(di Alessandro Portelli)
Dopo la rimozione della scritta “Arbeit macht frei” dal cancello di Auschwitz, si è detto che si trattava di un attentato contro la memoria, di un tentativo di cancellarla. A me sembra invece che azioni del genere siano il risultato di una vera e propria ossessione per la memoria: un’ossessione che rende insopportabile l’esistenza di certi oggetti e che cerca di placarsi possedendoli e cancellandoli al tempo stesso, e si illude così di controllare e dominare anche la memoria altrui. E’ questo il fondamento emotivo dei revisionismi e dei negazionismi: più si affannano a cancellare, manipolare, nascondere queste memorie, più mostrano di essere dominati da quello che vorrebbero dominare. Solo chi non può dimenticare rimuove. Di questa ossessione, legata agli stessi eventi della guerra mondiale e della Shoah, fa parte anche il processo di beatificazione di Pio XII per le sue “virtù eroiche”. Io non so se esista una definizione di eroismo nella dottrina teologica o nei codici di diritto canonico; ma so che nel nostro linguaggio ordinario l’eroismo comporta sempre un’assunzione di rischio, un mettersi in gioco, mentre la capacità (o se vogliamo la virtù) mediatrice e diplomatica di Papa Pacelli durante la guerra e la Shoah consistette precisamente nel tenere fuori dal pericolo la sua istituzione e la sua persona, e di compiere a protezione dei perseguitati tutte, e solo, quelle azioni che si potevano compiere senza correre rischi. A rischiare, anche in seno alla Chiesa, furono altri. Può darsi pure che avesse ragione, e abbia fatto la cosa più saggia ed equilibrata, non sto qui a discuterlo. Ma mi sembra che l’insistenza sulla beatificazione, sua e di altri papi problematici come Pio IX (al di là della banalizzazione indotta dall’inflazione di santi e beati introdotta dal suo predecessore), abbia anch’essa a che fare più con questa ossessione della memoria che con virtù vere o presunte. Voi ricordate ambiguità, criticate silenzi, dubitate sulle esitazioni? E noi proprio per questo beatifichiamo: alla vostra memoria problematica sovrapponiamo una memoria canonica certificata, pacificata e vera per fede. Ora, la memoria non è né una cosa buona né una cosa cattiva: come la respirazione, è una funzione inevitabile degli esseri umani, in una certa misura è addirittura involontaria – non possiamo decidere di non avere memoria, così come non possiamo decidere di non respirare. Ma proprio per questo, come possiamo impegnarci su come respirare, su che aria vogliamo metterci nei polmoni, anche sulla memoria possiamo lavorare, esercitarci, fare attenzione, essere il più possibile coscienti di come e che cosa ricordiamo. Per questo, la memoria non è un dato stabile ma un terreno di conflitto: se abbassiamo per un attimo la vigilanza, la nostra mente sarà posseduta da cattive memorie, da memorie altrui: siamo come gli eroi cyberpunk di William Gibson, capaci di espandere all’infinito la propria coscienza nel ciberspazio, ma vulnerabili ogni momento dall’invasione del ciberspazio nell’intimo più profondo della propria psiche. L’ossessione conservatrice e reazionaria per la memoria nasce da qui: all’impossibilità di dimenticare e di far dimenticare incubi del passato si risponde cercando di controllarli e di sostituirli con memorie alternative. La resistenza, certo, sta nell’impedire la cancellazione dei segni e dei simboli, ed è un bene che la scritta di Auschwitz sia tornata al suo posto (a me piacerebbe che i segni della frammentazione a cui è stata sottoposta dai rapitori restassero visibili – segni di una seconda memoria, della memoria della profanazione). Ma la resistenza sta soprattutto dentro di noi, sta anche nella nostra capacità di ricordare senza dipendere troppo dai promemoria e dagli oggetti. In un memorabile racconto di Alice Walker, “Per uso quotidiano”, due sorelle si litigano un quilt, cimelio familiare patchwork in cui sono incorporati il lavoro di una nonna e frammenti dei suoi vestiti. La sorella “colta”, proprio come il committente del furto di Auschwitz, vuole farne un oggetto da collezionista, appeso al muro; la sorella campagnola è pure disposta a lasciarglielo fare, tanto “io sono capace di ricordarmi di nonna Dee anche senza il quilt”. La memoria siamo noi, e se il furto di un oggetto sia pure infinitamente simbolico bastasse a indebolirla vorrebbe dire che abbiamo già cominciato a dimenticare.
(da “Il Manifesto del 24 dicembre 2009)