutte, quella di Mandela, nella prigione di Robben Island) e continua a essere un esempio seguito in tutto il mondo, dagli studenti iraniani ai prigionieri di Guanatanamo, dai dissidenti turchi a quelli dell’Europa dell’est. Eppure le pagine di questo libro ci confermano che la sua storia è quella di una persona normale costretta a vivere eventi eccezionali e diventata, senza volerlo, il simbolo di un’intera generazione. Quando morì, la stampa e l’opinione pubblica britannica cantarono incautamente vittoria, illudendosi che il governo di Margaret Thatcher avesse vinto il braccio di ferro con gli indomiti prigionieri irlandesi del carcere-lager di Long Kesh. Invece il sacrificio di Bobby Sands e dei suoi nove compagni che morirono dopo di lui, anche loro rifiutando il cibo per ottenere il riconoscimento dello status di prigioniero politico, favorì l’avvio della decisiva svolta politica culminata in tempi recenti con l’implementazione degli accordi di pace e l’abbandono della lotta armata da parte dell’I.R.A.. “La nostra vendetta sarà il sorriso dei nostri bambini”, scrisse Bobby Sands in uno dei passaggi più toccanti e cruciali dei suoi pensieri dal carcere. Oggi quella frase compare accanto alla gigantografia del suo volto su un muro di Falls Road, in una Belfast pacificata ormai da anni. E suggella l’ultima grande vittoria di un eroe dei nostri tempi che, sconfitti tutti i tentativi di criminalizzazione, è diventato fonte d’ispirazione e d’insegnamento anche per i più giovani.
Riccardo Michelucci