Avvenire, 27 febbraio 2022
Forse la nuova edizione del romanzo Tiro al piccione (uscita in questi giorni per l’editore Rubbettino) riuscirà a far entrare definitivamente il romanzo di Giose Rimanelli nell’alveo dei classici della letteratura della Seconda guerra mondiale, togliendo una volta per tutte allo scrittore molisano l’etichetta di protagonista della contro-Resistenza. D’altra parte – come sottolinea la studiosa statunitense Sheryll Lynn Postman nella prefazione alla nuova edizione – Rimanelli era entrato nel conflitto nazionale per errore a diciassette anni e aveva partecipato alla guerra dalla parte della Repubblica di Salò non per ragioni politiche ma per mera scelta di sopravvivenza. Era appena uscito dal seminario e non sapeva niente di politica quando i nazifascisti gli offrirono la scelta tra combattere o morire. Sebbene sia narrato in prima persona singolare, il libro racconta la vicenda di un ex membro delle Brigate Nere ma è una versione romanzata della storia personale dell’autore ed è privo di alcun intento politico, se non quello di evidenziare gli orrori dell’Italia di quei mesi. Il primo a capirlo fino in fondo fu Cesare Pavese che nel 1950, pochi mesi prima di togliersi la vita, era rimasto folgorato dal manoscritto di quell’aspirante scrittore 25enne che gli aveva presentato il suo testo come “la storia di un giovane che ha visto la Resistenza dalla parte sbagliata”. Nonostante il tema assai arduo per l’Italia del Dopoguerra, Pavese lo definì “un libro apolitico” e aveva deciso infine di pubblicarlo nella collana I coralli, da lui stesso ideata per Einaudi qualche anno prima. Ma la morte improvvisa del grande scrittore piemontese rimise tutto in discussione. Italo Calvino e Natalia Ginzburg, le altre colonne della casa editrice di Torino, ritennero che l’affresco della guerra civile contenuto in quelle pagine fosse troppo fuori dagli schemi convenzionali e non se la sentirono di dare alle stampe il romanzo. Rimanelli, su consiglio di Elio Vittorini, lo propose allora a Mondadori, che lo fece finalmente uscire nella primavera del 1953.
Con uno stile di scrittura crudo ma dotato anche di toni drammaticamente poetici, Tiro al piccione racconta la storia di Marco Laudato, un giovane molisano che dopo lo sbarco degli americani in Sicilia si ritrova prima nell’esercito tedesco – dal quale riesce a fuggire – e poi diventa un soldato repubblichino. Non ha alcuna convinzione ideologica, non vuole combattere per la patria, non sceglie di andare al fronte ma sono piuttosto gli eventi a trascinarcelo quasi per forza d’inerzia. Il suo personaggio è la metafora di una generazione che fu lasciata priva di punti di riferimenti nel caos che seguì l’Armistizio del 8 settembre e che visse la vergogna di una scelta politica sbagliata, talvolta forzata. Dal libro fu tratto anche un omonimo film con la regia di Giuliano Montaldo.
Nel 1960, dopo aver pubblicato altri due romanzi con Mondadori, Rimanelli si trasferì negli Stati Uniti perché si sentiva incompreso dall’intelligenzia italiana dell’epoca. Dall’altra parte dell’Oceano continuò a scrivere, a lavora come critico letterario e a insegnare letteratura in alcuni dei più prestigiosi atenei statunitensi, diventando un pioniere degli Italian Cultural Studies, i corsi interdisciplinari dedicati alla cultura italiana. Avendo vissuto gran parte della sua vita negli Stati Uniti – dov’è morto nel 2018 all’età di 92 anni – non c’è dunque da stupirsi che sia oggi uno studioso più noto lì che in Italia. Quanto a Tiro al piccione, per decenni è stato ascritto frettolosamente al filone memorialistico della “letteratura dei vinti” ed è stato dimenticato, talvolta persino sminuito, non riscuotendo il successo che avrebbe meritato. L’ultima edizione del volume era uscita per Einaudi oltre trent’anni fa, nel 1991. Per l’indubbio valore letterario di un romanzo che è anche una vivida testimonianza storica sull’Italia contemporanea, quella di Rubbettino appare dunque un’importante riscoperta.