I quesiti irrisolti della guerra di Bosnia

10 luglio 2008, camera ardente presso l’ex base Onu di Potocari, con le 308 bare da inumare nella cerimonia del giorno dopo

Tante sono le immagini e le emozioni, gli odori e le sensazioni che ho portato con me in Italia dopo la breve, ma memorabile visita a Srebrenica. Su tutte però ci sono le domande: chiare, inequivocabili e allo stesso tempo rimaste drammaticamente prive di risposta, relativamente a quanto è accaduto solo 13 anni fa. Da allora, da quel tragico 1995 che vide la fine del conflitto nella ex Jugoslavia, non uno dei problemi rimasti sul tappeto è stato risolto. Srebrenica, un tempo cittadina turistica con quasi 40.000 abitanti per il 70% bosgnacchi (musulmani di Bosnia), è adesso un paesone spettrale, popolato da meno di 10.000 persone, ora in gran parte serbe di religione ortodossa. Gli effetti della pulizia etnica sono evidenti dai numeri e dall’odio palpabile che si respira in città: dove i manifesti della cerimonia dell’11 luglio – il genocidio accertato dalla giustizia internazionale – si mescolano a quelli del giorno successivo, una sorta di ‘contromanifestazione’ organizzata dai nazionalisti serbi per commemorare i loro morti. Rivendicando un improbabile ruolo di vittime che puzza di negazionismo nei confronti del genocidio attuato dagli uomini di Mladic nel 1995 con la benedizione dell’Onu. Tra i monti che circondano i palazzi ancora crivellati dalle granate e dai colpi dei cecchini, la popolazione vive drammaticamente divisa, lacerata, come sospesa in un limbo di ‘assenza di guerra’, più che di vera e propria pace. Qui si capisce molto chiaramente che il potenziale incendiario della ‘polveriera balcanica’ è rimasto intatto, e che nessuna delle domande relative alle responsabilità dell’Onu e dei governi occidentali ha ancora ricevuto una spiegazione. Srebrenica è il simbolo del fallimento della comunità internazionale e di una rimozione dalle coscienze dell’Occidente. Quell’Occidente che ancora ragionava con l’incoscienza e il dinsicanto che seguiva la caduta del Muro di Berlino ma ancora non immaginava l’11 settembre. Perché la Nato non intervenne in quell’occasione, a difesa delle migliaia di disperati mandati al macello a Srebrenica e nei vicini prati di Potocari? Perché le Nazioni Unite scomparvero dalla zona delle operazioni e lasciarono via libera ai carnefici serbi? Che senso ha avuto affrettarsi a ricostruire alcuni luoghi simbolici (tra tutti il ponte di Mostar e il parlamento di Sarajevo), se poi i Balcani sono oggettivamente usciti dalle agende politiche delle grandi potenze mondiali? Come si può essere così miopi – o in malafede – e non vedere che i Balcani rischiano di diventare in questo modo sempre più un territorio fertile per il radicalismo islamico fomentato dai paesi arabi? Come pensare di ridare una speranza a questi popoli, di creare democrazie stabili e durature se non riusciremo ad assicurare una volta per tutte i colpevoli alla giustizia? RM

In 40.000 sul luogo del genocidio

(Articolo uscito anche su ”Avvenire” di oggi)

DA SREBRENICA – ”Questo luogo evoca un dolore immenso e indescrivibile, ma da qui dobbiamo ripartire per creare una società multietnica che rispetti i diritti e offra a tutti un futuro migliore”. Con queste parole il giovane sindaco di Srebrenica, Abdurahman Malkic, ha aperto ieri la cerimonia di sepoltura delle vittime nel tredicesimo anniversario del genocidio del 1995. 308 nuovi corpi sono stati sepolti accanto ai circa 3.000 già esumati dalle fosse comuni e ricostruiti grazie alle ricerche col Dna. Ma all’appello mancano migliaia di cadaveri: le stanze del centro specializzato della vicina città di Tuzla sono piene di sacchi contenenti le ossa ancora da esaminare, mentre ogni anno vengono scoperte nuove fosse comuni.


Sotto il sole cocente di questo spicchio di territorio bosniaco al confine con la Serbia, intorno a un palco gremito di politici, autorità e leader religiosi delle principali confessioni, quasi 40.000 persone si sono sparpagliate nei prati del gigantesco memoriale di Potocari, a pochi chilometri da Srebrenica. Lo stesso luogo dove, in quei fatali giorni di luglio di 13 anni fa, migliaia di civili furono ammassati, selezionati e mandati al macello dalle milizie serbo-bosniache del generale Mladic, sotto gli occhi dei caschi blu olandesi che negarono loro ogni forma di protezione. Nei prati intorno all’ex base Onu – un luogo del terrore trasformato qualche anno fa in centro per la conservazione della memoria – sono arrivati nella prima mattinata anche i partecipanti alla marcia per la pace che ripercorre a ritroso la “strada della morte” tra Srebrenica e Tuzla. Quest’anno erano circa 3.000, arrivati da ogni parte del mondo, per la prima volta anche dalla Serbia. Nel 1995 fu quella l’unica via per tentare la fuga: molti vi riuscirono, ma non si contano quelli che furono catturati e uccisi per mano delle milizie o vennero straziati dalle mine nei boschi ora disseminati di fosse comuni. Tra quelli che scamparono quasi miracolosamente alla mattanza, ci fu anche Malkic che ieri ha parlato a nome delle migliaia di familiari intervenuti alla cerimonia, ricordando al mondo che Srebrenica rimane “una delle ombre più terrificanti della recente storia dell’umanità”. Per questo è necessario proseguire un lavoro – che durerà ancora anni – per ritrovare i resti e ridare un nome alle 8.000, forse 10.000 vittime di quei giorni. E per questo è indispensabile fare giustizia individuando e processando colpevoli e complici del genocidio. In settembre è attesa la sentenza del tribunale dell’Aja nei confronti del battaglione olandese sotto mandato Onu che non fece niente per impedire il peggior sterminio di massa avvenuto in Europa dopo la seconda guerra mondiale. Ma la speranza vera arriva da Belgrado, dove proprio due giorni fa il nuovo ministro della giustizia ha promesso che il governo serbo – ansioso di essere ammesso nel ‘salotto buono’ dell’Unione europea – farà tutto il possibile per catturare Mladic e Karadzic, tuttora latitanti.

RM