La lezione norvegese

La democrazia, la solidarietà, la tolleranza sono i migliori antidoti al razzismo, al terrorismo, alla follia integralista. Ne è sicuro il primo ministro socialista norvegese Jens Stoltenberg, che ha invocato questi valori universali nel commovente discorso pronunciato davanti al municipio di Oslo dopo il massacro dell’isola di Utoya. La follia del giovane estremista di destra Anders Behring Breivik ha precipitato cinque milioni di norvegesi in una realtà di terrore sconosciuta dal 1940, quando i nazisti iniziarono l’occupazione di un paese che durante la guerra si era dichiarato neutrale. Eppure, il dramma nazionale consumatosi venerdì 22 luglio non è riuscito a far perdere loro la consapevolezza che la democrazia è il primo valore da difendere e sostenere. “Nessuno distruggerà la nostra democrazia e il nostro impegno per una società migliore. La nostra risposta alla violenza sarà ancora più democrazia e umanità. Lo dobbiamo alle vittime e alle loro famiglie” ha ribadito Stoltenberg. Il premier, al governo dal 2005, non ha invocato regimi di polizia, non ha annunciato leggi speciali, non ha prefigurato scenari apocalittici per difendere la sicurezza nazionale, ma ha ribadito la volontà di continuare sulla strada del rispetto, della tolleranza e del multiculturalismo. I norvegesi dovranno superare lo choc e l’orrore, il dolore e la rabbia, e non potranno neanche gettare la colpa della tragedia sul diverso, l’islamico, il terrorista perché la minaccia è venuta dall’interno. Finora, solo poche centinaia di loro hanno aderito al sito che chiede la pena di morte per Breivik. I potenti anticorpi della loro invidiabile democrazia stanno già rispondendo nel modo giusto.
RM

I quesiti irrisolti della guerra di Bosnia

10 luglio 2008, camera ardente presso l’ex base Onu di Potocari, con le 308 bare da inumare nella cerimonia del giorno dopo

Tante sono le immagini e le emozioni, gli odori e le sensazioni che ho portato con me in Italia dopo la breve, ma memorabile visita a Srebrenica. Su tutte però ci sono le domande: chiare, inequivocabili e allo stesso tempo rimaste drammaticamente prive di risposta, relativamente a quanto è accaduto solo 13 anni fa. Da allora, da quel tragico 1995 che vide la fine del conflitto nella ex Jugoslavia, non uno dei problemi rimasti sul tappeto è stato risolto. Srebrenica, un tempo cittadina turistica con quasi 40.000 abitanti per il 70% bosgnacchi (musulmani di Bosnia), è adesso un paesone spettrale, popolato da meno di 10.000 persone, ora in gran parte serbe di religione ortodossa. Gli effetti della pulizia etnica sono evidenti dai numeri e dall’odio palpabile che si respira in città: dove i manifesti della cerimonia dell’11 luglio – il genocidio accertato dalla giustizia internazionale – si mescolano a quelli del giorno successivo, una sorta di ‘contromanifestazione’ organizzata dai nazionalisti serbi per commemorare i loro morti. Rivendicando un improbabile ruolo di vittime che puzza di negazionismo nei confronti del genocidio attuato dagli uomini di Mladic nel 1995 con la benedizione dell’Onu. Tra i monti che circondano i palazzi ancora crivellati dalle granate e dai colpi dei cecchini, la popolazione vive drammaticamente divisa, lacerata, come sospesa in un limbo di ‘assenza di guerra’, più che di vera e propria pace. Qui si capisce molto chiaramente che il potenziale incendiario della ‘polveriera balcanica’ è rimasto intatto, e che nessuna delle domande relative alle responsabilità dell’Onu e dei governi occidentali ha ancora ricevuto una spiegazione. Srebrenica è il simbolo del fallimento della comunità internazionale e di una rimozione dalle coscienze dell’Occidente. Quell’Occidente che ancora ragionava con l’incoscienza e il dinsicanto che seguiva la caduta del Muro di Berlino ma ancora non immaginava l’11 settembre. Perché la Nato non intervenne in quell’occasione, a difesa delle migliaia di disperati mandati al macello a Srebrenica e nei vicini prati di Potocari? Perché le Nazioni Unite scomparvero dalla zona delle operazioni e lasciarono via libera ai carnefici serbi? Che senso ha avuto affrettarsi a ricostruire alcuni luoghi simbolici (tra tutti il ponte di Mostar e il parlamento di Sarajevo), se poi i Balcani sono oggettivamente usciti dalle agende politiche delle grandi potenze mondiali? Come si può essere così miopi – o in malafede – e non vedere che i Balcani rischiano di diventare in questo modo sempre più un territorio fertile per il radicalismo islamico fomentato dai paesi arabi? Come pensare di ridare una speranza a questi popoli, di creare democrazie stabili e durature se non riusciremo ad assicurare una volta per tutte i colpevoli alla giustizia? RM